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«Gesù Cristo è lo stesso ieri, oggi e sempre! Non lasciatevi sviare da dottrine diverse e peregrine»

In quel piccolo tesoro poco conosciuto e poco frequentato dai cattolici, che è la Lettera agli Ebrei, si trova espresso un concetto che dovrebbe essere di per sé limpido ed evidente a qualsiasi cristiano, e che tuttavia, specie di questi tempi — tempi di neomodernismo e di protestantesimo strisciante, spacciati per cattolicesimo — pare che venga facilmente dimenticato, anche se poi, a parole, tutti sarebbero pronti ad affermare energicamente il contrario; eccolo (13, 9; traduzione dalla Bibbia di Gerusalemme):

Ricordatevi dei vostri capi, i quali vi hanno annunziato la parola di Dio; considerando attentamente l’esito del loro tenore di vita, imitatene la fede. Gesù Cristo è lo stesso ieri, oggi e sempre! Non lasciatevi sviare da dottrine diverse e peregrine, perché è bene che il cuore venga rinsaldato dalla grazia, non da cibi che non hanno mai recato giovamento a coloro che ne usarono…

Non ci sono diversi vangeli, non ci sono diversi cattolicesimi, non ci sono diverse teologie, e, soprattutto, non ci sono diverse chiese. La chiesa luterana, per esempio, non è un’altra chiesa: la vera Chiesa è una, ed una sola, quella fondata da Cristo, raccolta dagli apostoli e diffusa in tutto il mondo secondo un solo insegnamento, quella fedele alla sua Parola; la chiesa luterana è una contro-chiesa scismatica e apostatica, che si è allontanata in tutto dalle verità cristiane, e che ha aggiunto a tale colpa la ribellione violenta e l’incitamento a seguirla su tale strada, incitamento che fu prontamente raccolto dai principi tedeschi, avidi di mettere le mani sul bottino rappresentato dai beni della Chiesa cattolica. Altro che celebrare i cinquecento anni della cosiddetta riforma luterana; altro che concelebrare la messa insieme ai loro pastori. Papa Francesco ha commesso qualcosa di peggiore d’uno sbaglio: ha accreditato l’idea che il Concilio di Trento sia stato un errore, un abbaglio, una svista; che i cattolici, per cinque secoli, si siano inutilmente opposti al diffondersi delle dottrine protestanti; e che le anime si possono salvare imboccando qualsiasi strada e seguendo qualunque insegnamento, anche quello apertamente ribelle al Vangelo: il che significa aver dato ragione alla dottrina luterana della libera interpretazione delle Scritture, e torto alla dottrina cattolica, secondo la quale esiste una sola interpretazione veritiera, quella della Chiesa stessa. I luterani hanno negato il libero arbitrio, hanno soppresso cinque sacramenti su sette, riducendo a poca cosa anche i due superstiti, Battesimo ed Eucaristia; hanno negato il valore delle opere nella salvezza, hanno gettato via la sacra Tradizione, hanno negato il sacerdozio, hanno rifiutato l’obbedienza al Papa, hanno agitato l’ombra minacciosa della predestinazione, svalutando il valore redentivo del Sacrificio di Cristo; hanno sostenuto la comoda dottrina secondo la quale l’importante non è evitare il peccato, ma pentirsi dopo averlo fatto. In breve, hanno letteralmente distrutto la Chiesa, per quel che stava in loro e per quel che erano in grado di fare; e sarebbero andati ben oltre, se le forze lo avessero consentito loro: un assaggino se ne ebbe quando i lanzichenecchi entrarono a Roma, nel 1527, e la straziarono per mesi e mesi, irrompendo nelle chiese, insozzando gli altari, violentando le suore, trucidando i preti, torturando i fedeli e persino profanando le Ostie consacrate, con un furore veramente barbarico, quale neppure i saraceni avevano mostrato, allorché, nell’846, erano giunti a saccheggiare le basiliche di San Pietro e san Paolo, allora fuori le mura.

Quanto alla cosiddetta chiesa post-conciliare, espressione tanto cara ai modernisti che si spacciano per cattolici, ai loro cattivi teologi e ai loro pessimi vescovi e cardinali, che abusano dell’abito cattolico per diffondere dottrine eretiche, con scandalo e danno gravissimo per le anime delle pecorelle loro affidate, noi non sappiamo letteralmente che cosa essa sia. Ammettere che esista una cosa del genere, equivale a riconoscere che, prima del Concilio — l’unico che essi conoscono, e che hanno sempre in bocca: il Vaticano II; peraltro, spesso e volentieri interpretato alla loro maniera, cioè forzando i documenti e pretendendo d’interpretarne non le decisioni effettive, ma un non meglio precisato "spirito", con la lettera minuscola — esisteva un’altra chiesa, e che tale "vecchia" chiesa è stata poi superata, resa obsoleta, e, di fatto, rottamata, dalla "nuova" chiesa, uscita dal triennio conciliare 1962-1965, una chiesa nuova di zecca, meravigliosamente incamminata verso il Progresso, la Modernità e la piena realizzazione dell’Uomo integrale. Ebbene, una simile credenza o è delirio, o è apostasia: perché, come ci ricorda la Lettera agli Ebrei, non possono esistere due chiese, succedutesi nel tempo, dato che Gesù è sempre lo stesso, e la Chiesa si fonda su di Lui e su nessun altro: Gesù Cristo è lo stesso ieri, oggi e sempre! E il suo autore aggiunge, per buona misura, questa calda raccomandazione: Non lasciatevi sviare da dottrine diverse e peregrine, perché è bene che il cuore venga rinsaldato dalla grazia… Senza l’aiuto della Grazia di Dio, infatti, il cuore si smarrisce, la mente si confonde, insuperbisce, crede di aver capito tutto, e invece non capisce nulla, perde di vista la verità essenziale. La Verità del Vangelo è una, ed una sola: Gesù Cristo, Figlio di Dio, morto e risorto per amore degli uomini, insieme al Vangelo da Lui insegnato: il Vangelo dell’amore per Dio e per il prossimo.

Le espressioni "chiesa pre-conciliare" e chiesa post-conciliare", infatti, hanno sempre messo in imbarazzo quelli stessi che le adoperano: da un lato, costoro muoiono dalla voglia di usare un tale linguaggio, per rimarcare la loro modernità e per esaltare la grande opera di "svecchiamento", di "rinnovamento", di "approfondimento" che, per fortuna della Chiesa e dei fedeli, essi stanno facendo, dopo secoli e secoli di bieco immobilismo, di truce conservatorismo, di arroccamento egoistico e sterile su posizioni attardate e indifendibili, insomma, per dirla con padre Ermes Ronchi, per prendere le distanze dalla mai abbastanza biasimata "pedagogia della paura", con cui la "vecchia" chiesa, quella pre-conciliare, riempiva i fedeli di spavento, con l’inconfessabile scopo di spegnere sul nascere ogni discussione democratica, ogni critica costruttiva, ogni iniziativa liberale e liberatoria. Dall’altro lato, però, essi avvertono il disagio che tali espressioni inevitabilmente suscitano, non solo fra chi non la pensa e non sente come loro, ma anche in loro stessi: la lingua scotta loro in bocca, quando si vantano di essere gli alfieri della "chiesa post-conciliare", perché, così facendo, confessano di aver operato una rottura con la continuità del Magistero. Ora, la loro astuzia (o, almeno, l’astuzia di quelli che, tra loro, sono più abili), consiste nel non voler dare l’impressione, e quindi nel non ammettere, mai e poi mai, nemmeno sotto tortura, che una "discontinuità" vi è stata: se lo facessero, dovrebbero anche riconoscere di aver creato qualche cosa di nuovo e di diverso, e, con ciò, di aver voltato le spalle a duemila anni di Magistero, alla Tradizione, ai Padri della Chiesa, al Vangelo stesso, così come è stato sempre interpretato, sempre, fino al 1962: a parte, naturalmente, gli scismatici protestanti, i quali, come tutti gi altri eretici, hanno preteso, nel corso del tempo, di staccarsi dalla Chiesa cattolica proprio per essere liberi di leggere e interpretare la Bibbia a loro piacimento e in tutta libertà. Perciò, i modernisti sono presi fra i due corni del dilemma: ammettere che una discontinuità vi è stata, e allora riconoscere che il Vaticano II, il loro grande feticcio, ha spezzato la storia del Magistero e la continuità della Chiesa, assumendosi tutta la responsabilità e tutte le conseguenze di un tale fatto; oppure negare che vi sia stata, e parlare di "continuità" fra la chiesa di prima e di dopo il Concilio, e, con ciò, minimizzare e mortificare la portata della "svolta" da essi impersonata, a cominciare dalla famigerata "svolta antropologica" che ha letteralmente sovvertito la teologia cattolica e che ha tolto l’onore e il timore di Dio, per insediare, al posto del suo Regno, quello terreno dell’Uomo, un regno del tutto immanente, laico e secolarizzato, ma, in compenso, il regno dell’Uomo, cioè di un uomo che pretende, sotto, sotto, di farsi il dio di se stesso, e di mandare finalmente in pensione quell’altro, quel Dio trascendente, del quale gli è venuto a noia riconoscersi creatura.

È strano che si debba ricordare ai cattolici, e che i cattolici debbano ricordare a se stessi, una verità così semplice, così lapalissiana: Gesù è sempre lo stesso, è uno ed uno solo; dunque, anche la sua Chiesa, quella vera, non può che essere una. Gesù non ha detto a san Pietro di fondare "una"chiesa, a san Giovanni di fondarne un’altra, e a sant’Andrea di fondarne una terza: niente affatto; ha detto a san Pietro; Pasci le mie pecorelle; e glielo ha ripetuto tre volte, dopo avergli chiesto, per tre volte: Mi ami tu? Con ciò, Egli ha voluto ricordare che esiste un solo modo di pascere le pecorelle che Egli ha affidato ai suoi pastori: amare Lui e Lui solo, restare fedeli al suo insegnamento, diffondere la sua parola e nient’altro che la sua parola. Tutto il resto non viene da Lui, ma dal diavolo. La superbia dei teologi modernisti e l’arroganza dei cardinali e dei vescovi progressisti vengono tutte da lì: dalla pretesa, irresponsabile e blasfema, di "aggiungere" qualcosa, e sia pure senza avere il fegato di dirlo apertamente, forse nemmeno a se stessi, ma con la falsa motivazione di voler chiarire, illuminare, spiegare, approfondire, arricchire, e così via. Approfondire cosa, la Parola di Dio? Ma andiamo! Se Gesù avesse voluto essere chiaro sino in fondo, lo avrebbe fatto: invece ha affermato esplicitamente che non tutto gli uomini possono capire; e che parlava e agiva in un modo tale, che gli orecchi che non volevano udire, non avrebbero udito, e che gli occhi che non avrebbero voluto vedere, non avrebbero visto. Perfino ai suoi discepoli, durante l’Ultima Cena, ha detto che altre cose avrebbe voluto insegnare loro, ma che essi, per ora, non ne erano capaci. Però ha promesso l’aiuto dello Spirito Santo, il Consolatore, il Paraclito, e ha assicurato che, con quello, molte altre cose sarebbero divenute chiare, e la verità sarebbe penetrata più in profondità (confronta il Vangelo di Giovanni, 16, 12-15).

La verità del Vangelo non viene approfondita dai signori teologi, modernisti o altro che siano: perché non è una verità che viene dall’intelligenza umana. Tutti i grandi teologi, fino al 1965, hanno sempre concepito il loro lavoro come un sostegno alla fede, e hanno sempre chiesto l’aiuto della grazia nei passi perigliosi, quando temevano di smarrirsi. San Tommaso d’Aquino, la mente più acuta e più penetrante di tutto il medioevo, faceva precisamente così: quando un concetto non gli era sufficientemente chiaro, piantava la penna e andava in chiesa, si gettava ai piedi dell’altare, abbracciava il tabernacolo e, piangendo e sospirando, se necessario anche per l’intera notte, chiedeva il soccorso dell’Altissimo. Ma i teologi neomodernisti, i Rahner, i Kasper, i Schillebeeckx, i Congar, i De Lubac, loro no, per carità; per loro tutto è chiaro, sono così intelligenti e istruiti, hanno letto tanti libri; loro non hanno bisogno di essere umili, non hanno bisogno del Consolatore, perché si consolano da soli, elaborando una dottrina pseudo cattolica che è, in realtà, puramente umana: un vero e proprio umanesimo superficialmente verniciato da cristianesimo. Si ingannano loro, e, quel che è peggio, ingannano le anime: per questo la loro responsabilità è gravissima. Con la loro pretesa di "rinnovare" la chiesa, in nome di un non mai chiarito "dialogo" con il mondo moderno, essi, di fatto, la stanno tradendo, la stanno sviando, la stanno vendendo per un piatto di lenticchie: il prezzo della popolarità mal guadagnata che si attirano, dicendo e insegnando ciò che piace al mondo, ma che dispiace a Dio. Stanno sovvertendo la morale cattolica, e hanno la pretesa blasfema di farlo in nome di Dio stesso. Tanto, come ha detto papa Francesco, con una rozza semplificazione che voleva essere lodata come esempio di franchezza, Dio non è cattolico. E allora, se Dio non è cattolico, a che serve ancora la morale cattolica? A che serve tenersi lontano dalla tentazione, dal peccato? Tanto, c’è sempre la misericordia di Dio. Facile; troppo facile. Somiglia molto a quel che diceva Lutero del peccato: pecca fortemente, ma poi pentiti ancor più fortemente. Del resto, questa tendenza è nel DNA dei gesuiti, e lo è sempre stata: ma siamo ben lontani dall’insegnamento di Gesù Cristo. Il quale non disse alla donna adultera: Va’, io non ti condanno; ma le disse invece: Va’, io non ti condanno; e non peccare più. C’è una bella differenza: una differenza fondamentale. Per Gesù il peccato esiste: esiste talmente, che l’anima peccatrice, se non si pente, va all’inferno. L’ha detto e ridetto mille volte; l’ha insegnato con le sue parabole, ad esempio quella del ricco Epulone; ha ammonito, rimproverato: ma ora sono giunti i teologi e i preti modernisti, e hanno fatto sparire l’inferno. È arrivato Enzo Bianchi, e si parla sempre della chiesa del futuro. Quale chiesa del futuro? Una chiesa diversa, un’altra chiesa? Ma se Gesù è uno solo, come può esserci una chiesa del futuro, diversa dalla chiesa del presente, del passato, di sempre?

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Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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