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«Figlio, hai peccato? Non farlo più e prega per le colpe passate»

Il peccato, questo sconosciuto. Chi si azzarda a parlarne ancora, nella società materialista, edonista e relativista del terzo millennio? Paradossalmente (ma forse neanche tanto) non ne parla quasi più proprio chi dovrebbe parlarne, come ne ha sempre parlato, e non si vede perché oggi dovrebbe essercene meno bisogno: la Chiesa cattolica, nella persona dei pontefici, dei cardinali, degli arcivescovi, dei vescovi e, soprattutto, dei sacerdoti; nonché dei catechisti, delle suore che svolgono funzioni educative, degli insegnanti di religione cattolica nella scuola elementare, media e superiore; e, dulcis in fundo, dei teologi.

Già, i teologi: quelli stessi dai quali è partita l’infezione modernista, camuffata da "svolta antropologica", al tempo del Concilio Vaticano II; quelli stessi che hanno preso, a partire da quell’evento, un ruolo di primo piano nella formulazione del Magistero ecclesiastico, un ruolo che non avevano mai avuto prima, diciamo pure un potere, una capacità di esercitare pressione, di spingere la Chiesa nel suo insieme in una certa direzione piuttosto che in un’altra. Senza dubbio gran parte della responsabilità in questo strano "silenzio" a proposito del peccato deriva dalle loro scelte, dai loro orientamenti, dalle loro indicazioni pedagogiche. Padre Ermes Ronchi, per esempio, ha deprecato, per il passato, quella che lui ha definito una "pedagogia della paura". Benissimo: via la paura; via, se si vuole, anche il timor di Dio (che pure, se non andiamo errati, è uno dei sette doni dello Spirito Santo: così almeno ci è stato insegnato nell’infanzia; lei che ne dice, padre Ronchi?) e lasciamo il credente libero da un tale peso, da un così grave fardello.

Eppure, la questione del peccato è centrale. Sì, lo sappiamo: vi sono pochissime cose, forse nessuna, che riescano più sgradite, più fastidiose, più moleste, ai sensibili ed emancipati orecchi degli uomini contemporanei. Parlare loro del peccato, perfino rivolgendosi a un uditorio di cattolici credenti e praticanti (figuriamoci gli altri…) equivale a infilar loro un dito nell’occhio. Ma come, essi diranno, ci si viene ancora a parlare del peccato! Ci trattano come bambini, dunque: ancora con queste bubbole! Via, lo sanno tutti che il peccato è una roba di tanti anni fa, che oggi non va più di moda. Sì, è vero, la Chiesa si ostina a parlare di quella cosa lì, il Peccato originale; e sostiene che il Battesimo è necessario per cancellarne gli effetti: ma insomma, è evidente che si tratta di un simbolo, non di una cosa reale, non è vero?

Ahimè, cari cattolici modernisti (a proposito, lo sapevate che essere modernisti equivale ad essere eretici, cioè non cattolici, ma anti-cattolici? no? e allora rileggetevi l’enciclica Pascendi di san Pio X, anno 1907), le cose non stanno proprio come voi pensate; e, se lo pensate davvero, vuol dire che vi hanno ingannati. Vi hanno ingannati i teologi della "svolta antropologica", i quali, capovolgendo la giusta prospettiva e mettendo l’uomo al centro del discorso teologico, e non più di Dio, hanno finito per perdere la bussola e non vedere più proprio ciò che è essenziale: la creaturalità dell’uomo, e dunque la sua fragilità, e dunque la sua inclinazione al peccato. D’altra parte, il peccato non è solo l’esito della fragilità umana: è anche il possibile effetto della sua grandezza, cioè della sua libertà. L’uomo è creatura, e dunque fragile, limitato, imperfetto; ma è anche creatura fatta a immagine e somiglianza di Dio: e dunque proteso verso ciò che è forte, illimitato, perfetto, e dotato dei mezzi per fare la sua scelta tra il bene e il male. Se non fosse dotato di tali strumenti, il giudizio di Dio nei confronti dell’uomo non avrebbe alcun senso (e non si capisce come Lutero riesca a sorvolare su questo punto, dopo aver tranquillamente negato il libero arbitrio; dopo di che, non ci si venga a dire che anche Lutero aveva ragione e che questi cinquecento anni dall’apostasia protestante hanno giovato alle anime, o, addirittura, alla Chiesa stessa).

Il peccato è l’offesa fatta a Dio, trasgredendo alla sua legge. Ma la legge di Dio è imperniata sull’amore: dunque, il peccato è il rifiuto e la ribellione contro l’Amore nella sua forma più alta e perfetta, l’amore di Dio nei confronti dell’uomo e di tutto il creato. La società secolarizzata ha sostituito il concetto di "peccato" con quello di "errore", perché, nella cultura laicista, non c’è alcun Dio al quale ribellarsi, ma, semmai, c’è una società alla quale si deve rendere conto del proprio operato, e l’errore è una trasgressione delle norme sociali, a loro volta fondate sulla morale naturale: ovviamente, una "morale naturale" interpretata in senso laicista, e cioè in maniera completamente diversa da come la interpreta la Chiesa. Per la Chiesa, la morale naturale è la prima delle tre leggi che Dio ha dato all’uomo per riconoscere il bene dal male: la prima e la più semplice, la più istintiva, perché inscritta tacitamente nel cuore di ogni essere umano (le altre due sono la Legge mosaica e infine la Legge suprema, quella annunciata da Gesù Cristo mediante il Vangelo e mediante la sua stessa Passione, Morte e Resurrezione).

Il fatto che gli uomini della Chiesa, ormai da alcuni anni, parlino sempre meno del peccato, e sempre più timidamente; che parlino semmai, anche troppo, della misericordia di Dio, come se questa annullasse quello, perfino indipendentemente dal pentimento del peccatore, è uno dei segnali che mostrano fino a che punto la Chiesa cattolica si sia lasciata afferrare, irretire e risucchiare nel vortice della secolarizzazione; fino a che punto abbia introiettato, metabolizzato e fatto proprie le categorie intellettuali e spirituali della cultura profana; fino a che punto abbia abdicato al proprio ruolo di guida morale della società intera, composta da credenti e non credenti, per andare a rimorchio di un mondo che è altro da lei, che è l’opposto di lei, il "mondo" nel senso in cui san Giovanni adopera la parola nel quarto Vangelo: quel mondo che, pur avendo udito l’annuncio del Vangelo, rifiuta di credere, rifiuta di convertirsi, e, con protervia, si ribella e osa levare la sua mano sacrilega e omicida contro il Signore e Redentore degli uomini.

Crediamo di sapere come si è giunti a questa situazione: vi si è giunti con un malinteso ecumenismo e con un malinteso dialogo inter-religioso; perché, una volta ammesso il principio che la Verità di Cristo è solo una fra le tante, possibili verità (ammissione esplicita che, nei documenti del Concilio Vaticano II, non c’è ancora, quantunque ve ne siano le premesse logiche e storiche; ma che sarebbe poi venuta, alla spicciolata, nella catechesi sciagurata di singoli preti e di singoli vescovi), è un fatto abbastanza logico che a questa verità relativa, in cui si è auto-confinato il Vangelo, non corrisponda più il concetto di "peccato" nel senso cattolico, ma, per riguardo alle altre verità, religiose e non religiose, per riguardo ai giudei, agli islamici, ai buddisti e agli atei, bisogna che il concetto di "peccato", troppo scopertamente cattolico, troppo reciso, troppo, si direbbe oggi, "integralista", ceda il passo ad un concetto più tenue, e soprattutto più "laico", tale che sia suscettibile di essere accettato da chiunque, anche dai non cattolici: ed ecco allora la sostituzione del peccato con l’errore. Ma l’errore è una cosa puramente umana: non ha niente a che vedere con la vita soprannaturale. Il peccato non è solo un errore, è anche un errore: ma, prima di tutto, è una rottura dell’ordine cosmico voluto da Dio, e fondato sul suo Amore. Pertanto, il peccato rompe la relazione con Dio e, in un certo senso, infrange l’ordine della creazione: ogni peccato è un peccato di superbia, perché è come se l’uomo volesse trascendere la propria condizione di creatura e farsi il dio di se stesso. Infatti, ponendosi al posto di Dio, l’uomo pretende di potersi fare da sé la propria legge; non accetta la legge che gli viene imposta dall’esterno: come Adamo ed Eva nel Paradiso terrestre, non accetta di dover obbedire e sottostare ad un limite.

Ora, è proprio qui che i teologi modernisti insorgono e si scandalizzano: nel concetto di obbedienza a una legge esterna. Questa cosa non piace loro, non riescono a mandarla giù. Si appigliano a ogni pretesto per sostenere che quella di Dio non è una legge esterna; cercano di confondere i piani, d’intorbidare le acque; rivendicano la dignità dell’uomo per sostenere che l’uomo non deve sottostare ad alcuna norma esterna, e che Dio non può volere da lui una cosa simile: mentono spudoratamente, perché, se non si vuol giocare con le parole, Dio è una realtà esterna all’uomo, e, se impone una norma all’uomo, non lo fa da padrone irragionevole e quasi da tiranno, ma con tutta la sapienza e l’amore di un padre premuroso nei confronti dei suoi figli. La verità è che i teologi modernisti sono stati morsi, al pari degli esponenti della cultura materialista, edonista e relativista "profana", dal veleno della irreligiosità: detto in parole molto semplici, hanno perso la fede, però non hanno l’onestà intellettuale di ammetterlo e trarne le logiche conseguenze. Del resto, non saprebbero che altro fare: preferiscono fingere di essere ancora dei teologi "cattolici", mentre sono i portatori di una infezione modernista, e pertanto agiscono a tradimento, sorprendendo la buona fede dei credenti che li ascoltano, come lupi travestiti da agnelli. Allo stesso modo si comportano preti, vescovi e cardinali di eguale tendenza: invece di spretarsi, come dovrebbero fare per coerenza e per onestà, seguitano a indossare l’abito e a predicare dal pulpito, ma ciò che dicono non è conforme al Vangelo di Gesù, è un nuovo vangelo, fatto a misura dell’uomo moderno, superbo e ribelle a Dio: è piuttosto un vangelo secondo loro.

Dice il Libro del Siracide, un tempo noto come il Libro dell’Ecclesiastico (nella traduzione della Bibbia di Gerusalemme, 21, 1-11):

Figlio, hai peccato? Non farlo più

e prega per le colpe passate.

Come alla vista del serpente fuggi il peccato:

se ti avvicini, ti morderà.

Denti di leone sono i tuoi denti,

capaci di distruggere vite umane.

Ogni trasgressione è come spada a doppio taglio:

non c’è rimedio per la sua ferita.

Spavento e violenza fanno svanire la ricchezza;

così la casa del superbo sarà devastata.

La preghiera del povero va dalla sua bocca agli orecchi di Dio,

il giudizio di lui verrà a suo favore.

Chi odia il rimprovero segue le orme del peccatore,

ma chi teme il Signore si convertirà di cuore.

Da lontano si riconosce il linguacciuto,

ma l’assennato conosce il suo scivolare.

Chi costruisce la sua casa con ricchezze altrui

è come chi ammucchia pietre per l’inverno.

Mucchio di stoppa è una riunione di iniqui;

la loro fine è una fiammata di fuoco.

La via dei peccatori è appianata e senza pietre;

ma al suo termine c’è il baratro degli inferi.

In fondo, è terribilmente semplice. Gli uomini sanno benissimo quando peccano, e sanno di peccare quando decidono di cedere a determinate tentazioni, di fare determinate scelte o di percorrere determinate strade. Lo sanno, ma lo fanno ugualmente; e questo, secondo le coordinate della cultura moderna, è perfettamente normale. Nel corso dei secoli, e specialmente negli ultimi decenni, si è verificata una progressiva naturalizzazione dei fenomeni morali. Se un desiderio, un istinto, una brama, bussano alla porta, perché resistere, perché opporsi? Chi vuol esser lieto, sia; — dice Lorenzo de’ Medici – di doman, non c’è certezza.

Che c’entra Dio con le scelte dell’uomo? La civiltà moderna è stata costruita sul mito aberrante della libertà assoluta e dei diritti incondizionati: è logico, quindi, che gli uomini moderni siano costantemente protesi a rivendicare sempre nuovi diritti, a cogliere sempre nuove occasioni di piacere, di utilità, di avanzamento. Essi si sentono pienamente padroni della loro esistenza, dal concepimento alla morte (vedi aborto ed eutanasia); se insorgono delle difficoltà, se il corpo o la mente manifestano i sintomi del disagio e della sofferenza, si rivolgono alla scienza: compresa quella pseudoscienza, o piuttosto magia nera, che è la psicanalisi freudiana.

La neochiesa modernista, da parte sua, specie di questi ultimi tempi, è più che mai lontana dall’idea di parlare del peccato e di farne una questione centrale: non vuol guastarsi i rapporti con le masse, non vuol perdere la facile popolarità male acquistata, promettendo misericordia a tutti a nome del Signore, anche a quelli poco o punto pentiti del male fatto. Perfino l’aborto è stato derubricato a peccato, grave sì, ma insomma non poi così tanto, visto che, per rimetterlo, non è necessario coinvolgere il vescovo: basta il primo prete che si trova nel confessionale, e poi ci si confessa così, come si potrebbe confessare il furto di un sacchetto di caramelle, e quello ha la facoltà di rimandare assolti, magari con qualche Ave Maria da recitare come tutta penitenza. Questo, almeno, è quanto si ricava da quell’ambiguo, confusionario, avventato documento che è la Amoris laetita di papa Francesco, che tante perplessità ha suscitato nella parte più responsabile del clero; mentre i soliti servili adulatori non hanno trovato proprio nulla da eccepire, semmai si son profusi in lodi e felicitazioni per una così magnanima dimostrazione di apertura e di comprensione nei confronti degli uomini e delle donne moderni.

Ma il papa non è il padrone della Chiesa, non è il padrone del gregge; è solo un operaio, il capo degli operai, se si vuole: è solamente il successore di san Pietro. Il solo e vero capo della Chiesa è Gesù Cristo, ed il suo solo ispiratore legittimo è lo Spirito Santo: non lo spirito del mondo, non l’opportunità "politica", non i calcoli di convenienza, non la ricerca di demagogica di ciò che piace alla gente. Gesù non ha concesso nulla alla ricerca di una facile popolarità, mai; schivo e riservato, tentava addirittura di nascondersi dalle folle, quando si facevamo troppo insistenti; e raccomandava a coloro che guariva, di non parlarne a nessuno, di non diffondere la notizia dei suoi miracoli. Faceva, cioè, tutto il contrario di certi alti personaggi che imperversano nella neochiesa modernista dei nostri giorni, e che non paiono mai sazi di applausi, di moine, dei flash dei fotografi. In fatto di morale, poi, benché dolce nella forma, specie con i più miseri e infelici, era tuttavia estremamente severo ed esigente nella sostanza: rimandò libera l’adultera, perché gli premeva di salvarle la vita dagli energumeni che volevano lapidarla; ma non minimizzò affatto la sua colpa e le raccomandò di non peccare più. Disse inoltre che se l’occhio ti dà scandalo, devi strappartelo; se la mano o il piede ti danno scandalo, devi tagliarli via. Non prometteva il Paradiso a tutti, ma solo a quanti ascoltano il Vangelo, credono e si fanno battezzare. Chi crederà e sarà battezzato, sarà salvo; ma chi non crederà, sarà condannato.

Perché il papa Francesco non dice mai queste cose? Eppure sono le cose che dice Gesù nel Vangelo: chi non crederà, sarà condannato. Perché dunque non lo dice? Perché non lo dicono Enzo Bianchi, Walter Kasper e tutti i teologi della malaugurata "svolta antropologica" postconciliare? Forse per conquistarsi una facile popolarità, assicurando che l’inferno non esiste, che il diavolo è una invenzione dei preti medievali, e che alla fine tutti quanti saranno perdonati e ammessi alla salvezza, in un grande abbraccio universale, in un condono generale che finirà a tarallucci e vino? Perché parlano solo di un volto di Dio, e tacciono della sua giustizia? Perché non dicono che l’amore e la giustizia di Dio sono i due volti di una stessa cosa, e che è impensabile il suo amore, senza la sua giustizia? Non è forse, questo, l’equivalente di un tradimento nei confronti del Vangelo, una vera e propria falsificazione del suo contenuto?

Fonte dell'immagine in evidenza: Foto di Chad Greiter su Unsplash

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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