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Liberarsi dal vangelo farlocco di Rousseau per tornare al Vangelo di Cristo

Non è esatto affermare che l’uomo moderno si è allontanato dal vangelo; anzi, lo ha abbracciato in pieno; solo che è il vangelo sbagliato. Vangelo, o Evangelo, sta per "lieto annuncio": eu anghélion; e il "lieto annuncio" sta, nel medesimo tempo, per una visione globale del mondo e per una norma indefettibile d’azione: ora, l’uomo moderno possiede una cosa del genere, ed è la filosofia di Jean-Jacques Rousseau.

Qual è il nocciolo della filosofia di Rousseau, che è una "filosofia", appunto, non nel senso di discorso speculativo sulla natura del reale, bensì in quello di "lieto annuncio"? È molto semplice, e lo si può riassumere in una sola frase: L’uomo è buono, ma infelice, perché si trova in catene; la società è cattiva, ed è essa che lo ha incatenato; spezzate quelle catene, rifate la società, e l’uomo ritroverà, insieme, sia la libertà che la felicità. Bello, no? Suona bene; è convincente; è rassicurante; e, allo stesso tempo, offre una chiara linea dazione all’individuo, sempre e comunque (ma l’individuo astratto, ossia l’Uomo; non già l’individuo concreto, ossia la singola persona), contro la società. La società è il male; cambiatela, e diverrà la fonte di ogni bene, e tutti vivranno felici e contenuti. Un vangelo adatto per dei microcefali, per degli imbecilli, per dei minorati mentali, quali son diventati gli uomini moderni; e un vangelo così facile che qualsiasi deficiente, appunto, lo può mandare a memoria e sentirsene infervorato, lanciandosi all’assalto per la edificazione del Nuovo Mondo, che sarà, infallibilmente, più Bello, più Buono e più Giusto.

L’uomo moderno, perciò, perfino quando non ne è consapevole, perfino quando si tratta del tipo umano più lontano da ciò — è naturalmente rivoluzionario. Gli ingredienti essenziali dello spirito rivoluzionario, infatti, sono tre: la scontentezza, il rancore, l’invidia sociale cronicizzati; il sovrano disprezzo per la tradizione, per il passato, per le radici; la baldanzosa certezza di poter rifare in meglio ogni cosa, purché si riesca a mettere le mani sulla "macchina" sociale: si tratta, infatti, d’una tipica visione meccanicistica, dove la società non è un organismo, cresciuto su se stesso, un anello dopo l’altro, come il tronco dell’albero, ma semmai qualcosa di simile a un orologio che si deve caricare. Ora, per fare questo, c’è bisogno d’una mappa mentale, di un prontuario d’intervento, di un manuale d’istruzioni: e il vangelo di Jean-Jacques è tutto questo, e forse anche qualcosa di più, nel senso che contiene anche gli elementi accattivanti del basso romanticismo: l’eroe "bello" in lotta contro un mondo sordo e grigio, un mondo di "mercanti" e "filistei"; insomma, Gesù Cristo più che Che Guevara (qualcuno ha detto che il marxismo è il Vangelo più la rivoluzione).

Ora, dimmi in quale vangelo credi, e ti dirò chi sei. Abbiamo già visto che i seguaci del vangelo di Jean-Jacques sono dei cerebrolesi disposti a credere a tutto, purché si possano intruppare dietro gli stendardi della rivoluzione (di qualsiasi rivoluzione, e anche controrivoluzione); nella versione attuale, la rivoluzione è quella tecnologica, e bisogna dire che è veramente la più adatta ai minuscoli cervelli degli uomini moderni: basta uno smartphone per consentire all’ultimo imbecille di sentirsi un Aristotele, più la tecnologia: un Aristotele, perché nell’individualismo di massa ciascuno si sente promosso al rango di genio per virtù infusa; mentre la disponibilità dei gingilli tecnologici lo inebria ulteriormente, dandogli la sensazione di poter interagire con l’universo mondo, irraggiandolo con la sua genialità (ad esempio, postando su Facebook i suoi imperdibili selfie, magari "rubati" accanto a qualche celebre nullità televisiva: asinus asinum fricat). Si ripensi alla mistica "rivoluzionaria" del 1968, ai suoi simboli, ai suoi slogan, e si capirà ancor meglio quel che intendiamo dire.

Ha scritto Marcel De Corte nella Fenomenologia dell’autodistruttore. Saggio sull’uomo occidentale contemporaneo (titolo originale: L’homme contre lui-même, Paris, Nouvelles Editions Latines, 19622; trad. dal francese di R. Antonetto, Torino, Borla, 1967, pp. 132-133; 143-145; 148-149):

Considerato individualmente, l’uomo d’oggi appare a se stesso in segreto come un essere mancato, congenitamente segnato da una specie d’incapacità a diventare quello che è: un uomo. Il nostro secolo è quello degli "scontenti". Non è soltanto della propria sorte economica, politica o sociale che l’uomo d’oggi non si contenta, ma piuttosto di se stesso e del suo destino di uomo. Mentre rifiuta la felicità rifiuta al tempo stesso la propria natura di uomo: si rivolta contro se stesso, contro il suo contenuto, contro i suoi limiti. Per un paradosso che è tra i meno sconcertanti, il superuomo di Nietzsche si è moltiplicato nei mediocri: il secolo ventesimo è quello della deificazione dell’essere umano, spesso del più vile: Dio è morto e l’uomo, qualunque uomo, lo ha sostituito. Una incredibile demagogia, fondata sull’adulazione e su una tecnica pubblicitaria senza precedenti, ha progressivamente portato l’uomo a gonfiare nell’astratto e nel vuoto le sue limitate possibilità concrete. Non c’è pigmeo che oggi non si ritenga un gigante, soprattutto nel campo affettivo, intellettuale e spirituale, nel quale è impossibile il controllo diretto. Una immensa letteratura si specializzata nell’ipertrofizzare l’uomo e nel battezzare le sue "esigenze", i suoi umori, i suoi caprici, per non dire i suoi delitti: la stampa "del cuore", i "digests", la propaganda politica, perfino certe pubblicazioni religiose. Sotto questa enorme pressione sociale, l’uomo moderno aspira continuamente a superare la sua capacità di essere, ma fuggendo se stesso, diventando null’altro che fuga e movimento. Il suo complesso di superiorità è il prodotto sublimato del suo complesso d’inferiorità, la sua passione per il superarsi nasce dai suoi successivi aborti. Gli sembra intollerabile prendere su di sé la propria condizione umana, renderla stabile, e intravedere così la felicità […]

Non c’è mito più nocivo che la convinzione di essere portati avanti da un movimento irresistibile: questa convinzione uccide l’intelligenza, perché essa ha bisogno d’una specie di pausa, ha bisogno di tirarsi indietro di un passo, prima di giudicare; le impedisce di distinguere il bene dal male, la realtà dall’apparenza; la abbandona, vinta o vittoriosa, ai Machiavelli che cercano di conquistare il potere. Così, sotto il pretesto di "liberarsi", l’intelligenza abdica alla sua capacità di giudizio e alla sua libertà. Persuasa che non si può far nulla per risalire il corso della storia, si abbandona, come un cadavere alla corrente, a tutti i sofismi, purché siano strombazzati abbastanza dall’alto per soffocarla. Diventa incapace di discernere la salute dalla malattia, e di constatare che guarire non significa affatto ritornare all’età che si aveva all’inizio della malattia. Rifiuta la salute, e arriva perfino a chiamare beni i mali che la schiacciano, e felicità la sua disgrazia. È prigioniera dell’opportunismo, del conformismo: "Vox populi, vox Dei". Trasformandosi in intelligenza collettiva, si nega come intelligenza. È normale: l’uomo che non conosce il suo bene non cessa per questo di desiderarlo, d’un desiderio informe e senza volto, nervoso e indeterminato, che si confonde con il movimento del tempo, con lo svolgimento della storia. Sprovvisto di intelligenza e di finalità reali, l’appetito umano si riduce a un indifferenziato divenire, che rende uguali e mobili tutte le condizioni, nella misura stessa in cui è indeterminato e mobile. Privo d’una direzione, esso è braccato in tutti i sensi; sgretola tutte le diversità individuali o specifiche; livella la molteplicità gerarchizzata degli esseri e delle cose, e ciascuna diventa allora il sosia di tutti. La fraternità si pere nella similitudine; razze e patrie svaniscono, classi e persone diventano nebbia, e la natura a sua volta è volatilizzata e costituisce con l’umanità unanime un tutto unico, una "noosfera", come scrive nel suo gergo Teilhard de Chardin; una "noosfera" che tende all’unità attraverso la miriade dei punti di coscienza fuggevoli e occasionali che sono gli uomini. L’universo si trasforma in "Colui che è Unico", ne diventa il corpo, in cui tutti gli uomini, confusi in una specie di democrazia mistica e panteistica, godono della beatitudine per virtù automatica della storia che li muove. Questo, il sogno messianico sollevati del desiderio degli adoratori della storia; ed è la misura della degradazione dell’intelligenza e del risentimento contro la felicità personale che imperversano nelle diverse ideologie contemporanee. L’uomo moderno, schiavo di un desiderio che si rivela incapace di illuminare, ritorna automaticamente all’ideale della felicità, caratteristico dell’alveare o del termitaio. […]

L’ossessione della felicità collettiva e il magico prestigio della storia sono i segni d’un rovesciamento interiore di valori nello spirito dell’uomo contemporaneo. L’epoca moderna è stregata dalla rivoluzione a tal punto che non ne percepisce più la suggestione, come un morfinomane perduto negli incantesimi fantastici della droga. La maggior parte dei controrivoluzionari sono essi stessi dei rivoluzionari sena credere di esserlo, i quali mettono sossopra la realtà proprio pretendendo di raddrizzarla. Lo spirito rivoluzionario si condensa interamente nella formula del vangelo secondo "l’apostolo" Jean-Jacques: l’uomo è infelice perché dipende da una società malfatta: il rifacimento di questa società gli darà la felicità a cui aspira. Non è l’uomo in carne ed ossa che deve dargliela, liberandolo dai mali che lo opprimono. Il Sociale è il Benne, il Bene il Sociale; la Società è Dio, e Dio è la Società. Essa sola conosce il bene e il male, discrimina tra buoni e cattivi, pronuncia le benedizioni e le maledizioni. Il Sociale si trova investito di tutti i privilegi dell’Etica e della religione. Per lo spirito rivoluzionario, l’esistenza sociale rinnovata dalla rivoluzione è rivestita di carattere sacro: attentare alle sue conquiste sociali sarebbe non solo un delitto ma una profanazione. L’Arca dell’Alleanza che il messianismo e il razionalismo riconsacrano è intoccabile. La nuova Società è un Assoluto a cui l’uomo non può accostarsi senza morire: è insieme una Chiesa, una Provvidenza, un Redentore e un Salvatore. Il suo marchio s’imprime sugli atti stessi degli uomini: "Senza di me non potete fare nulla" o meglio "non siete proprietari di voi stessi". Come ha sottolineato acutamente Michelet, la rivoluzione continua il cristianesimo e nello stesso tempo lo contraddice: ne è insieme l’erede e la nemica". In parole più povere, ne è la caricatura.

D’altra parte, c’è una ragione ben precisa nella preferenza accordata dal mondo moderno al vangelo apocrifo di Jean-Jacques rispetto al Vangelo di Gesù Cristo, ed è perfettamente in linea con il nucleo psicologico più tipico della modernità: ossia la pretesa di conseguire il massimo dei risultati con il minimo del sacrificio e dell’impegno, di poter avere assai più di quanto si è disposti a dare, e, cosa ancor più importante, di potersi trovare dalla parte della ragione anche quando si aveva torto marcio. Non si tratta di un gioco di prestigio particolarmente raffinato, al contrario: si tratta, semplicemente, di affidarsi alla corrente del Progresso. I rivoluzionari sono fautori del Progresso; e, siccome il progresso è, per definizione, irresistibile, cioè ha sempre ragione (perché chi vince sempre ha ragione per definizione, anzi è la Ragione incarnata), allora anche l’uomo moderno, purché rivoluzionario e progressista, si troverà sempre ad aver ragione, qualunque cosa accada e qualsiasi errore o crimine abbia commesso.

Bisogna poi aggiungere che la civiltà moderna, proprio perché costruita sul mito del Progresso, ha la memoria corta, cortissima: il progresso divora ogni cosa con velocità sbalorditiva, perché si fonda sulla superiorità indiscussa e indiscutibile del presente, di qualunque presente, sul passato; e se, come avviene ai nostri giorni, il progresso è essenzialmente progresso tecnologico, ne deriva che bastano pochi anni, pochi mesi, poche settimane, per usurare le "novità" e per proiettare in avanti le neo-novità e le post-novità (come, appunto, il post-moderno). Ora, se la memoria è annullata, è evidente che nessuno si accorge delle promesse non mantenute, delle previsioni clamorosamente mancate, delle profezie fallite (e i politici, infatti, l’hanno capito benissimo, alzando continuamente il livello della loro cialtroneria e la loro tendenza a far promesse sempre più grandiose e altisonanti, in perfetta malafede). E dunque, perché mai bisognerebbe preoccuparsi se domani il Progresso smentirà completamente quel che si era proclamato, con i più sacri giuramenti, appena ieri? Nessuno ricorda, nessuno nota le incongruenze, nessuno reclama, né domanda ragione delle più plateali contraddizioni.

Ciò detto, è chiaro che il vangelo di Jean-Jacques piace in modo particolare a una umanità rimbambita, proprio perché è un vangelo da bambocci (non da bambini, che è cosa assai diversa): assolve tutti da ogni responsabilità, solleva tutti da ogni serio impegno, e addossa ogni colpa e ogni male alla società. In base ad esso, non c’è bisogno di lavorare su se stessi, di imparare qualcosa dai propri errori, di raccogliersi in silenzio, di meditare sulle sconfitte, di perfezionarsi e di elevarsi: non c’è bisogno, perché noi siamo già buoni, eccellenti, perfetti, e l’unica cosa che va cambiata non è in noi, ma fuori di noi: è la società. Tutto questo rafforza a dismisura le tendenze narcisiste già tipiche dell’uomo moderno, e già artificialmente alimentate dal sistema consumista e pubblicitario, che lo sottopone a un vero e proprio martellamento quotidiano, fino a convincerlo che nulla al mondo è più importante o più ammirevole della sua abbronzatura, del taglio dei suoi vestiti, dei gioielli che indossa, del tipo di automobile sulla quale va in giro.

Il bello è — si fa per dire — che tutto questo disprezzo per la società brutta e cattiva, per i padri, per la tradizione, finisce per alimentare un culto mostruoso nei confronti della Società futura; e che tutto questo narcisismo nei confronti dell’Individuo finisce per generare il più abietto avvilimento che l’individuo abbia mai conosciuto. Infatti, se la società è cattiva, mentre l’uomo è buono, allora bisognerà dedicare ogni studio a cambiare la società, onde rendere l’individuo felice: ma, così facendo, si sottrae la ricerca della felicità all’uomo concreto e la si demanda ai risultati di un lavoro collettivo, a una entità superindividuale, ad un Moloch mai sazio di lacrime e sangue, che sarà la Società stessa: non quella attuale, naturalmente, ma quella che si vuol costruire, e che immancabilmente verrà realizzata, sotto la spinta irresistibile del Progresso, Ma il Progresso, per definizione, è proiettato sempre un passo più avanti del presente, confina con la barriera dei sogni, compreso il sogno della Grande Felicità. Ed è così che l’uomo concreto sacrifica la sua possibile felicità individuale ad una impossibile e irrealizzabile felicità futura, che gli verrà data in dono, egli pensa, quando la Società peretta sarà stata edificata.

E anche in questo ragionamento delirante c’è una logica, chiarissima e, a suo modo, coerente. L’uomo moderno non accetta il suo limite ontologico, non accetta di essere creatura: vuol farsi dio, il dio di se stesso. E la prova ne è che egli non accetta la sua mortalità, e non vuol neppure sentirla nominare, altrimenti va su tutte le furie. Ma, così facendo, sarà sempre infelice: è infelice, infatti, colui che non si accetta per quel che è, colui che litiga incessantemente con il principio di realtà. Pertanto, non gli resta altro da fare che attribuire la colpa della sua infelicità alla società cattiva, e aspettare, magari all’infinito, però con fede — mio Dio, quale immenso spreco di fede! — l’arrivo della felicità futura, che, sulle ali del Progresso, prima o poi la Società, finalmente raddrizzata nelle sue storture, donerà a tutti e a ciascuno.

Chi lo dice che l’uomo moderno è un cinico, un disincantato, e che non crede più a niente? Al contrario: come aveva ben visto Gilbert Keith Chesterton, l’uomo moderno, proprio perché non crede più a Dio, non è diventato razionalista, bensì è diventato capace e disposto a credere in qualsiasi cosa…

Fonte dell'immagine in evidenza: Foto di Chad Greiter su Unsplash

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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