
La rivolta dei teologi cattolici contro san Tommaso preannuncia l’auto-demolizione della Chiesa
22 Dicembre 2016
Dobbiamo ritrovare il concetto e il criterio del vero per uscire dalla palude del relativismo
23 Dicembre 2016La credenza nel Progresso illimitato è un mito; è il mito fondante della modernità; ed è un mito malvagio, non benigno, perché funzionale all’instaurazione dell’assolutismo più radicale che si sia mai visto: non per niente la modernità è l’epoca dei totalitarismi.
Questo fatto trova una spiegazione psicologica, prima ancora che ideologica, abbastanza semplice: la caratteristica essenziale del Progresso è di essere, per definizione, irresistibile; infatti, davanti a qualsiasi obiezione e perplessità, davanti a qualunque orrore e crimine, i suoi fautori, ma un po’ anche tutti gli altri, non sanno fare altro che alzare le spalle e sussurrare: Che volete dunque farci? È il progresso! Il Progresso, pertanto, non si discute, non si frena, non si può smentire, non si può contraddire: il Progresso ha sempre ragione, qualunque volto assuma, qualsiasi cosa faccia. Combattere contro il progresso è subire la sorte di Don Chisciotte: non solo la solitudine e la sconfitta certa, ma anche l’incomprensione, la derisione, il disprezzo. Che pazzo! Cosa credeva di fare: di poter fermare il progresso? Dunque, se il Progresso è una locomotiva, la sua avanzata irresistibile è di per sé evidente; non solo è moralmente giusta, ma anche necessaria, perché i passeggeri che trasporta non sopporterebbero degli indugi senza una ragione precisa, e comunque temporanea: che si debba andare sempre avanti, è cosa che si dà per scontata. Ma per andare dove? E, soprattutto: i passeggeri si rendevano conto di quel che stavamo facendo, quando sono saliti a bordo? Oppure, per dir meglio: sono stati avvertiti che quelle poltroncine, erano le poltroncine di un treno; che quel locale, era un vagone ferroviario; e che il loro destino era quello di venir trasportati avanti sempre più lontano; oppure ciò è accaduto senza che se ne rendessero conto e senza che qualcuno si degnasse di spiegarlo per tempo, e di dar loro la possibilità di scendere, se il viaggiare a tutta velocità verso una destinazione ignota non fosse stato di loro gusto?
Ora, se il Progresso è, per definizione, e letteralmente, irresistibile, va da sé che chiunque voglia imporre il massimo del proprio potere sugli altri, non dovrà fare altro che invocare le nobili ragioni del Progresso, impugnare e sventolare le sue bandiere il più in alto possibile, far rullare i tamburi e suonare i pifferi delle sue fanfare. In nome del Progresso, tutto è concesso: anche imporre sugli uomini la più spietata forma di assolutismo, il più feroce e inumano totalitarismo; oh, ma si badi, non certo adoperando simili brutali espressioni, non certo dichiarando degli obiettivi così terribilmente cinici. Giammai: al contrario, basterà intonare il peana del Progresso, e ogni cosa diventerà giusta e lecita, ogni abuso verrò santificato, ogni bruttura verrà mondata miracolosamente, e ogni ingiustizia diverrà un passaggio forse doloroso, ma sicuramente necessario, verso il compimento delle magnifiche sorti e progressive. E così, dopo le meraviglie del capitalismo, del socialismo, del comunismo, del fascismo, del nazismo, ora siamo giunti alla meraviglia dei tutte le meraviglie, all’ultimo stadio del piano per l’instaurazione della felicità universale: il globalismo, con i suoi corollari del femminismo, del modernismo, del supercapitalismo finanziario, del razzismo (alla rovescia: sono i popoli bianchi a doversi sentire inferiori, oltre che colpevoli), nonché dell’omosessualismo, grazie al quale potremo godere pure dell’immenso privilegio di poterci inventare, o reinventare, la nostra identità di genere — la nostra, e quella dei nostri figli, a seconda dell’umore e delle inclinazioni del momento; come quei genitori australiani i quali, su consiglio del loro medico (lasciate che sia ciò che vuol essere!), hanno "accontentato" lo struggente desiderio del loro figlioletto di essere femmina, e si son prodigati affinché il piccolo Seth realizzasse il suo sogno e ora, naturalmente, si adoperano perché la società lo "accetti".
Scriveva quel grande pensatore oggi quasi dimenticato, Marcel De Corte, a tale proposito (da: M. De Corte, Fenomenologia dell’autodistruzione. Saggio sull’uomo occidentale contemporaneo; titolo originale: L’homme contre lui-même, Paris, Nouvelles Editions Latines, 1962; traduzione dal francese di Roberto Antonetto, Torino, Borla Editore, 1967, pp. 196-199):
L’uomo contemporaneo, che sostituisce continuamente la rappresentazione generale e astratta degli esseri e delle cose alla loro e carnale e concreta, considera il progresso come il motore di un mondo del quale gli uomini in carne ed ossa non sono che passeggeri inerti e senza vita. È impossibile non riconoscere, dietro queste collettività nelle quali l’uomo si disintegra, l’azione di una forza alla quale ‘uomo moderno si abbandona, e che ha battezzato progresso. Lo schema più generale di tutte le astrazioni collettive che ci divorano ha nome progresso. Il principio che riunisce, impasta e scioglie tutte le presenze concrete, si chiama progresso. Per merito suo tutto passa, niente si ferma, anzi niente gli resiste. La sua caratteristica essenziale è di essere irresistibile: trascina l’uomo sradicato nel suo flusso.
Ne deriva una conseguenza, d’una gravità estrema e tropo spesso inosservata. Nelle società del passato, non ancora afflitte dal mito del progresso, il potere, per assoluto che fosse, trovava tuttavia dei limiti, delle realtà considerate intoccabili, delle norme ritenute fosse, delle leggi divine e umane immanenti alla natura degli esseri e delle cose; barriere insuperabili, dal momento che il progresso non aveva mobilitato tutto quanto. Oggi è diverso: il mito del progresso ha eroso ogni forma di stabilità, e la conversione della realtà in idea favorisce tutte le manipolazioni, tutti i cambiamenti.
La teoria del progresso universale offre alla volontà di potenza questo inestimabile vantaggio: trasformare l’indeformabile nodo degli esseri in un fantasma malleabile, nel, quale essa s’imprime senza sforzo, e del quale dirige facilmente il movimento. Per questo l’hanno adottata e propagata tutti i conquistatori del potere, e non c’è ideologia politica e sociale che non ne faccia uso, in dosi più o meno massicce. La monarchia in decadenza ne ha fatto la prova nel secolo XVIII con Turgot; la decaduta aristocrazia ha tentato di ritemprarvisi con Madame de Staël, Chateaubriand e Tocqueville; le democrazie borghesi non hanno cessato di attingervi, per mezzo dei loro retori e dei loro sofisti; le democrazie socialiste vi giustificano il loro dispotismo . Le colonie, dal canto loro, vi prendono la legittimazione delle rivolte, i manovali proletari non si stancano di agitarne la bandiera. Perfino la Chiesa cattolica, attraverso certi suoi rappresentanti, vede l’unico mezzo per rinvigorire la fede nel progressismo, e in "Gesù Cristo travestito da meccanico nell’atto di condurre la locomotiva del Progresso attraverso la foresta vergine" (sono parole di Flaubert, e neppure troppo caricaturali).
Il mito del progresso non dominerebbe la politica e le società contemporanee se non trovasse nello spirito umano una tacita complicità. Non è esagerato affermare che l’idea del progresso si basa essenzialmente sull’adulazione, e che offre all’individuo, non solo le possibilità d’evadere al di fuori del proprio essere, ma anche tutte quelle capaci di trasformare la sua vanità in esibizionismo, in prestigio. Se io mi colloco nell’irresistibile corrente del progresso, poso diventare senza fatica diverso e migliore, rispetto a quello che sono; posso superare il posto che la mia nascita, la mia natura e i miei doni mi fanno occupare nell’universo, posso essere quello che non sono e che gli altri sono! Il progresso universale di cui mi inebrio mi incita a fuggire me stesso nell’illusione e nella posizione sociale. Mi sento capace, grazie al progresso universale, di lasciare indietro gli altri, i ritardatari, i retrogradi, senz’altro sforzo che mentale. Per poco che mi stabilisca sulla sua sommità, che prenda lì’ultimo treno, che mi pieghi al conformismo della novità, mi convinco facilmente della mia eccellenza. Il mito del progresso provoca così l’avvento d’una nuova aristocrazia di "parvenus" senza sostanza, dei quali vediamo il fantasma gesticolare su tutti i palcoscenici del teatro sociale. Ora, in questa corsa ai primi posti, il più vuoto, il più sciocco, il più esibizionista ha tutte le probabilità di arrivare; donde la legge, che possiamo verificare tutti i giorni: più una società è progressista, più le sue élites sono vuote e strombazzanti. Sono delle astrazioni senza contenuto, dei tipi senza personalità: nulla assomiglia di più a una "vedette" che un’altra "vedette", ad un politico che un altro politico, ad un arrivista qualunque, di qualunque settore, che un altro arrivista, ad un pallone gonfiato che un altro pallone gonfiato. Si diversificano solo per colore e dimensione, per gonfiore quantitativo.
La filosofia dell’arrivare primi a qualsiasi costo, non sulla base di meriti oggettivi, ma semplicemente perché si possiede un io da esibire, abbastanza sfrontato e narcisista da non provare il sentimento della vergogna (questa sana barriera che trattiene di solito i migliori, mentre lascia filtrare impunemente i peggiori), e abbastanza ambizioso e prevaricatore da ritenere il successo come cosa dovuta, ha innescato, così, una sorta di selezione alla rovescia, che ha prodotti i suoi pessimi effetti in tutti gli ambiti della vita associata, dallo spettacolo all’arte, dalla cultura alla politica, dalla televisione allo sport, con il bel risultato che la nostra civiltà, ormai da non pochi anni, è praticamente allo sbando per l’assenza di una vera classe dirigente, al posto della quale abbiamo una trista galleria di ciarlatani, di narcisisti, di buffoni, di demagoghi, e, oltretutto, tanto maldestri e incompetenti, quanto facili alla disonestà e alla corruzione. L’assenza di politica fa sì che le nazioni dell’Occidente vadano allo sbando, come naufraghi sui lastroni di ghiaccio alla deriva, ciascuno dei quali si allontana in una diversa direzione, senza che nessuno mostri la benché minima capacità, e perfino la volontà, di coordinare gli sforzi per la comune salvezza, dopo che il transatlantico sul quale viaggiavano si è inabissati nelle acque.
Colpisce particolarmente che al mito del Progresso abbia finito per aderire, almeno in parte, anche quella forza morale che, sola, aveva sempre resistito alle sue seduzioni e gli aveva contrapposto la sua saggezza, la sua spiritualità e la sua cultura: la Chiesa cattolica. Invece, come già aveva visto Gustave Flaubert poco dopo la metà del XIX secolo, e come ha denunciato Marcel De Corte ancor prima del Concilio Vaticano II (con il quale tali tendenze sarebbero addirittura esplose, e avrebbero finito per impadronirsi, pezzo a pezzo, di gran parte dell’organismo della Chiesa), anche i cattolici, e specialmente quelli di tendenza liberale e progressista, hanno finito per abbassare le armi e per arrendersi al fascino discreto (e malvagio) del Progresso, lasciandosi docilmente arruolare nelle armate del progressismo democratico, laicista e secolarizzato, e facendo propri, l’uno dopo l’altro, tutti gli slogan, tutte le parole d’ordine, tutte le sciocche formule magiche delle fallite ideologie che si sono succedute nel corso degli ultimi tre secoli, e ripetendoli con ridicola convinzione, dimostrando, così, di non aver imparato nulla, e di volersi sbarazzare della propria tradizione, che mai li aveva traditi o ingannati, per farsi discepoli di tradizioni profane, che hanno mostrato la loro inconsistenza e che si sono rivelate d’immenso danno nella vita dei popoli.
È penoso, ad esempio, sentire preti e perfino vescovi, e ora lo stesso papa Francesco, esprimere concetti politici e sociali molto vicini al marxismo, ripetere come dei mantra il soliti ritornelli contro lo sfruttamento capitalistico, i quali, giusti in gran pare, acquistano un suono falso e ipocrita se branditi come delle chiavi universali per risolvere tutti i problemi, per dare sempre e comunque ragione ai poveri (ma bisognerebbe poi vedere chi sono i veri poveri, nell’era della globalizzazione) e per nascondere quella parte della realtà che non rientra nei facili schemi neomarxisti e che metterebbe a nudo anche le colpe e le responsabilità di quanti alimentano la mala pianta del rancore sociale con la scusa della giustizia, creando aspettative illimitate e moltiplicando diritti il cui esercizio è impossibile, perché, se realmente lo fosse, ciò segnerebbe la fine di qualunque forma di società organizzata. Un tipico esempio di questo abuso dei "diritti" è la crociata per l’accoglienza dei migranti in Europa, presentata come un dovere inderogabile del buon cristiano, mentre non è altro che l’abdicazione alla propria civiltà e ai propri valori e la resa di fronte a un nemico insidioso, astuto, spregiudicato, che fa leva sui sensi di colpa e sul ricatto morale che paralizza l’istinto di conservazione e il naturale impulso alla difesa di se stessi.
Il mito del Progresso, dunque, è il motore della civiltà moderna, e, per la sua natura intimamente distruttiva e nichilista, è anche l’elemento che permette di caratterizzare quest’ultima come una anti-civiltà. L’Occidente moderno ha dunque il "vanto" di aver creato e insediato la prima, compiuta, e, nel suo genere, quasi perfetta, anti-civiltà della storia. E la sta esportando in tutto il mondo, come una metastasi di cellule tumorali. Questa, dunque, è la globalizzazione — e non altro…
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