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Il cristianesimo è un umanesimo?

Il cristianesimo è forse un umanesimo? Si osserva sempre più spesso, nella teologia contemporanea, la tendenza a relativizzare i contenuti specifici della religione cristiana, a tratteggiare come semplici ipotesi quelle che sono sempre state le verità della fede, e a ridimensionare progressivamente gli spazi del soprannaturale, del divino, per calare il Vangelo in uno spazio immanente, anzi, immanentistico, nel quale, alla fine, ciò che rimane non è la Rivelazione di Dio all’uomo, ma ciò che l’uomo pensa debba essere Dio; e, alla fine, un Uomo che vuol mettersi al posto di dio.

In fondo, si tratta di una evoluzione coerente con la cosiddetta "svolta antropologica" della quale vanno tanto fieri il fior fiore di teologi cattolici, a partire dagli anni del Concilio Vaticano II. Prima, non si era mai sentita dire una cosa del genere: che la religione cristiana debba imperniarsi sull’uomo, e non su Dio. Ma tant’è: così come, a partire da Kant, la filosofia ha messo in naftalina la metafisica, e ha deciso che tutto quel si può fare è studiare il reale quale l’uomo lo concepisce e lo può percepire, così anche la teologia, e sia pure con un certo ritardo, si è allineata sulle posizioni soggettivistiche e immanentistiche implicite in questa cosiddetta "rivoluzione copernicana", e, invece di pensare l’Essere, si è concentrata su ciò che, dell’Essere, pensa l’uomo ed esperimenta l’uomo. Via, pertanto, ogni timore e tremore; via la soggezione filiale e il senso di piccolezza dell’uomo davanti a Dio; via, da ultimo, o quasi, anche il senso del peccato, della morte, del giudizio, dell’inferno e del paradiso: tanto è vero che, di queste cose, i teologi odierni parlano sempre di meno, e sempre meno volentieri, come se ne avessero fastidio, o come se provassero imbarazzo. Peccato, giudizio, infermo e paradiso? Eh, via, queste cose andavano bene per i teologi della vecchia scuola; ma ora non più, giammai: i nuovi teologi, i Bianchi, i Mancuso, hanno ben altre cose delle quali occuparsi: volano molto più in alto, loro, di simili piccolezze, di simili quisquilie. E poi, non è forse vero che, se pur l’uomo è peccatore (ma che non lo si dica troppo in giro, potrebbe deprimersi e smarrire la legittima fiducia in se stesso), non c’è forse l’infinita misericordia di Dio, pronta a venirgli incontro per rimediare a qualsiasi errore, a mettere una pezza su ogni sbaglio, magari anche senza bisogno di pentimento, perché Dio non bada a simili cosucce formali, va dritto all’anima delle persone e intuisce il loro desiderio d’esser perdonate, ancor prima che provino l’ormai obsoleto repertorio di rimorso, pentimento, desiderio d’espiazione? E se non giudica Lui, chi siamo noi per giudicare?

Comunque, tornando alla domanda iniziale, è interessante vedere di quali contorsioni è capace la teologia contemporanea, pur di trovare la quadratura del cerchio: il magico punto d’incontro fra cristianesimo e umanesimo, cioè tra cristianesimo e modernità. È come se molti teologi cercassero di arrampicarsi sugli specchi per trovare la maniera di farsi perdonare il loro cattolicesimo, peraltro tutto da verificare, e assumere qualche funzione utile nell’ambito della nuova cultura, laicista, materialista e post-cristiana, magari utilizzando parte della loro tradizione per rivendicare ad essa una qualche benemerenza sociale. Va notato che non vogliono più neanche definirsi "cattolici", perché sembrerebbe loro di scendere un gradino, o parecchi gradini, giù per la scala di quella rispettabilità moderna e "scientifica", da essi risalita con tanta fatica e con tanto impegno, dalla cui sommità si guarda al cattolicesimo come ad una realtà irrimediabilmente obsoleta e tramontata, e ai teologi cattolici come a dei residuati del passato, patetiche figure appartenenti a un provincialismo culturale destinato a una rapida estinzione, se non addirittura già estinto del tutto.

Riportiamo, a titolo di esempio, alcune riflessioni svolte dal teologo Carmelo Dotolo nel suo saggio L’alterità del Vangelo, profezia di senso in un mondo che cambia (in: Annunciare il Vangelo oggi: è possibile?, a cura di Ugo Sartorio, Padova, Edizioni del Messaggero, 2004, pp. 64-68):

Sottesa alla neutralizzazione della tradizione c’è l’ipotesi che la modernità (e per certi versi la postmodernità) abbia in qualche modo svuotato lo specifico del cristianesimo della sua pertinenza e forza d’attrazione. La contemporaneità, allora, non è anti-cristiana, perché non si accanisce nella demolizione dell’architettura del progetto cristiano, come probabilmente accadeva nel dibattito acceso con i teoremi dell’ateismo. È, piuttosto, post-cristiana, nel senso che si è appropriata di ideali e valori evangelici, distaccando il messaggio dalla sua ispirazione di fondo, quella cristologica. Sembrerebbe questo l’esito più morbido e imprevisto del processo di de-secolarizzazione, non distante dalla tesi avanzata dal filosofo H. Blumenberg ("La legittimità dell’età moderna", Marietti, Genova, 1892) che, nel delineare i tratti della emancipazione dell’uomo dal cristianesimo, riconosceva a questa l’abilità nell’aver occupato, più che trasformato, i contenuti teologici trasfigurandoli in lineamenti culturali. Non una appropriazione in continuità con i criteri valutativi della tradizione cristiana, ma una ricollocazione dei presupposti che, per quanto prossimi alla novità della rivelazione cristiana, si erano impaludati nelle aree di un teismo sterile. […]

Insomma, il cristianesimo avrebbe già assolto al suo compito, anche se ha lasciato alcune tracce che urtano la convinzione neopagana di un mondo e una vita che non abbisognano di progetti d salvezza o di utopie messianiche, per il fatto che l’uomo nella sua finitudine può trovare energie spirituali sufficienti per far fronte ai disagi della civiltà. Ma potrebbe anche continuare a rendere il suo servizio all’uomo consegnato alla propria libertà se svestisse i panni di un malcelato dogmatismo che si riduce a spiegazione del mondo e a contratto utilitaristico col divino, attenuando in questo modo la sua scandalosità e la critica escatologica. Anzi, al cristianesimo spetterebbe giocarsi le carte della sua utilità sociale, a motivo dei suoi contenuti etici relativi a modelli comportamentali attenti ai problemi della vita e contro qualsiasi forma di implosione spiritualistica della fede.

Paradossalmente, un cristianesimo così disponibile non rischierebbe un tramonto ineluttabile, perché darebbe voce e forma all’esigenza dell’umanità di una trascendenza dentro il bisogno della storia, di un sacro che è nell’uomo, così come attesterebbe la parabola storica del cristianesimo dell’umanizzazione del divino. Il "paradosso supremo dell’umanesimo dell’uomo-Dio" (L. Ferry, "Al posto di Dio", Frassinelli, Piacenza, 1987, p. 187), non ha nulla di sacrilego né di idolatrico; esplicita solo l’identificazione tra cristianesimo e umanesimo, nella cui convergenza abita la questione del senso. Declinato così, il cristianesimo potrebbe anche stemperare la responsabilità attribuitagli relativamente alla incrinatura nichilistica del mondo e della storia. La questione è senza dubbio complessa, così come mostrano le letture che collegano il processo di secolarizzazione a quello del nichilismo, la dinamica della desacralizzazione con lo svuotamento dei valori e degli ideali cristiani. Eppure, nell’oblio della significatività della rivelazione cristiana, pesa l’evento della morte di Cristo, del suo abbandono da parte di Dio che sigla definitivamente la prospettiva dell’assenza di Dio. "Dio che lascia essere il mondo fino a morirvi" (S. Givone, "Storia del nulla", Laterza, Roma-Bari, 1995, p. 236) è il motivo dello sgomento dell’uomo; di più, è alla base del nulla come apertura, spazio nel quale si è ritirato, assenza che non può essere riempita se non al passare del divino e dai cenni che invia. Il cristianesimo, dunque, sembra assistere inerme e, forse, inconsapevole al suo svuotamento di senso, perché incapace di proporre un’alternativa seria alla radice secolarizzante del nichilismo; né un tentativo di risacralizzazione gioverebbe alla sua causa, perché l’annuncio cristiano è per la realizzazione dell’uomo e non per una sua destinazione a una realtà che lo separa dalla vocazione alla quale è chiamato. In tal senso, è difficile non rinvenire nel nichilismo contemporaneo un’interpretazione estrema della secolarizzazione, il cui approdo sta nella chiusura ad ogni assoluto e in un finitismo che si accontenta di prendere atto della finitezza inoltrepassabile dell’esistenza. "Se è vero, infatti, che il nulla come principio del mondo o la morte di Dio nel mondo sono principi che hanno radici cristiane, un’interpretazione del cristianesimo che assuma in modo esclusivo questo principio è una negazione del cristianesimo stesso, e allora i tentativi di conciliazione possono avere soltanto una giustificazione biografica o estetica" (C. Cianco, "Cristianesimo e nichilismo", in "Filosofia e Teologia" 17, 2003, p. 442). Di conseguenza, altro è vivere l’evento della morte di Dio come appello a una ricerca ulteriore, altro è confinarsi nella logica di una impossibilità che nega qualsiasi trascendenza come contrappunto dell’umanità-troppo umana dell’uomo.

Le riflessioni svolte da questo teologo sembrano assumere come punto di partenza l’assunto che il cristianesimo, piuttosto che rassegnarsi a scomparire in quanto visone del mondo specificamente legata al Vangelo di Gesù Cristo, deve trovare qualche maniera per sopravvivere, riciclandosi in maniera tale da ottenere, in un modo o nell’altro, una sorta di benestare, sia pure obliquo e indiretto, da parte della cultura moderna. In pratica, pare che debba farsi perdonare il peccatum originale di essere l’annuncio del regno di Dio, fatto da Gesù Cristo, e sforzarsi di rendersi utile nella temperie del mondo moderno, ove il suo messaggio, che, di per sé, risulta completamente inattuale, è tuttavia suscettibile, forse, di venire riattualizzato, in chiave antropologica, o sociologica, o morale. A queste condizioni, in questa prospettiva ed entro questi limiti, gli verrà forse concesso di sopravvivere, sia pure sotto spoglie rifatte e in incognito, come il lievito da cui si impasterà il pane della futura Weltanschauung post-moderna.

Per prima cosa, si afferma che la contemporaneità non è (più) anticristiana, perché, bontà sua, ha smesso di accanirsi contro il cristianesimo: ma questo per la buona ragione che lo ritiene morto e defunto. In compenso, si è appropriata di temi e valori cristiani, distaccandoli, però, dalla loro ispirazione originaria, e incorporandoli nei propri valori e contenuti: vale a dire, "occupando" la teologia cristiana e trasformandola in cultura laicista e irreligiosa. E ciò, dice Hans Blumenberg, filosofo che propugna una sorta di storicismo fenomenologico, è una operazione non solo legittima, ma nobile, perché salva il cristianesimo stesso, o ciò che della sua esperienza sopravvive, dal pericolo di impaludarsi in un teismo sterile! Eh, come sono buoni questi teologi post-cristiani, questi Blumenberg; e come sono generosi, nel concedere all’eredità cristiana di sopravvivere, divenendo funzionale alla cultura contemporanea, ateista e immanentista. Vien quasi da commuoversi davanti a tanta delicatezza e magnanimità.

Del resto, delle due, l’una: o il cristianesimo si rassegna a scomparire senza lasciar traccia, perché il tempo di Dio è finito da un pezzo, oppure accetta di sopravvivere, ma nelle forme che la cultura post-moderna stabilisce per esso: e cioè se accetta di continuare a rendere il suo servizio all’uomo, svestendo i panni di un malcelato dogmatismo che si riduce a spiegazione del mondo e a contratto utilitaristico col divino; e così attenua la sua carica di "scandalo" per la cultura contemporanea. Anzi, potrebbe perfino giocarsi le carte della sua utilità sociale, a motivo dei suoi contenuti etici relativi a modelli comportamentali attenti ai problemi della vita e contro qualsiasi forma di implosione spiritualistica della fede. In altre parole: se accetta di non essere più un pensiero religioso; se accetta di abiurare da se stesso, di rinnegare la sua pretesa di trascendenza, per non parlare dei suoi contenuti teologici specifici: la Trinità, l’Incarnazione, la divina missione di Gesù, la resurrezione dai morti — ebbene, a tali condizioni potrebbe svolgere ancora una funzione utile, dato che la sua morale è attenta ai problemi della vita

Un cristianesimo cosiffatto potrebbe quindi sopravvivere, diventando, beninteso, una divinizzazione dell’uomo, una esaltazione del sacro che è in lui, e una espressione della "esigenza" di trascendenza immanente alla storia, con buona pace dell’ossimoro e della contraddittorietà logica di un simile concetto (chissà perché, quando si sente parlare di esigenze scatta un campanello d’allarme: l’esigenza è solo un bisogno artificiale spacciato per autentico). Insomma, il cristianesimo avrebbe l’onore di sopravvivere se, da religione del Dio che si fa uomo, per amore degli uomini, accettasse di buon grado di fornire una base etica al culto dell’Uomo che vuol farsi Dio per amore di se stesso. Ma perché dovrebbe accettare un simile destino, una simile forzatura, un smile capovolgimento? Semplice: per attenuare e, forse, farsi perdonare la responsabilità attribuitagli relativamente alla incrinatura nichilistica del mondo e della storia. E perché il nichilismo dovrebbe gravare sulla coscienza del cristianesimo? Non si sa; a meno che la ragione sia questa: perché il cristianesimo ha provocato, come reazione contro di sé, il nichilismo; e dunque, indirettamente, il nichilismo sarebbe una creazione del cristianesimo stesso, in quanto espressione di ciò che la cultura moderna ha rifiutato, senza però approdare ad alcuna verità alternativa, anzi, piombando nel relativismo radicale. Strano modo di ragionare: è come dire che la vittima di un assassino maniaco deve ritenersi responsabile del delitto del suo carnefice, perché, esistendo, lo ha indotto in tentazione. Non vediamo, però, in quale altra maniera si potrebbe addossare al cristianesimo la responsabilità della deriva nichilista del mondo moderno.

A parte ciò, nel ragionamento di Sergio Givone c’è tutto il corto circuito di una filosofia moderna presuntuosa e autoreferenziale, che pretende di giudicare tutto e tutti, guardandoli dall’alto in basso, ma senza accettare di farsi giudicare da alcuno; perfetta espressione, a sua volta, di quella cultura progressista, così forte in certe aree italiane, come la Toscana (Givone, piemontese, nel 2012 è stato assessore alla cultura nel comune "rosso" di Firenze), e attorno a un giornale come La Repubblica (del quale è collaboratore), ma così povera di sostanza speculativa, anche perché totalmente refrattaria a misurarsi con i fatti e con le cose e così assuefatta, invece, a muoversi quasi in regime protezionistico (in senso, appunto, intellettuale), con tutte le garanzie e le protezioni del caso, al punto da non dover mai fare i conti con i propri fallimenti, e da avere abbastanza faccia tosta da puntare sempre il dito contro qualcun altro, anche se ha gli armadi pieni degli scheletri delle ideologie fallite, nelle quali ha strenuamente creduto e rispetto alle quali non ha mai saputo fare uno straccio di autocritica. Che cosa significa, per esempio, che Dio lascia essere il mondo fino a morirvi, per poi trarne la "dimostrazione" che Dio è assente, avendo lasciato Gesù morire sulla croce? Chi dice cose del genere, non vuol accettare il cristianesimo per quello che è, ma pretende che esso sia quel che non è: non accetta che Gesù Cristo si sia offerto volontariamente alla morte di croce, né che quel sacrificio sia necessario per la redenzione dell’umanità, e, pertanto, che in esso sia racchiuso tutto il significato della vita di Gesù, nonché della sua Incarnazione. Certo, ciascuno è libero d’interpretare il Vangelo come gli pare: non dovrebbe però dare per scontato che l’interpretazione cristiana, ossia quella dei diretti interessati, conti meno di zero a paragone della sua, che ne è il totale ribaltamento. E poi, che diavolo significa affermare che la morte di Cristo sulla croce è alla base del nulla come apertura, spazio nel quale si è ritirato, assenza che non può essere riempita se non al passare del divino e dai cenni che invia? Belle frasi, suggestive, altisonanti: ma che significano? Più che filosofia, sembra letteratura — e di quella dannunziana, per giunta; che certo piacerà a molti, ma non a tutti. E ancora: chi lo dice che il cristianesimo non ha più nulla da proporre agli uomini e che, forse, non possiede neppure la consapevolezza della propria crisi e della propria impotenza, perché incapace di proporre un’alternativa seria alla radice secolarizzante del nichilismo? L’alternativa ce l’ha, eccome; che poi possa non convincere o non essere condivisa da tutti, questo è un altro discorso. Infine: che vuol dire che l’annuncio cristiano è per la realizzazione dell’uomo e non per una sua destinazione a una realtà che lo separa dalla vocazione alla quale è chiamato? Qui si dà per scontato che la realizzazione dell’uomo sia nel mondo, e che la sua vocazione sia mondana; ma questo non è cristianesimo: questa è un’altra cosa; è ideologia progressista, appunto. Come sono noiosi, questi filosofi progressisti che non si stancano mai, dopo duemila anni, di voler arruolare Gesù Cristo nelle gloriose brigate della rivoluzione, e non si fanno una ragione che il regno di Cristo non appartenga a questo mondo! Qui siamo in difetto di onestà intellettuale, puramente e semplicemente.

Nemmeno la tesi del filosofo Claudio Ciancio ci sembra convincente. Egli parte da un assunto che non si prende la briga di dimostrare: che il nulla come principio del mondo o la morte di Dio nel mondo sono principi che hanno radici cristiane; accetta, cioè, il punto di vista di chi addossa al cristianesimo la responsabilità di aver generato il nichilismo. Poi contrattacca: non si può assumere questo principio come esclusivo, perché, così facendo, si nega il cristianesimo. Altra concessione indebita ai critici del cristianesimo: prende per buona la teologia della morte di Dio: teologia progressista e cattiva teologia, come abbiamo sostenuto in numerosi scritti. E nuovo contrattacco: però anche dalla morte di Dio può venire qualcosa di buono, come l’appello a una ricerca ulteriore. Ma l’evento della morte di Dio, come lui lo definisce, è davvero tale, o è l’opinione di certi filosofi?

In fondo, è passato più d’un secolo da quando Zarathustra gridava ai quattro venti la morte di Dio; e intanto la filosofia moderna, materialista e ateista, ha saputo elaborare qualcosa di meglio del nulla?

Fonte dell'immagine in evidenza: Foto di Chad Greiter su Unsplash

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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