
Angelo di Dio, che sei il mio custode
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8 Dicembre 2016Nella teologia cattolica, ai sette vizi capitali – superbia, avarizia, lussuria, invidia, gola, ira e accidia – si contrappongono i sette doni dello Spirito Santo, che l’anima riceve da Dio nel suo cammino di conversione, mano a mano che a Lui si affida, con fiducia illimitata e con generosità, lasciando cadere le illusioni relative all’io; ed essi sono la sapienza, l’intelletto, il consiglio, la fortezza, la scienza, la pietà e il timor di Dio. Ciascuno di essi merita una riflessione specifica. Partiamo qui dall’ultimo (nell’ordine tradizionale di esposizione, non quanto alla sua importanza), perché ci sembra che sia di gran lunga il più frainteso, il meno sentito e, al giorno d’oggi, il più necessario, ammesso che sia possibile stabilire una priorità fra di essi.
Che cosa significa timore di Dio? Questa sola espressione è sufficiente ad evocare sinistre immagini di paura; e, dal momento che fin troppi teologi moderni, e anche parecchi vescovi e sacerdoti, hanno denunciato l’errore pedagogico di una "teologia della paura" e sottolineato che l’uomo, anche se peccatore, deve accostarsi a Dio con la fiducia di trovare in Lui illimitata misericordia, verrebbe da pensare che il dono del timor di Dio non sia proprio un dono, o che, ad ogni modo, appartenga ad un universo religioso, spirituale e pedagogico che non ci appartiene più, perché ha fatto il suo tempo.
Ora, prescindere dal fatto che la sana teologia non è né "moderna", né, tanto meno, "antica", perché non è soggetta al mutar dei tempi e degli umori, ma affonda le sue radici in ciò che eterno e immutabile, e si sforza di rendere visibile e comprensibile ciò che, per sua natura, è invisibile e radicalmente superiore alla comprensione umana, e quindi che essa non deve cercare di rendersi popolare, di compiacere i contemporanei, ma di istruire e convertire gli uomini di buona volontà, resta il fatto che l’espressione "timore di Dio", generalmente, viene mal presentata e, quindi, anche mal compresa. Dio è persona, e questa affermazione è tanto più vera per il cristianesimo, l’unica religione nella quale ci si trovi davanti a un Dio che ha amato le sue creature così tanto, da incarnasi in una persona umana, e da accettare la sofferenza e la morte per mano delle sue creature umane. Ma il fatto che sia persona, e quindi che il suo rapporto con gli uomini sia un rapporto di natura personale, non toglie che egli è Persona infinita, mentre noi siamo persone finite. Di conseguenza, non è assolutamente una relazione tra uguali, o tra pari: l’uomo è creatura, Dio è il Creatore; l’uomo è colui che riceve da Dio il significato della propria vita, mentre Dio non deve il suo essere ad alcun altro che a Se stesso. Pertanto, l’amore che l’uomo prova nei confronti di Dio, e che è il frutto della "scoperta" dell’amore di Lui, non può paragonarsi in alcun modo all’amore che si prova per qualsiasi altra creatura, né per intensità, né per profondità. Infatti, è possibile continuare a vivere dopo la perdita di una persona amata, e perfino tornare ad amar la vita; ma non è neppure immaginabile una vita che sopravviva alla perdita del legame con Dio: moralmente e spiritualmente parlando, ciò sarebbe un suicidio.
È perfettamente naturale che noi proviamo un senso di paura davanti alla possibilità di perdere per sempre l’amicizia e la stima di un carissimo amico. D’altra parte, Dio non è semplicemente un "amico", o un "padre", per giunta sempre e solo "misericordioso": Egli è anche giusto. E la giustizia implica che il peccato debba essere riparato, anzitutto mediante il pentimento, poi mediante l’espiazione del male fatto. È altrettanto naturale, pertanto, che, davanti alla maestà di Dio, l’uomo provi anche il senso della propria estrema piccolezza, nonché una sorta di sbigottimento e di timore: il Suo splendore è talmente vivo che ne resteremmo abbagliati, se potessimo vederlo in tutta la sua gloria. E a ciò si accompagna una domanda che ricorre anche nei salmi della Bibbia: chi è l’uomo, perché Dio si ricordi di lui? Eppure non solo Egli si ricorda dell’uomo, ma è sempre sollecito del suo bene, e, per questo, tenta in ogni modo di attirarlo a Sé: Egli sa, infatti, ciò che gli uomini comprendono solo lentamente e con molta fatica, addirittura quasi controvoglia: che in Dio solo è il loro bene, e che non v’è alcun vero bene che sia senza, o contro di Lui. Il più delle volte essi cercano il bene altrove, in tutt’altro genere di cose, e non sanno, così facendo, di esser nemici di se stessi. E questo accade perché Dio è la fonte stessa dell’amore, di ogni possibile e vero amore, e, se si inaridisce la fonte, si prosciugano anche tutte le sorgenti che da essa si alimentano.
Amare Dio e amare il mondo, la vita, e le altre creature (non solamente quelle umane; ma certo quelle umane prima delle altre, con buona pace degli animalisti ) è una sola ed unica cosa; viceversa, si può amare una creatura, ma non Dio: solo che tale amore sarà disordinato, imperfetto, insoddisfacente, perché limitato, di corto respiro, e soggetto a tutti gli alti e bassi di una passionalità che ignora la vera fonte di ogni bene, e, quindi, del vero amore. In altre parole, amare le singole creature, ma non amare Dio, sarebbe come pretendere di ammirare le foglie o i rami, e apprezzare la loro bellezza, ma non voler vedere, o disprezzare, l’intera pianta: una cosa alquanto contraddittoria, e, alla lunga, pressoché insostenibile. Amando l’albero, si amano anche le fronde e le foglie; ma amando solo queste ultime, non si ama l’albero, e ci si priva di godere della completa e perfetta bellezza di ciò che si ha davanti. Le fronde, le foglie, i fiori, sono tanto più belli, se collocati nel loro contesto armonioso: l’albero, che li sostiene, li nutre, li offre al nostro sguardo ammirato. Per godere della bellezza delle foglie, ma non di quella dell’intera pianta, bisogna soffrire di una ben strana distorsione della sensibilità e della percezione. Se davvero ci fosse qualcuno che ama a questo modo, costui, evidentemente, non saprebbe amare nella maniera giusta; sarebbe simile al feticista, che ama gli indumenti dell’altra persona, quasi più che la persona stessa; oppure, se si preferisce, somiglierebbe a quel medico che si preoccupasse di curare il singolo organo del paziente, ma senza degnare di un pensiero l’intero organismo di cui esso fa parte — con quali conseguenza, lo si può facilmente immaginare.
L’amore per Dio è essenzialmente diverso da quello per le creature, e ciò non solo per ragioni puramente intellettuali, ossia perché diretto alla fonte di ogni altro amore. Esso è diverso anche perché è il solo amore dal quale noi possiamo e dobbiamo attenderci che, da parte di Dio, non si esaurisca mai, non si stanchi mai, non si scoraggi mai. Umanamente parlando, se noi tradiamo la persona amata, se ci allontaniamo da lei, o lei da noi, l’amore finisce, o, in ogni caso, si indebolisce, si corrompe. Invece l’amore di Dio per le sue creature non si indebolisce, non si corrompe, non si consuma: è infinitamente generoso, infinitamente paziente, infinitamente sollecito. Come un innamorato che non si stanca mai di aspettare, anche Lui aspetta che noi ci rendiamo conto del suo amore, che lo corrispondiamo e che ci convertiamo alla vita nuova, illuminata e riscaldata dai raggi della sua immensa passione per noi. Anche se noi lo tradiamo, Egli ci aspetta; se lo rinneghiamo, ci
aspetta, se gli voltiamo le spalle, ci aspetta: non si stanca di aspettarci, fino all’ultimo giorno della nostra vita terrena.
Ecco perché il concetto del "timor di Dio" non si può rendere semplicemente con "paura di Dio". Non è paura: è l’immensa stima, ed è l’immensa ammirazione, mista alla gratitudine, che proviamo di fronte a Qualcuno che è a noi infinitamente superiore, perché perfetto. Se davanti ad una persona saggia, buona, esemplare, noi proviamo un sentimento di ammirazione, di stima, e, insieme, quello della nostra piccolezza, della nostra inadeguatezza, accompagnato dal timore di poter perdere la sua stima e la sua confidenza, qualora dovessimo deluderlo, ebbene la stessa cosa, moltiplicata all’infinito, la si prova nei confronti di Dio. Essere suoi figli adottivi è la fonte di una gioia immensa; deluderlo, offenderlo, ripagare malamente la sua sollecitudine, ci rende coscienti che potremmo aver perso la sua amicizia, che potremmo essere stati esclusi dalla sua confidenza Non dal suo perdono, però, che è assolutamente certo: alla precisa condizione, tuttavia, che, in noi, vi sia un sincero pentimento del male fatto. E il pensiero di aver deluso Qualcuno che, per noi, era tutto, ci riempie di tristezza e di angoscia, come, e a maggior ragione, proviamo tristezza e angoscia se sappiamo di aver gravemente deluso qualche persona che ci voleva bene, e al cui affetto tenevamo in modo particolare.
Questa consapevolezza di essere indegni dell’infinito amore che ci riserva e ci dimostra, è la radice fondamentale del timor di Dio; che non è, lo si tenga sempre a mente, un sentimento puramente umano, perché, umanamente parlando, siamo troppo pigri e troppo egoisti per poterlo provare così come sarebbe giusto provarlo, ossia con tutta l’intensità e la sincerità che esso merita; ma è un dono che ci viene concesso dall’Alto, è uno dei sette doni speciali dello Spirito Santo, che sono concessi alle anime che se ne mostrano degne e desiderose. Ammonisce il Libro dei Proverbi dell’Antico Testamento: L’inizio della sapienza è il timor di Dio, Initium sapientiae timor Domini, frase che è stata incisa anche all’ingresso del Palazzo della Sapienza, a Roma, sede originaria dello Studio universitario romano. La sapienza incomincia con il timor di Dio; il timor di Dio è il presupposto della sapienza: non esiste vera sapienza, senza che vi sia il timor di Dio. Ebbene, è proprio questo aspetto che l’illuminismo ha voluto combattere e sradicare dall’anima della civiltà europea; e bisogna dire che c’è sostanzialmente riuscito, dopo tre secoli di sforzi, visto che l’uso libero e spregiudicato della ragione, pietra angolare della crociata illuminista contro "l’oscurantismo e la superstizione", è precisamente l’equivalente della cancellazione del timor di Dio e della impostazione del sapere umano su d’un piano di laicismo radicale.
Detto questo, bisogna pur riconoscere che, nel "timor di Dio", è compreso anche un sentimento di soggezione e di timore, nel senso proprio e comune della parola: cioè quel sentimento di timore e tremore di cui parlava il filosofo Søren Kierkegaard, ricordando ciò che dovette provare Abramo allorché Dio gli chiese di sacrificare per Lui il proprio figlio Isacco, in maniera non solo crudele, ma anche apparentemente incomprensibile. Timore e tremore, che scaturiscono dalla percezione della radicale, totale alterità di Dio rispetto all’uomo: per cui le sue vie non sono le nostre vie, i suoi pensieri non sono i nostri pensieri. E ciò fa quasi paura, indubbiamente. Essere di fronte a Dio, difatti, è come essere di fronte a ciò che, per definizione, eccede talmente la misura del pensiero umano, della sapienza umana, e perfino delle umane congetture, da ridurre l’uomo stesso ad uno stato di totale impotenza, di resa totale, molto simile alla confusione e al turbamento più completi. Qualsiasi cosa l’uomo possa pensare, infatti, fosse anche l’uomo più sapiente e più intelligente della terra, si tratterebbe pur sempre di un penoso balbettio di fronte al pensiero di Dio, abissale, insondabile, e quindi assolutamente misterioso. Se Dio stesso non avesse voluto farsi conoscere, prima, parzialmente, per bocca dei profeti, e poi, apertamente, per mezzo del suo Figlio unigenito, venuto nel mondo ad annunciare la sua Parola, il suo Vangelo di amore ineffabile, gli uomini non potrebbero saper nulla di Lui, e dovrebbero accontentarsi di concetti metafisici puramente astratti, oppure di ipotesi puramente gratuite, senza la benché minima certezza che si avvicinino anche solo vagamene alla Realtà divina. Come si potrebbe non provare un certo timore, trovandosi a tu per tu con la Persona infinita, con il mistero insondabile — con il doppio, abissale mistero – della santissima Trinità e della divina Incarnazione?
Proviamo a riflettere. Si prova timore, mescolato ad un fascino arcano, anche quando ci si trova davanti ad un semplice paesaggio inanimato, se esso è grandioso, e, in qualche modo, terribile. Un burrone montano, un precipizio alpestre, un orrido che si sprofonda nelle viscere della terra, inghiottendo misteriosamente le acque d’un fiume, o d’un lago: davanti a simili paesaggi, circondati e dominati non solo fisicamente, ma anche psicologicamente, dalle possenti pareti di granito, e coscienti che mettere un piede in fallo equivarrebbe a precipitare nel vuoto per decine o centinaia di metri, si prova un brivido di terrore, pur mescolato alla suggestione di quella strana bellezza della natura, talmente fuori misura, rispetto alle dimensioni umane, da sconfinare nel sublime. Ebbene: se si prova un sentimento di timore e tremore davanti a quelle nude, gigantesche pendici di roccia, davanti a quella grandiosa cascata, che precipita giù spumeggiando, di balzo in balzo, di fratta in fratta, assordando gli orecchi con il suo fragore, simile al mugghiare del mare in tempesta: come sarebbe mai possibile non provare timore e tremore davanti al pensiero di Dio, alla presenza di Dio, all’azione di Dio che si manifesta nella vita degli uomini? Tutti i grandi santi hanno provato questo sentimento, quando s’immergevano e quando s’immergono nella preghiera e quando si lasciano rapire e trasportare via nella contemplazione e nell’adorazione di Dio. Trasportare dove? Nessuno lo sa. San Paolo dice, nella Seconda Lettera ai Corinzi (12, 2-4), che, un giorno, egli venne rapito in estasi fino al terzo cielo: se lo fu anche con il corpo, o solo con lo spirito – dice – Dio soltanto lo sa. Perché questa è la verità: Dio sa tutto, e noi sappiano solo ciò che Egli si compiace di farci sapere…
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