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Da quando il mondo ha smesso di esserci amico?

L’espressione "il mondo" ha almeno due significati, anzi tre.

Innanzitutto, è la dimensione materiale del reale: tutto ciò che esiste ed è sensibile, quindi misurabile e quantificabile, nonché indagabile razionalmente.

La seconda è quella del linguaggio ordinario: il mondo è la realtà che ci circonda soggettivamente, l’insieme di quelle cose che rappresentano per noi i punti di rifermento, che ci accompagnano nel nostro viaggio terreno, e alle quali ci sentiamo legati, nel bene e anche ne male.

La terza è quella usata, in un senso teologico molto preciso, specialmente nel Nuovo Testamento, e soprattutto nel Vangelo di Giovanni e nelle epistole paoline: è l’insieme delle forze, egoistiche e malvagie, perché ispirate da Satana, che si oppongono e si contrappongono al Vangelo e all’avvento del regno di Dio.

In questa sede, intendiamo riferirci al secondo significato, quello del linguaggio ordinario: al mondo che diciamo "nostro", non tanto in senso possessivo, quanto in senso affettivo: il mondo della nostra infanzia, dei nostri valori, delle nostre speranze, delle nostre gioie e dei nostri dolori, insomma del nostro orizzonte esistenziale. Ebbene, questo mondo è, per definizione, ciò a cui siamo legati, che ha determinato quel che siamo e che ci permette di organizzare le nostre esperienze in vista del raggiungimento di obiettivi, primo fra tutti la conservazione della nostra esistenza, il suo potenziamento, la sua stabilità e, se possibile, la sua felicità. In questo senso, il nostro mondo corrisponde all’arco della nostra vita, a ciò che essa abbraccia, non solo materialmente, ma anche idealmente: comprende, cioè, anche la dimensione spirituale, con le mete cui essa tende a indirizzarsi, ad esempio il matrimonio, e tutto ciò che Kierkegaard chiamava lo stadio "etico" della vita umana.

Il concetto di mondo, infatti, anche nel linguaggio ordinario, presuppone che vi sia in esso un ordine, e quindi anche una finalità: se neghiamo l’uno e l’altra, allora si scade automaticamente nel terzo significato, quello assolutamente negativo. Vivere secondo il mondo, cioè, corrisponde a una vita disordinata e dissipata, nella quale tutto è affidato al capriccio, ossia al principio del piacere, nel disprezzo più assoluto della serietà dell’esistenza e nel rifiuto ostinato di ascoltare la voce della vocazione cui siamo stati destinati. Chi vive secondo il mondo non aspira ad altro fine, se tale si può chiamare, che quello di soddisfare ogni impulso e ogni appetito; salvo poi ricorrere alla suprema ipocrisia di inventarsi un linguaggio che faccia passare per giusto e buono, o, magari, per socialmente utile e necessario, ciò che nasce esclusivamente dall’egoismo e dalla concupiscenza. Per essere chiari: una coppia omosessuale che sostiene di avere un gran desiderio di genitorialità, può fare in modo di ottenere un bambino tramite una serie di manipolazioni e contraffazioni dell’atto procreativo, nonché mediante la compravendita della creatura, partorita da una donna a ciò interessata: tutti coloro che han preso parte alla sconcia operazione parleranno di "percorso di paternità o maternità assistita", di "esperienza meravigliosa", di "generosità" delle donne che si sono offerte di ospitare gli ovociti e di portare avanti la gestazione, di "diritti civili finalmente realizzati e di "amore" come elemento base per la costruzione di una "famiglia", ma la nuda verità è ben altra, e cioè un cieco impulso egoistico e una sorta di sfida tanto alle leggi naturali, quanto alla legge morale, per rivendicare la "normalità", e perfino la bontà, di ciò che è anormale e profondamente egoistico, in cui l’amore c’entra ben poco.

Ora lasciamo stare il terzo significato e torniamo al secondo. Per vivere una vita sana, una vita serena, una vita in pace con se stesso, l’uomo ha bisogno che il proprio mondo gli sia amico, o, quanto meno, che egli lo riconosca sulla propria "misura". E, in effetti, così è stato, generazione dopo generazione, fino alle soglie della modernità. Poi, qualcosa è cambiato: il nostro mondo, a un certo punto, ha smesso di esserci amico; è divenuto estraneo, indifferente, perfino ostile. Come mai?

Proviamo a spiegarci meglio. L’uomo delle società pre-moderne poteva anche condurre una vita dura, piena di sacrifici, pochissimo gratificante: però, in linea di massima, riconosceva il mondo attorno a sé come il "suo" mondo; poteva sudare l’anima sul campo che lavorava, o sul mulino nel quale macinava il grano, poteva perfino maledire il suo destino, però, tutto sommato, si sentiva a casa propria, circondato dalle cose che riconosceva come fatte sulla sua misura. A ciò contribuiva potentemente, essenzialmente, il sentimento religioso: la coscienza della filiazione divina faceva sì che egli sentisse come "suo" il mondo in cui viveva, creato da Dio con sapienza e amore; la triste eredità del Peccato originale lo aiutava ad accettare il mistero del male, che egli riconosceva non solo negli altri, ma anche in se stesso, nelle pieghe più profonde del suo animo; la promessa evangelica della redenzione, attuatasi nella incarnazione, nella morte e nella risurrezione di Cristo, lo assicurava che né una lacrima, né un sorriso della sua vita sarebbero andati dispersi, che Dio lo avrebbe ricompensato per il bene fatto e lo avrebbe punito per il male cui si era abbandonato. Tutto questo faceva sì che egli si sentisse a suo agio nel mondo, anche se, dal punto di vista economico-sociale, era l’ultima ruota del carro, apparteneva alle classi più misere, e non poteva ragionevolmente aspettarsi, né, infatti, si aspettava, un destino diverso, in questa vita, dal duro lavoro e dai continui sacrifici, un giorno dopo l’altro, sino all’ultimo. Però lo sorreggeva la speranza della vita eterna, lo confortava l’esempio dei santi, lo illuminava la dottrina della Chiesa; senza dimenticare il sostegno, il consiglio e il conforto che poteva ricevere da altre figure a lui familiari, un nonno, un parente, un saggio della comunità cui apparteneva.

Anche le strutture materiali dell’esistenza concorrevano a questo sentimento di essere a casa propria. Il suo lavoro, era il lavoro delle sue mani, sia nei campi, sia nella bottega o nell’officina; la sua casa, era quella costruita con le sue stesse mani, e così la stalla, o il recinto per gli animali, e molti degli oggetti che adoperava quotidianamente; il suo paese, era quello che aveva visto fin da bambino, nel quale poteva riconoscesi e identificarsi, con il suo stile architettonico, le abitudini sociali, le sue usanze e tradizioni, il santo patrono, le ricorrenze del calendario religioso, la stessa scansione delle ore del giorno, che non era fatta dall’orologio, ma dalla posizione del sole e dal ritmo dei lavori agricoli stagionali. Il Messale sul quale leggeva i brani della Messa, o meditava qualche volta, la sera, al termine del lavoro, era quello appartenuto a suo padre o a sua madre, e così la Bibbia conservata in uno scaffale o in un cassetto; i vestiti, non di rado, erano quelli indossati a suo tempo dai genitori, e così le scarpe; il cane da caccia, il gatto, gli animali del cortile, erano quelli che aveva sempre visto, fin da piccolo; e l’albero al centro del giardino, era quello piantato da suo nonno, o da suo padre, o da lui stesso, pensando ai propri figli e ai propri futuri nipoti. Insomma, in quel mondo egli si rispecchiava e si riconosceva, indipendentemente dalla posizione che vi occupava, conte o servitore che fosse. Non era, come si potrebbe erroneamente pensare, un mondo bloccato e immobile, ma un mondo nel quale il succedersi delle generazioni assumeva l’ampiezza e la regolarità dell’avvicendarsi delle stagioni.

L’avvento della piena modernità, con l’industrializzazione, con la tecnica, con l’informatica, con la bioingegneria, e, soprattutto, con il mito del Progresso illimitato, ha spazzato via il rapporto, sia materiale che affettivo e psicologico, fra l’uomo e il "suo" mondo. In nome del massimo profitto economico, del cosmopolitismo, dell’efficientismo, e infine della globalizzazione, il mondo non è più di nessuno in particolare: è di tutti, il che significa che non appartiene ad alcuno. Le persone non hanno più il diritto di costruirvi sopra delle relazioni personali: dalla casa d’abitazione, al partner sessuale (non osiamo dire: al compagno/compagna di vita: sarebbe una terminologia obsoleta), dall’arredamento all’automobile, dalle abitudini nel fare la spesa a quelle del tempo libero, tutto è aleatorio, mutevole, e deve essere continuamente modificato, reinventato; proibito legarsi a qualcosa, proibito mettere radici, la stabilità non è più una virtù, né in senso geografico, né, meno ancora, in senso spirituale, intellettuale, morale. Ieri era bello e giusto essere coerenti, avere delle convinzioni, credere in qualcosa di saldo; oggi è giusto e bello esattamente l’opposto, essere duttili, pieghevoli, adattabili. Il mondo è diventato una grande palestra di relativismo, una scuola di sopravvivenza dove supera le prove solo colui che rinuncia a una identità ben definita, a delle certezze, a dei legami stabili, sia con le persone che con le cose. Vince chi si trasforma ogni mese, ogni settimana, ogni giorno, come un camaleonte; chi si mimetizza, chi si sposta, chi sa balzare da un capo all’altro del mondo, da un’estremità all’altra dello spettro ideologico, politico, finanziario, con la maggiore destrezza e rapidità. Vince il finanziere che sa eseguire le operazioni di borsa nel tempo più breve possibile, vende e compra a tempo di record, seguendo l’andamento delle quotazioni, se possibile anticipandolo; perde chi punta sul sicuro, chi deposita i suoi risparmi, chi ha bisogno dei prestiti della banca, perché non ha capito che la banca è diventata un collettore del risparmio il cui scopo non è erogare prestiti, ma investire il capitale in operazioni borsistiche sempre più spregiudicate, arrischiando il denaro altrui. La stessa figura "classica" del capitalista è in crisi: a che scopo creare un’azienda, pagare le tasse e i contribuiti dei lavoratori, affrontare le sfide del mercato globale, quando si possono realizzare utili assai più consistenti semplicemente investendo il denaro in borsa e speculando su titoli e azioni?

Ma tutto questo crea distacco e senso di estraneità fra l’uomo e il mondo, che non è più il "suo". Un uomo non sente più "sua" una casa, nella quale sa che abiterà per poco tempo, fino al prossimo trasloco: abituato a spostarsi di continuo, per ragioni di lavoro, quale sarà il suo "mondo"? Non i muri, gli oggetti, i vicini, il paesaggio; non i ricordi, le radici, l’identità, la memoria: ma la sua stessa condizione di provvisorietà, di commesso viaggiatore, magari d’alto bordo; la sua condizione di sradicato, quasi di apolide: e così i suoi figli, sballottati da un asilo all’altro, da una scuola all’altra, da una città all’altra: lontani dai nonni, o dal cimitero dove riposano i nonni, perfino dalla loro lingua, dal loro universo interiore, assuefatti a dei mondi provvisori, sempre più fuggevoli, con i quali si instaurano relazioni puramente utilitaristiche. Finché c’è guadagno, si vive in un posto; poi si offre una prospettiva migliore da un’altra parte, e si va via, senza rimpianti, e sempre con lo stesso spirito mercenario. Affezionarsi a qualcosa o a qualcuno, sarebbe follia: una inutile forma di sentimentalismo, controproducente e tediosa; un lusso che non ci si può permettere. Bisogna vivere con la valigia sempre pronta, proiettati sempre un passo avanti a se stessi. Il mondo gira sempre in più fretta, bisogna imparare a correre. Così con la tecnologia: bisogna continuamente aggiornarsi: chi si ferma è perduto, non c’è ormai professione, anche la più "manuale", che sia immune dall’obbligo di tenersi continuamente al corrente delle novità tecnologiche.

Per gli anziani e per un certo tipo di persone, ciò è molto faticoso: è come essere sempre a scuola, sempre sotto esami. Non arriva mai il momento in cui si può dire a se stessi: ora mi godrò un po’ di calma, ora sfrutterò le conoscenze acquisite; perché nel giro di pochi anni, di pochi mesi, arrivano delle innovazioni che esigono un rapido adeguamento da parte di tutti, pena il restare tagliati fuori dal mercato. Il mondo si fa sempre più fluido, sempre più liquido, per dirla con Zygmunt Bauman. Un biglietto aereo non ha un prezzo preciso: dipende con quanto anticipo lo si prenota per via elettronica. In circostanze fortunate, lo si può pagare anche un euro per volare da Milano a New York. Da ciò deriva la necessità di stare sempre all’erta, di tener sempre d’occhio le offerte, di informarsi e aggiornarsi ventiquattro ore su ventiquattro, dodici mesi al’anno. Tutto scorre, scorre sempre più in fretta. Il frigorifero dei nonni che durava una vita, è stato sostituito dal frigorifero dei genitori, che è durato quindici anni, infine da quello dell’ultima generazione, che ne durerà al massimo dieci. E così la televisione, l’automobile, la lavatrice, la macchina fotografica; mentre i telefonini cellulari "invecchiano" ancora più in fretta. Eppure, ogni volta ci viene detto che l’ultimo prodotto è il migliore di tutti, che possiede una quantità di pregi, di funzioni sofisticate, di utili novità. Siamo rassegnati: sappiamo che c’è qualcosa che non va in tutto questo, ma non possiamo farci niente, anche ammesso che desiderassimo qualcosa di diverso.

Ma se il mondo in cui viviamo non è più il nostro mondo, se non possiamo più rispecchiarci in esso, se addirittura non lo riconosciamo, e ci pare ogni giorno più simile a un deserto, a una landa disseminata di trappole e di nemici (quante telefonate riceviamo al giorno da parte di operatori commerciali che ci propongono ottimi affare e persino regali, e quante di esse nascondono una insidia o una vera e propria truffa?); se non possiamo più fidarci di nessuno; se abbiamo scordato le nostre radici, e se intorno a noi non vediamo che persone interessate a spremerci qualcosa, un assegno, una firma, una cambiale, una promessa, un impegno, allora qualcosa dentro di noi finisce per spezzarsi, o per inaridirsi irreparabilmente. In un mondo così, non possiamo che essere infelici…

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Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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