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La Grazia, senza la quale l’uomo è come morto, è la vita di Dio in lui

Ave o Maria, piena di grazia… Di solito si pensa alla Grazia come a un dono di Dio; non è sempre ben chiaro, però, di che tipo di dono si tratti. Anche se adopera continuamente questa parola, ad esempio nel recitare le sue preghiere, il cristiano, sovente, ha una certa confusione in testa, riguardo al suo autentico significato; figuriamoci il non cristiano. E questo la dice lunga sull’ignoranza che caratterizza ormai il credente, sempre più spesso, riguardo alle cose della sua fede; sulla decadenza dell’insegnamento della religione cattolica, tanto nei corsi parrocchiali di catechismo, quanto nell’ora settimanale prevista nella scuola pubblica; sulla insipienza e sul velleitarismo di una teologia, come quella odierna, che si sbizzarrisce nella ricerca di sempre nuovi significati nelle Scritture — beninteso, di segno sempre più progressista e modernista — mentre tralascia di diffondere e approfondire i concetti basilari della Rivelazione, divenuti pressoché sconosciuti ed estranei alla massa dei fedeli, un po’ come quel nuovo ricco che ostenta vestiti all’ultima moda e orologi costosi, ma trascura le nozioni più elementari della pulizia e dell’igiene personale.

C’è poco da fare: il cristiano medio, al presente, è povero, poverissimo: povero di cultura e di formazione religiosa; povero di conoscenze di base e degli stessi pre-requisiti delle conoscenze, come l’umiltà intellettuale, la fiducia e l’obbedienza nei confronti del Magistero ecclesiastico, la confidenza in Dio e la disponibilità a lasciarsi guidare, orientare, dirigere da Lui, mediante la capacità di vedere e valutare ogni cosa non secondo un criterio puramente umano, cioè secondo un principio di convenienza immediata e di comprensione esclusivamente razionale, ma secondo la misura dell’amore divino e la docilità nell’abbandonarsi ad esso. E di questo dobbiamo ringraziare, fra le altre cose, uno spirito "umano, troppo umano", come direbbe il buon vecchio Nietzsche, che è penetrato da tempo nel cuore della Chiesa stessa e che ha sospinto non solo i laici, ma, prima ancora e quasi più di loro, i sacerdoti e i vescovi stessi, da tempo — ma non tutti, per fortuna — ad inseguire posizioni sempre più avanzate, sempre più audaci, sempre più innovative, quasi che l’insegnamento finora impartito sia tutto da buttare, e quasi che il cristianesimo consista nel correre perennemente dietro, con la lingua penzoloni, a un non meglio specificato "progresso" e alla marcia incessante della modernità, invece che nel contrapporre alla civiltà moderna, impregnata radicalmente di materialismo, edonismo e relativismo, i valori perenni della Rivelazione, basati sulla roccia incrollabile della Scrittura e della Tradizione.

In base a questa scellerata "teologia", non di rado accompagnata da aggettivi che ne tradiscono la radice tutta umana e l’intenzionalità tutta progressista e niente affatto "cristiana" senz’altra specificazione — per esempio, la cosiddetta "teologia della liberazione" — bisogna che un cristiano si liberi dai "complessi" del passato, in particolare dal timore del giudizio di Dio e dalla paura dell’Inferno: perché, si sa, Dio è anzitutto misericordia; che la smetta di giudicare non solo il peccatore, ma anche il peccato, sempre per il medesimo principio, ovviamente frainteso e capovolto, quasi che Gesù sia venuto nel mondo per approvarlo e benedirlo così com’esso è, e non già per redimerlo, esortandolo alla conversione; e che si concentri nella vita di quaggiù, nella dimensione terrena, specialmente nell’azione sociale, onde raddrizzare le storture dell’economia, della politica, eccetera, non importa se trascurando gravemente la dimensione spirituale, dimenticando il valore della preghiera, e non tenendo in alcun conto le parole stesse del divino Maestro, che raccomanda di non anteporre l’agire alla contemplazione: Marta, Marta, tu ti affanni e ti agiti per molte cose, ma di una sola cosa c’è bisogno. Maria si è scelta la parte migliore, che non le sarà tolta (Luca, 10, 41-42).

Dunque: la Grazia. Possiamo definirla non come un generico "dono" di Dio all’uomo, ma come il dono specifico e totale di farlo partecipe della sua stessa vita, della vita divina, rendendolo così suo figlio adottivo, nel senso più pieno della parola; ed essa può manifestarsi in due forme, come Grazia santificante, donata agli uomini principalmente attraverso l’azione dei sacramenti, e come Grazia attuale, che si esprime come un intervento straordinario diretto all’uomo — ad esempio, come avvenne nella rivelazione di Gesù Cristo a Saulo di Tarso, il futuro san Paolo, sulla via di Damasco – per suscitarne la conversione e per disporlo ad accogliere la Grazia santificante.

Scriveva Cleto Patelli nel suo corso di religione per la Scuola media (e in quei manuali, concepiti prima dalla enorme confusione e del vero e proprio relativismo introdotti da un certo qual "spirito conciliare" a partire dalla fine degli anni ’60 del Novecento, ancora fedeli alla sacra Tradizione e immuni da tendenze neomoderniste, si trova una dottrina teologica più chiara e veritiera, per quanto semplice ed essenziale, di quella contenuta in certe astruse e "troppo umane" opere teologiche degli anni successivi), a proposito della Grazia (in: La Scala di Giacobbe, Torino, Società Editrice Internazionale, 1966, vol. II, La Grazia, pp. 2-4):

Gesù alla Samaritana parla di un dono di Dio, dono eccezionale, che è capace di portare l’uomo fino alle altezze di Dio: questo dono è la grazia.

Dio, creando l’uomo, l’aveva ornato di attributi che lo facevano signor del creato: oltre ad un’anima spirituale, gli aveva dato il dono del’immortalità, il dono della scienza infusa, il dono dell’equilibrio delle passioni.

Ma il massimo dono che Dio aveva atto all’uomo era la grazia santificante, per cui l’uomo viene innalzato alla dignità di figlio adottivo di Dio, fratello di Gesù Cristo e può meritare di andare a godere della visione di Dio nel Paradiso.

Che cos’è la grazia?

Leggiamo cosa dice Gesù: "Io sono la vera vite, e il Padre mio è l’agricoltore. Ogni tralcio che in me non porta frutto, Egli lo recide; ed ogni tralcio, che porta frutto, lo rimonda, affinché ne porti ancora di più. Voi siete già mondi a motivo della parola, che vi ho detta. Rimanete in me ed io in voi. Siccome il tralcio da sé non può portare frutto, se non rimane congiunto con la vite, così nemmeno voi, se non rimanete in me. Io sono la vite, voi i tralci. Chi rimane in me, ed io in lui, produce molto frutto; perché senza di me, voi non potete far nulla.

Chi poi in me non rimane, è gettato via come il tralcio e si dissecca, e lo raccolgono, e lo buttano nel fuoco, dove brucia" (Giovanni, 15, 1-6).

I tralci innestati nel tronco della vite, vivono della vita del tronco. Gli uomini, inseriti in Gesù con la grazia, vivono della sua vita divina.

La Grazia è la vita di Dio in noi.

Ci insegna san Pietro: "Per tale mezzo (la grazia) diveniste partecipi della divina natura (2 Pietro, 1, 4); per cui possiamo chiamare l’uomo in grazia: Figlio di Dio. Non figlio della sostanza del Padre, bensì Figlio adottivo, ma sempre figlio. Avete ricevuto lo spirito di adozione filiale, per il quale esclamiamo: "Abba! O Padre" (Romani, 8, 15), afferma san Paolo; senza che perdiamo nulla della nostra natura umana.

L’innesto, applicato sul tronco selvatico, gli comunica una forza di natura nuova, che lo fende idoneo a produrre frutti, che prima era incapace di dare; ma non gli toglie nulla della sua natura: resta l’albero di prima.

"Tu — insegna san Paolo ai Gentili convertiti — sei stato troncato dall’olivastro, al quale per natura appartenevi, e, contrariamente alla tua natura, sei stato innestato sopra un olivo domestico" (Romani, 11, 24).

Osserviamo una lampada elettrica. Dentro vi è un filo sottile, che appena si vede. Se però, girando l’interruttore, attraverso quel filamento facciamo passare la corrente elettrica, essa subito irraggia una luce smagliante. Una forza misteriosa ha penetrato quel filo nella sua sostanza, e lo ha reso incandescente e luminoso; ma il filamento che si è acceso rimane sempre per sua natura un filamento opaco e quasi invisibile. Così anche l’uomo, investito dalla grazia, rimane sempre uomo, essere ragionevole composto di anima e di corpo; ma la sua natura, compenetrata dalla grazia, si eleva dall’ordine naturale all’ordine sopranaturale. E si trasforma in abitazione di Dio.

Afferma Gesù: "Se uno mi ama, osserverà le mie parole, e il Padre lo amerà, e noi verremo a lui, e in lui faremo dimora" (Giovanni, 14, 23).

La Grazia è la dimora stabile, è la presenza duratura di Dio nell’anima umana, diventata sua abitazione, suo tempio. "Non sapete che voi siete tempio di Dio, e che lo Spirito di Dio dimora in voi?" (Romani, 3, 16).

La Grazia, dunque, è l’innesto della vita divina sul tronco della nostra condizione umana, che ci proietta verso le altezze del soprannaturale e ci fa partecipi della stessa vita di Dio, realizzando, così, pienamente, la nostra umanità, secondo la bellissima ed efficacissima similitudine, fatta da Gesù stesso, della vite e dei tralci. Questo dovrebbe essere ben chiaro al cristiano: che la vita umana, senza la Grazia, regredisce al livello della vita animale, anzi, bestiale: perché l’animale vive senza colpa la propria inconsapevolezza, mentre l’uomo che ignora sia la natura che il valore della Grazia, e che tralascia di cercarla con tutte le sue forze, abdica al proprio statuto ontologico di creatura razionale dotata di un’anima spirituale, e si riduce al livello dei bruti.

Ne consegue che l’uomo, per realizzarsi autenticamente in quanto uomo, per attuare sino in fondo la propria umanità, deve andare oltre se stesso: egli non può accontentarsi di una vita vegetativa o di una vita animale; deve puntare a realizzare, nella forma più consapevole e mettendo a frutto i propri talenti spirituali, la vocazione cui è stato chiamato fin da prima di essere concepito, anzi, fin da prima della creazione del mondo: perché ciascuna creatura è stata presente, nella mente di Dio, sin dall’eternità, quando ancora il mondo non esisteva allo stato materiale, ciascuna con la propria speciale missione e ciascuna dotata di una specifica dignità.

I teologi (o i sedicenti teologi) progressisti e modernisti, i quali parlano e blaterano incessantemente del "diritto" dell’uomo alla felicità, e sproloquiano sul fatto che Dio desidera la nostra felicità, non sanno, letteralmente, quel che stanno dicendo: a nessuna creatura, e tanto meno all’uomo, la creatura ragionevole su tutte le altre, e la più simile a Lui, Dio si è mai sognato di promettere la felicità, secondo il concetto che gli uomini hanno di essa; perché le Sue vie non sono le nostre vie, i Suoi disegni non sono i nostri disegni. Ciò che Dio chiede all’uomo — e lo sappiamo dall’esempio di Gesù Cristo, nonché dalle sue parabole e dalle sue raccomandazioni — è di aprirsi all’azione della Grazia, di lasciarsi riempire da Lui, di lasciarsi condurre da Lui verso la piena realizzazione di se stesso, che è altra cosa, per non dire opposta, alla "realizzazione" dell’uomo di cui parlano psicologi e filosofi in chiave puramente laica ed umana, e, purtroppo, sempre più spesso, anche sedicenti teologi cattolici, e perfino vescovi e sacerdoti.

La pessima dottrina, secondo cui Dio desidera per l’uomo nient’altro che la sua "felicità", nasce dalla pretesa — veramente satanica — di giustificare davanti a Dio ciò che non viene da Dio, ossia la pretesa dell’uomo di vivere nel peccato, spacciando il peccato per una condizione "naturale", che Dio stesso — suprema blasfemia — sarebbe pronto e ansioso di approvare, appunto perché non desidererebbe che la nostra umana felicità. Secondo questo falso insegnamento, Dio sarebbe pronto ad approvare tutto quel che l’uomo fa e brama, solo perché ciò, in base a un criterio esclusivamente umano, lo renderebbe "felice": Ma come potrà mai l’uomo essere felice, se volta le spalle alla vita divina e si rotola nel fango di una condizione umana chiusa in se stessa e compiaciuta di se stessa, quasi che Dio non sia altro che un sollecito notaio, chiamato ad avallare e a legalizzare tutto ciò che il suo cliente desidera, comprese le più evidenti violazioni dell’ordine divino? Ci vengono in mente, a questo proposito, le scellerate esternazioni di certi teologi e di certi vescovi e preti, i quali non cessano di dare scandalo ai fedeli, predicando una dottrina relativista e un’etica possibilista, tutta incentrata sull’uomo — la chiamano, infatti, "svolta antropologica", e se ne vantano, mentre dovrebbero, semmai, vergognarsene. Un esempio per tutti: il vescovo di Anversa, Johan Bonny, che benedice le nozze gay. Se questa è la "svolta antropologica", ha un inconfondibile sentore di zolfo…

Fonte dell'immagine in evidenza: Foto di Chad Greiter su Unsplash

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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