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29 Agosto 2016George Orwell, pseudonimo di Eric Arthur Blair (Mothiari, India, 25 giugno 1903-Londra, 21 gennaio 1950), è un perfetto esempio di intellettuale britannico progressista, antifascista e bene intenzionato: i suoi due romanzi, La fattoria degli animali, (Animal Farms, 1945) e 1984 (Nineteen Eighty-Four, 1948), più il reportage Omaggio alla Catalogna (Homage to Catalonia, 1938) gli hanno valso la fama internazionale, e, insieme ad essa, una solida posizione quale scrittore non solo impegnato sul piano civile e politico-sociale, ma illuminato e quasi preveggente; giudizio ormai definitivamente accreditato, che gli vale un posto inamovibile nell’Olimpo delle celebrità letterarie del XX secolo.
Non staremo qui a discutere se la sua gloria sia meritata, da un punto di vista strettamente letterario: semmai, ne riparleremo in altro luogo; quel che c’interessa, ora, è mostrare come, nell’atteggiamento intellettuale di Orwell, vi siano, concentrati in altissimo grado, tutti gli ingredienti essenziali che hanno caratterizzato quel certo tipo di scrittore del secolo scorso, il quale, in nome del suo "antifascismo", ha diritto alla gratitudine eterna e alla devota ammirazione del pubblico europeo e mondiale, per essersi schierato dalla parte "giusta" della barricata, laddove altri scrittori e altri intellettuali — come Céline, come Hamsun, come Gentile e come Heidegger — scelsero si stare dalla parte sbagliata. E poco importa se, pur di combattere il fascismo, questi eroi antiveggenti non esitarono a fiancheggiare il comunismo, e sia pure, come nel caso di Orwell, nella forma antistaliniana dei trotzkisti e degli anarchici, ideologia che, evidentemente, e almeno fino al 1945, ossia fino a quando la "belva nazista" non venne eliminata, poté godere di un supplemento di credito e di rispettabilità, visto che anch’essa combatteva per la buona causa.
Durante la guerra civile spagnola, Orwell, insieme alla moglie, va a combattere nelle Brigate internazionali e si becca una ferita al collo; ricoverato in ospedale, quando rientra Barcellona assiste alla repressione staliniana contro il P.O.U.M. e contro gli anarchici e deduce di partire, quasi di nascosto, considerando chiusa quella esperienza. Da buon progressista inglese con spiccate simpatie per la rivoluzione, non ha avuto esitazioni a gettarsi in una mischia che non lo riguardava affatto e a versare il sangue di una gente che non era la sua: in nome della sua ideologia, identificata con la causa della civiltà e della libertà del mondo, ha preso un Paese straniere quale laboratorio per l’ennesimo (e sanguinoso) esperimento politico rivoluzionario, cosa tipicamente britannica. Da tre secoli l’Inghilterra ha raggiunto la sua stabilità sociale e istituzionale, per cui ai suoi intellettuali non resta che andare a mescolarsi nelle lotte altrui: questi intellettuali progressisti e bene intenzionati non sono alieni dal versare il sangue, ma in casa d’altri, mai in casa propria.
Quanto sia stato onesto intellettualmente il suo modo di raccontare la guerra civile spagnola, lo si può desumere dal fatto che, se fosse stato per lui e per tutti quelli come lui, nessuno, fuori di quel Paese, avrebbe mai saputo che le atrocità non furono commesse solo dai franchisti, ma anche dai repubblicani: al massimo, sapremmo delle repressioni comuniste contro l’estrema sinistra; ma nulla di nulla circa la persecuzione anticristiana, l’assassinio di migliaia di preti e frati, l’incendio di conventi e le violenze contro le suore. No, queste cose un gentleman inglese non le racconta: potrebbero incrinare l’immagine di un fronte antifascista che va identificato con la causa del Bene, e sia pure con qualche nodo irrisolto e qualche contraddizione interna. E poi, a un gentleman inglese poco importa se qualche migliaio di preti cattolici vengono ammazzati; anzi, diciamo pure che non se ne dispera affatto. Sia pure in maniera un po’ sbrigativa, la strada per l’emancipazione dell’umanità dagli oscurantismi e dalle repressioni passa anche per simili vicende; e non è il caso di scandalizzarsi per così poco. Se, invece, ad essere ammazzati e imprigionati sono alcune migliaia di anarchici e trotzkisti, allora la cosa cambia decisamente aspetto. Non è un modo di agire da veri gentlemen, questo: e un intellettuale come Orwell mostra tutto il suo sconcerto e la sua disapprovazione andandosene via, insalutato ospite, così com’era venuto.
Ci siamo dilungati sulla guerra civile spagnola per puntualizzare un tratto caratteristico della psicologia progressista: essa è capace d’indignazione, ma solo se le vittime sono delle sua stessa parte ideologica, o di una parte affine; se appartengono ad un’altra parrocchia, tanto peggio per loro: la cosa, in verità, non interessa affatto. Ebbene, questo paraocchi sistematico, questa incapacità di guardare i problemi nella loro totalità, sia negli aspetti che piacciono (politicamente), sia in quelli che non piacciono, insomma questa faziosità e questa partigianeria, emergono continuamente dal modo di ragionare di quelli come Orwell: nei loro giudizi, nel loro modo di vedere e di descrivere la realtà, che viene sistematicamente storpiata e deformata secondo le lenti ideologiche che costoro inforcano sul naso. E un buon esempio di ciò lo si trova, ad esempio, nel giudizi sulla Francia "vera", che Orwell esprime in un articolo del febbraio 1941, in piena Seconda guerra mondiale, quando gli Inglesi si aspettavano da un giorno all’altro la notizia che l’invasione hitleriana della loro isola era incominciata.
La riflessione sul carattere della "vera" società francese è buttata lì in via secondaria, all’interno di un discorso assai più ampio, nel quale Orwell sostiene che la Gran Bretagna mai e poi mai dovrà addivenire a un compromesso con Hitler, ma dovrà resistere a qualsiasi costo, anche di subire un’invasione, perché i suoi valori politici e civili sono all’opposto di quelli nazisti e, quindi, fra le due potenze non sarebbe possibile che una tregua, della quale i Tedeschi profitterebbero per preparare lo sbarco nelle condizioni a loro più favorevoli. Dunque, si tratta solo di un inciso; e, proprio per questo, secondo noi, riveste un significato intrinseco notevole, come insegna il vecchio Plutarco (Vita di Alessandro, 1): Non sempre soltanto nelle azioni più appariscenti si manifestano i vizi e le virtù: spesso, anzi, un gesto insignificante, una parola, uno scherzo, manifestano l’indole di un uomo più delle battaglie sanguinose e dei grandi spiegamenti di eserciti.
Osserva, dunque, Orwell, nel suo saggio Il leone e l’unicorno (emblemi dell’Inghilterra), nel 1941 (in: George Orwell, Tra sdegno e passione. Una scelta di saggi, articoli, lettere; titolo originale: The Collected essays Journalism and Letters of George Orwell, Edited by Sonia Bromwell Orwell, 1968; traduzione dall’inglese Enzo Giachino, Milano, Rizzoli Editore, 1977, pp. 324-325):
Potrebbe anche accadere che l’Inghilterra introducesse i principi elementari del socialismo, trasformasse questa guerra in una guerra rivoluzionaria e tuttavia venisse sconfitta. Questo in ogni caso è materialmente possibile. Ma questo, per terribile che potesse risultare a tutti quelli che oggi sono adulti, sarebbe meno letale di una pace di compromesso, quale viene vagheggiata da pochi ricchi e dai loro salariati mentitori. La rovina definitiva dell’Inghilterra potrebbe solo essere compiuta da un governo inglese, che ricevesse gli ordini da Berlino. Ma ciò non potrà accadere se l’Inghilterra prima di allora si è svegliata. Perché in quel caso la sconfitta sarebbe indiscutibile, la lotta continuerebbe l’idea sopravvivrebbe. La differenza tra il farsi sconfiggere combattendo e l’arrendersi senza combattere non è affatto una questione di onore e di eroismo infantile. Hitler una volta disse che accettare la sconfitta distrugge l’anima di una nazione. Sembra una frase retorica, mentre invece è un’autentica verità. La sconfitta del 1870 non fece diminuire l’influenza mondiale della Francia. La Terza Repubblica intellettualmente esercitò maggiore influenza di quella esercitata dalla Francia di Napoleone III. Ma il tipo di pace che Pétain, Laval e compagni hanno accettato può solo essere ottenuta con la deliberata distruzione della cultura nazionale. Il governo di Vichy godrà di una spuria indipendenza solo a patto che distrugga i segni caratteristici della cultura francese: repubblicanesimo, spirito laico, rispetto per l’intelligenza, assenza di pregiudizi razziali. Noi non potremo essere completamente sconfitti, se abbiamo compiuto prima d’allora la nostra rivoluzione. Può darsi che si debba vedere truppe tedesche marciare per Whitehall, ma intanto sarà incominciato un altro processo che, in ultima analisi, sarà letale per i sogni di potenza tedeschi. Gli Spagnoli vennero sconfitti, ma le cose che essi impararono durante quei due anni e mezzo così memorabili colpiranno un giorno i fascisti spagnoli come un boomerang.
E questo sarebbe quel genio letterario che, col romanzo 1984, è stato salutato come uno dei più grandi profeti dell’umanità, e sia pure in senso negativo? Come si vede da questo brano, Orwell, in piena Seconda guerra mondiale, non aveva capito assolutamente nulla di quale fosse la posta n gioco; così come non aveva capito nulla — ne fa fede l’osservazione finale — della guerra civile spagnola, cui aveva partecipato. Si è perfino imbarazzati davanti a tanta ingenuità barricadiera: pensare che la Gran Bretagna – che, nella persona di Winston Churchill, aveva deciso di lottare contro Hitler fino al totale annientamento del nazismo (proprio come voleva il Nostro) – avrebbe adottato la strategia vincente se si fosse messa a diffondere il socialismo rivoluzionario nel mondo, e non aver compreso ch’essa voleva soltanto difendere, egoisticamente e anacronisticamente, il suo immenso impero coloniale, facente perno sul "gioiello della Corona", l’India, quello stesso Impero che, solo due anni dopo la fine della guerra, gli Inglesi dovrà abbandonare in fretta e furia, lasciandolo nel caos e nella guerra civile fra Indù e Musulmani.: beata ingenuità di questi sognatori di sinistra, di questi romantici inguaribilmente malati di giacobinismo d’accatto!
E veniamo al giudizio sulla Francia. Orwell afferma che la Terza Repubblica, pur essendo nata da una bruciante sconfitta — quella del 1870 – ha esercitato una influenza intellettuale più forte della Francia di Napoleone III: questa è una sua valutazione, ed è un suo diritto farla. Ma quando passa a sostenere che la ragione di ciò va ricercata nel fatto che la Terza Repubblica ha espresso la "vera Francia", i "veri" valori francesi – repubblicanesimo, spirito laico, rispetto per l’intelligenza, assenza di pregiudizi razziali -, ebbene, a questo punto egli sta falsificando la realtà, la sta modellando a sua immagine e somiglianza: perché, per un intellettuale progressista, il mondo "vero" è questo: laico, repubblicano, intelligente e senza pregiudizi; mentre tutto ciò che non rientra nel suo schema è clericale, assolutista, stupido e razzista. I progressisti sino tutti così, tutti uguali: per loro il mondo si divide in due schieramento, senza sfumature: da una parte l’Illuminismo e la sua tradizione, dall’altra l’Oscurantismo e le sue brutture; l’uno marcia al passo del Progresso, l’altro si sforza inutilmente di resistervi (inutilmente, perché è stupido per definizione: ma verrà sconfitto comunque). Il progressista è un fanatico che non sa, né vuole ammettere, di esserlo; un bigotto animato da uno spirito religioso più angusto di quello clericale: ed è questa la ragione per cui i progressisti vanno così d’accordo con i cristiani di sinistra, con i cattocomunisti. È l’incontro di due mentalità ottuse e arroganti, convinte di avere la verità in esclusiva e di essere state chiamate da Dio a estirpare il male dal mondo. Il male, infatti, nel 1941, era il fascismo, non il comunismo. Il comunismo andava bene perché Stalin metteva venti milioni di baionette sul piatto della bilancia, per sconfiggere Hitler e Mussolini. Ciò non era ancora accaduto quando Orwell scriveva, nel febbraio (l’Operazione Barbarossa sarebbe scattata il 22 giugno): ma è significativo che il nemico, per lui, sia solo Hitler, non certo Stalin, benché questi, all’epoca, formalmente fosse ancora alleato di quello; e benché avesse visto come agivano, in Spagna, i seguaci di Stalin, non solo contro i fascisti, ma anche contro i "compagni" dell’estrema sinistra. Be’, visto che Stalin non aveva intenzione di fare la rivoluzione mondiale, ci avrebbe pensato la Gran Bretagna: questo, in estrema sintesi, il ragionamento, o piuttosto l’auspicio, del nostro Autore.
E ora, torniamo alla Francia. Orwell è convinto che la vera Francia sia quella massonica e radicale, anticattolica, laicista, filo-semita, insomma la gauche: ma che cosa lo porta a crederlo? Egli non lo spiega; lo afferma soltanto. Fa coincidere la verità con le sue opinioni. Che ci sia anche una Francia moderata, cattolica, che ama Dio, la patria e la famiglia, non lo vuole ammettere; semmai, essa gli pare una Francia retriva e meritevole di scomparire. Da buon progressista, nega il diritto d’esistere ai "conservatori": essi non rientrano nel quadro che gli è gradito, e, come un pittore selettivo, li elimina dal suo orizzonte. Né una parola di gratitudine per quei Francesi che, nel 1940, si son fatti massacrare per levar le castagne dal fuoco a Mr. Churchill. Naturale: a Sua Maestà, tutto è dovuto…
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