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L’epopea dell’Amethyst nel 1949: ovvero come si difendono le navi e l’onore

La disgraziata vicenda che ha visto quali protagonisti involontari i due fucilieri di Marina italiani Massimiliano Latorre e Salvatore Girone ha avuto inizio, come si ricorderà, il 15 febbraio 2012 con la presunta uccisione di due pescatori indiani da parte dei nostri militari e con un tranello teso dalla Guardia costiera indiana alla petroliera Enrica Lexie, alla quale fu chiesto di entrare nel porto di Kochi, nel Kerala, per collaborare con le indagini in corso circa l’attacco pirata, mentre poi, una volta ottenuto ciò, la nave venne posta sotto sequestro e i due marò arrestati, in spregio al diritto internazionale, secondo il quale la giurisdizione in caso di incidenti avvenuti in acque internazionali spetta alla magistratura della nazione di cui la nave batte la bandiera.

La Enrica Lexie non era certo una nave da guerra, ma una normalissima nave mercantile appartenente ad una società armatrice privata, e aveva a bordo sei fucilieri di marina al solo scopo di proteggersi dagli attacchi dei pirati, frequenti sulle rotte fra Bombay e Gibuti, cioè nel tratto di Oceano Indiano compreso fra le coste occidentali dell’India e il cosiddetto Corno d’Africa, specialmente la Somalia, divenuta da tempo la base di svariati signori della guerra e di gruppi ben organizzati di pirati, grazie all’inesistenza di un governo legittimo e autorevole riconosciuto da tutta la popolazione di quel Paese. Nondimeno, il fatto di avere a bordo dei militari italiani nell’esercizio delle loro funzioni di polizia internazionale contro la pirateria, la quale si può equiparare ad una forma di terrorismo, fa sì che quella petroliera avrebbe dovuto tenersi in contatto, oltre che con la società armatrice, anche con il Ministero della Difesa italiano e che, pertanto, il suo comandante, Umberto Vitelli, davanti alla richiesta della Guardia costiera del Kerala di interrompere la navigazione nelle sicure acque internazionali per entrare nel porto di Kochi, ove sarebbe stata alla mercé delle autorità indiane, forse avrebbe fatto bene a consultarsi preventivamente anche con le autorità italiane. Ciò sia detto senza voler muovere una critica al comandante, visto che, probabilmente, all’origine della sfortunata vicenda dell’arresto illegittimo dei nostri due militari vi è stata una normativa poco chiara riguardo allo statuto giuridico delle navi commerciali aventi a bordo personale della Marina militare e, in particolare, riguardo alla responsabilità di decisioni da prendere afferenti la sfera giuridica, nella ipotesi che si verifichino situazioni analoghe a quella del 15 febbraio 2012.

Una cosa, comunque, è emersa chiaramente dalla controversia italo-indiana, protrattasi per ben quattro anni (e non ancora conclusa), durante i quali i due militari italiani sono stati praticamente in balìa del capriccio delle autorità indiane, le quali non sono state neppure capaci di formalizzare una accusa precisa nei loro confronti, e al netto degli errori di natura politica e diplomatica commessi dal nostro governo nella gestione della crisi: il fatto, cioè, a monte di questi ultimi, che l’Italia ha rinunciato alle grandi tradizioni della sua Marina e ha permesso che una nave battente bandiera italiana, e recante a bordo dei militari in servizio di protezione internazionale contro la pirateria, così come raccomandato dalle Nazioni Unite per la navigazione nelle pericolose acque del Mare Arabico e del Mar Rosso, venisse sequestrata, sia pure temporaneamente, e la sua extra-territorialità violata, mediante l’arresto arbitrario e oltraggioso di due militari italiani, cui ha fatto seguito la loro detenzione in India, che, pur essendo stata alleviata in vario modo dalle nostre autorità consolari, ha avuto dei momenti altamente drammatici, con le autorità del Kerala che, di tanto in tanto, agitavano perfino la possibilità che ai due militari italiani (equiparati, paradossalmente, a dei "pirati) si potesse applicare perfino la pena di morte. E senza dimenticare che la loro detenzione, sia pure simbolica, si è protratta per oltre due anni e mezzo per Latorre (rientrato in Italia nel dicembre 2014 per sottoporsi a un intervento cardiaco), e più di quattro anni per Girone. La foto di un militare indiano che redarguisce i nostri due marò, alzando il dito e chiaramente alzando la voce contro di essi, è la testimonianza di una umiliazione che non loro, ma l’Italia come nazione sovrana, ha ricevuto e che ha continuato a subire per oltre quattro anni, nel succedersi di tre diversi governi: Monti, Letta e Renzi, e senza che il presidente Napolitano, pur così attivo a livello interno e internazionale, al punto da guadagnarsi l’appellativo di "re Giorgio" da pare della stampa anglosassone, abbia saputo o voluto adottare le misure necessarie a ristabilire la dignità e l’onore della nostra nazione, calpestate intenzionalmente dal governo ultra-nazionalista indiano per ragioni di politica interna e di prestigio internazionale, che nulla hanno a che fare coi due pescatori rimasti uccisi; mentre sussiste il dubbio, più che legittimo, che la loro nave fosse realmente in procinto di tentare un abbordaggio pirata ai danni della nostra petroliera, come emergerebbe dall’inchiesta condotta dall’ammiraglio Alessandro Piroli, inviato in India poco dopo l’incidente del febbraio 2012 per fare chiarezza sulle circostanze in cui esso si era verificato.

Avrebbe potuto tenere un altro contegno, la Enrica Lexie? O meglio, avrebbe potuto tenere un altro contegno il Ministero della Difesa: ad esempio, negare alle autorità indiane di salire a bordo della nave, entrata spontaneamente e (purtroppo) fiduciosamente nel porto di Kochi, e trarre in arresto, come due volgari malfattori, i nostri (e suoi) militari in servizio effettivo? Ma, per farlo, avrebbe dovuto essere informata preventivamente, dalla società armatrice, di quel che stava accadendo; e, inoltre, avrebbe dovuto essere immediatamente spalleggiata dalle autorità politiche, vale a dire dal nostro governo.

Ci piace, a puro titolo di confronto, rievocare quel che accadde a una fregata britannica durante la guerra civile cinese, sulle acque del fiume Yang-tze-kiang, nel 1949, e come la dignità e l’onore della bandiera britannica furono difese in circostanze difficilissime, tanto che l’equipaggio, pur avendo subito gravi perdite, poté uscire da quella drammatica situazione a testa alta e con la bandiera ben alta sul pennone. Sappiamo benissimo che non si può paragonare il comportamento di un equipaggio militare a quello di una nave mercantile, senza contare le enormi differenze di tempo e di circostanze; ciononostante, crediamo che si possa cogliere, nella vicenda della Amethyst, quello che dovrebbe essere il giusto modo di affrontare un pericolo o un imprevisto di natura politico-militare, mostrando quelle doti di coraggio e fierezza che pure la Marina italiana possedeva, sia quella mercantile, sia quella militare, e che forse, negli ultimi anni, si sono andate sfilacciando, visto anche il contegno di comandanti come Francesco Schettino, in occasione del naufragio della Costa Crociera, il 13 gennaio 2012, che ha gettato il discredito internazionale sulla nostra Marina e su tutto il nostro Paese.

Così ha rievocato la tragica e gloriosa vicenda dell’Amethyst — nota agli storici anche come l’incidente del Fiume Azzurro – l’ammiraglio Giorgio Giorgerini (in: Storia della Marina, Milano, Fabbri Editori, 1978, vol. 6, p. 1606):

Il 20 aprile 1949 l’"Amethyst", che aveva la missione di proteggere i cittadini britannici, venne intercettata lungo il corso del fiume Yang-tse dalle artiglierie comuniste che le arre4carono gravi danni perforandone lo scafo, al di sotto della linea di galleggiamento, uccisero 17 uomini, tra cui il comandante, e ne ferirono altri 30. L’unità fu così costretta ad arenarsi, ma i successivi tentativi di portarle soccorso operati dal caccia "Consort", dall’incrociatore "London" e dalla fregata "Black Swan" non ebbero esito alcuno, anzi le batterie comuniste riuscirono a danneggiare anche queste navi.

A bordo dell’"Amethyst", intanto, la situazione si faceva sempre più difficile, anche perché almeno i feriti più gravi dovevano essere sgomberati, visto che a fregata era riuscita a disincagliarsi e a portarsi in una piccola insenatura, sebbene sempre sotto la potenziale minaccia delle artiglierie comuniste. Finalmente un idrovolante Sunderland, quantunque fatto oggetto a un intenso fuoco, riuscì ad ammarare nei pressi della nave e ad imbarcare i feriti che più abbisognavano di urgenti cure. La situazione che il nuovo comandante dell’"Amethyst" — il capitano di corvetta John Simon Kerans, trasferito urgentemente dal suo posto di vice addetto navale a Nanchino — si trovò ad affrontare era dunque molto difficile e i comunisti vigilavano strettamente su ogni movimento che si svolgeva a bordo. Una volta evacuati i feriti rimasti, con l’aiuto dei nazionalisti, Kerans fece tappare i fori prodotti nello scafo dalle granate comuniste con brande arrotolate e con sacche da corredo, provvedendo inoltre a far distruggere il radar, perché non cadesse in mani nemiche.

Visto che i quasi quotidiani colloqui con le autorità comuniste non sortivano esito alcuno, Kerans si mise a progettare la fuga, mettendo in atto tutta una serie di accorgimenti che potessero deviare l’attenzione dei suoi "carcerieri". Cominciò così a scrivere lettere che sapeva benissimo intercettate, all’ammiraglio sir Patrick Bird a Hong Kong, con le quali lamentava come l’"Amethyst" fosse a corto di nafta e non potesse superare i 16 nodi. In realtà la nafta ancora a bordo, anche per il regime di stretta economia instaurato da Kerans, era sufficiente a compiere la navigazione fino al mare aperto mentre, con corrente favorevole, si potevano benissimo raggiungere i 22 nodi.

Giunse il mese di luglio e Kerans, sospettando ormai che si volesse prender l’"Amethyst" per fame, chiese a Hong Kong il permesso di salpare. L’autorizzazione gli venne accordata e poiché i due messaggi avevano contenuto alquanto sibillino, i comunisti cinesi non intuirono il loro vero significato. La fuga, accuratamente preparata, iniziò la sera del 29 luglio con un opportuno "mascheramento" dell’"Amethyst": il ponte venne pitturato di nero mentre i cannoni vennero nascosti con delle casse, in modo che la nave somigliasse il più possibile a uno dei mezzi che svolgevano sul fiume traffico mercantile. Approfittando del passaggio del vapore comunista "KIang Ling", l’"Amethyst" riuscì a mettersi sulla scia di questo e quando le batterie comuniste si accorsero della sua presenza era ormai tardi. L’unità britannica infatti, sebbene fatta oggetto a un intenso fuoco, riuscì a proseguire.

I primi momenti della fuga dell’"Amethyst" furono drammatici perché la fregata, colpita da qualche granata da 75 mm., s’inclinò su un lato, ma proprio quando Kerans aveva ormai fatto approntare le cariche di autodistruzione, riprese miracolosamente il suo assetto normale. Le prime ore del 30 luglio 1949 furono quelle decisive per l’"Amethyst" che, cogliendo completamente impreparate le varie batterie comuniste piazzate lungo il fiume, riuscì felicemente a superarle tutte, comprese quelle di Wu-sung che dominavano la confluenza del Wang-pu con lo Yang-tse. In quest’ultima occasione, tuttavia, Kerans sapeva di poter contare sull’appoggio del caccia "Concord" che lo stava aspettando alla foce del fiume, pronto, se il caso lo avesse richiesto, a intervenire con le sue artiglierie. Poco prima delle 06.00 l’"Amethyst" raggiunse il mare aperto e Kerans telegrafò all’ammiraglio il seguente messaggio: "Ho raggiunto la flotta. Né danni, né perdite. Dio salvi il re". La risposta non si fece attendere: "Benvenuto il vostro ritorno alla flotta. Il forzamento da voi compiuto farà storia nella Marina".

Nel corso di tutta questa vicenda, spiccano le doti di iniziativa, di fermezza, di tenacia, d’inventiva e di ragionato ottimismo dei Britannici, e specialmente del comandante Kerans, il quale, inviato ad assumere il comando di una nave gravemente danneggiata e praticamente condannata alla cattura, seppe vincere la gara di nervi con le autorità comuniste cinesi, che tenevano la sua unità sotto tiro, e, dopo averle ingannate sulle sue intenzioni, si mosse con tempestività e audacia allorché esse avevano abbassato la guardia. Discendendo la corrente del fiume sotto il tiro, o la minaccia del tiro incrociato, delle batterie dislocate lungo le rive, egli riuscì a forzare il blocco e a raggiungere la salvezza, beffando un nemico più forte e che aveva dalla sua quasi tutte le circostanze logistiche e strategiche, ma si era cullato nell’idea che sarebbe bastato attendere abbastanza a lungo, per far sì che la nave britannica cadesse nelle sue mani come un frutto maturo, per mancanza di viveri o di nafta. A Kerans, pertanto, va una doppia lode, perché dimostrò uno spirito d’iniziativa eccezionale, raddrizzando (alla lettera) una situazione pressoché disperata, e perché seppe tenere alto il morale dei suoi uomini, laddove tanti altri si sarebbero lasciati sopraffare dallo sconforto o dalla tensione nervosa e avrebbero gettato la spugna. In fondo, fu quel che era capitato al capitano tedesco Hans Langsdorff dopo la battaglia del Rio de La Plata, il 13 dicembre 1939: non aveva retto alla tremenda tensione e aveva permesso al nemico di imbottigliarlo, finendo per suicidarsi dopo aver portato la sua nave ad autoaffondarsi davanti alla spiaggia di Montevideo.

Lo spirito d’iniziativa, l’audacia, la perizia e la fermezza, cioè la capacità di non scoraggiarsi, sono i fattori che hanno reso grandi alcune Marine nel corso della storia: perché sul mare, e non sul mare soltanto, conta il fatto di avere più mezzi del nemico, e più moderni, ma contano anche il morale, l’intelligenza e tutti gli altri fattori umani. Se si hanno dei mezzi moderni ed efficienti, ma scarseggiamo i comandanti abili e decisi, che sappiano dosare la prudenza e la fermezza, i risultati saranno sempre mediocri o insoddisfacenti. E ciò vale anche a livello politico.

A livello politico, la vicenda della controversia italo-indiana ha mostrato la pochezza e la pavidità dei nostri governanti, e anche lo scarso sostegno ricevuto dal nostro Paese dai suoi alleati, in particolare della N.A.T.O.: dopo aver speso grandi somme di denaro e aver dispiegato navi e truppe in ogni angolo del mondo per partecipare alle operazioni internazionali decise dalle Nazioni Unite, quando si è trattato di incassare gli utili politici di tali iniziative, ricevendo l’appoggio dei maggiori partner internazionali, l’Italia, come altre volte — in circostanze forse meno drammatiche, ma ancor più appariscenti, come le trattative per ottenere un seggio al Consiglio di Sicurezza dell’O.N.U., o semplicemente per le votazioni relative alla sede da scegliere per i Giochi olimpici -, si è ritrovata sostanzialmente isolata. Un misero bilancio, per il nostro Paese. Si è avverata la fosca profezia di Gioacchino Volpe, il quale, alla fine della Seconda guerra mondiale, ma pensando soprattutto al modo in cui l’Italia era stata sconfitta, cioè alle tristi vicende dell’8 settembre 1943, profetizzò che l’Italia, dopo aver goduto del rango di grande potenza, sarebbe retrocessa al livello di un grosso Portogallo o di una grossa Grecia, cioè di una entità politica trascurabile a livello mondiale; e ciò, aggiungiamo noi, pur essendo divenuta, nel frattempo, una delle maggiori potenze industriali a livello mondiale.

È evidente che c’è un deficit di classe dirigente, che pesa anche sulle vicende internazionali in cui l’Italia si torva coinvolta. Potremmo citare, oltre alla disgraziatissima vicenda dei due marò, la mancata estradizione del terrorista Cesare Battisti, rifugiatosi in Brasile e protetto da quel governo, oppure al rapimento della moglie di un esponente dell’opposizione del Kazakistan, insieme alla sua bambina, malamente mascherato da estradizione, al solo scopo di compiacere quel governo, ma a scapito della credibilità e della autorevolezza internazionale del nostro Paese. Allo stesso modo, in passato, per molti anni i nostri governi hanno tollerato che le motovedette tunisine molestassero, e talvolta sequestrassero, i nostri pescherecci, impegnati nelle campagne di pesca nelle acque internazionali del Canale di Sicilia, sempre senza reagire; per non parlare della mancata reazione all’espulsione dei nostri connazionali residenti in Libia, nel 1970, da parte del colonnello Gheddafi, dopo che erano stati spogliati di ogni loro bene, in perfetto stile banditesco (salvo, più tardi, nella persona del governo Berlusconi, versare a quello stesso personaggio ingenti somme di denaro quale risarcimento per i "danni" causati al popolo libico dalla colonizzazione italiana: oltre al danno, la beffa e un ulteriore danno, nonché una ulteriore umiliazione).

A quanto pare, solo noi italiani siamo dell’opinione che le controversie internazionali si possano risolvere affidandosi unicamente alla buona volontà della controparte, vale a dire, in pratica, abbassando sempre i toni, tenendo gli occhi bassi e mettendosi la coda fra le gambe; e ciò vale, naturalmente, anche per il rapimento di cittadini italiani da parte di bande organizzate di terroristi, specialmente se queste ultime chiedono un riscatto. Là dove esistono delle classi dirigenti degne di questo nome, si sa benissimo che viene, prima o poi, il momento di pestare i pugni sul tavolo o, meglio ancora, di spianare le armi, e sia pure a scopo dimostrativo: facendo vedere, però, di non aver paura di adoperarle, se si sarà costretti a farlo. Una nazione che cala sempre le braghe e che si mostra sempre disposta a pagare fior di quattrini per sistemare qualsiasi evenienza (anche alle famiglie dei due pescatori venne offerto un grosso indennizzo in denaro dal nostro governo, e fu un errore, perché parve una ammissione di colpa), è una nazione che non sa tutelare i propri interessi vitali e che mortifica la generosità e la professionalità dei suoi servitori.

Come è avvenuto nel caso di Latorre e Girone: due soldati che avrebbero meritato di affrontare così duri sacrifici per un Paese più fiero, e per un governo più dignitoso.

Fonte dell'immagine in evidenza: Wikipedia - Pubblico dominio

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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