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Ogni turbamento dell’animo nasce dall’incapacità di giudicarsi e accusarsi

Si pensa, generalmente, che i Padri del deserto, gli eremiti e le grandi figure spirituali dei primi secoli del cristianesimo abbiano importanza quasi solo dal punto di vista storico; e, difatti, il dibattito che si è acceso intorno ad essi, dall’illuminismo in poi, verte sui loro pretesi meriti e demeriti, sull’impatto che il loro esempio ebbe sulla mentalità del tempo e su quanto la società tardo-antica e alto-medievale siano debitrici della egemonia culturale da essi esercitata in un dato momento, durante la fase di "vuoto" creatasi fra il tramonto della civiltà greco-romana e il lento, faticoso affermarsi della civiltà cristiana dell’età di mezzo.

In realtà, bisognerebbe tornare a leggere gli scritti di quelle grandi personalità, con animo sgombro da pregiudizi settecenteschi — perdurante e malaugurata eredità di Gibbon e di Voltaire — e allora si comprenderebbe che essi hanno ancora e sempre qualcosa da dire anche a noi, lettori del terzo millennio: perché, come tutti i classici, essi non hanno mai finito di dire quel che avevano da dire; e si scoprirebbe, in particolare, che furono dei veri maestri della psicologia, dei conoscitori raffinati dell’animo umano e dei profondi moralisti, nel senso migliore della parola (e anche qui è necessario spogliarsi dal condizionamento culturale esercitato dalla cultura moderna, che ha associato il concetto di moralismo con quello di ipocrisia, falsità e gesuitismo: tutti detriti ingombrati di una fase storica che non ebbe l’umiltà di ascoltare serenamente la lezione del passato e che pretese di farne tabula rasa e ripartire da zero, disprezzando esperienze accumulate nel corso di secoli e partendo da una idea di ciò che è l’uomo penosamente mutila e insufficiente per spiegarne tutti i moti interiori, così complessi e, sovente, così ambigui.

Gli anacoreti e gli eremiti del deserto, in particolare, furono dei grandi maestri della psicologia umana: e le loro intuizioni sulla natura degli istinti, dei desideri, del gioco dei riflessi condizionati, ci appaiono, ancora oggi, di una potenza e di una acutezza straordinarie, tali da mostrare tutta la vuota presunzione e l’inadeguatezza dell’approccio psicologico moderno, particolarmente di quello psicanalitico freudiano. Sbaglierebbe chi s’immaginasse che essi furono dei "selvaggi", dei barbari nemici della civiltà e del consorzio umano, dei paranoici o dei disadattati, incapaci d’inserirsi nella vita "normale"; al contrario, almeno per i più significativi fra essi, ci troviamo in presenza di personalità superiori, enormemente dotate sotto molti punti di vista: sensibilità, intelligenza, volontà, coerenza, spirito di sacrificio; e anche se non si dilettavano della lettura di Cicerone o di Aristotele, nondimeno possedevano una robusta cultura classica, alla quale avevano anteposto il Vangelo e le Sacre Scritture, e che seppero cercare un modello di vita che, seppure non proponibile nella sua integralità ai credenti non consacrati, costituì ugualmente un prezioso punto di riferimento ideale per tutti, e rappresentò, in un’epoca di crisi generalizzata, di turbamento, di perdita di certezze, una vera e propria ancora di salvezza cui poterono aggrapparsi le generazioni che ebbero in sorte di nascere nella delicatissima fase di trapasso fra il mondo antico che scompariva, e l’alba d’un mondo nuovo, ancora non ben definito, che stava sorgendo.

Insomma: anche se riuscirono sgraditi ai philosophes della ragione illuminista, tutti pieni di puzza sotto il naso nei confronti di questi uomini (e talvolta donne) che volsero le spalle ad un mondo che era stato magnifico, ma ormai svuotato e morente, per gettare le fondamenta di un mondo completamente rinnovato dalla parola di Cristo, e che preferirono la solitudine del deserto, il digiuno, la rinuncia e la compagnia delle fiere selvatiche ai divertimenti e alle raffinatezze della brillante società aristocratica del tardo Impero romano, ancora paludata nel culto nostalgico di una tradizione gloriosa, ma irrimediabilmente decaduta – e si pensi alla frivolezza di un Sidonio Apollinare, alle dotte divagazioni erudite di un Macrobio, o alla rabbia anticristiana di un Rutilio Namaziano, per non parlare di Celso, di Giuliano l’Apostata, di Giamblico, di Porfirio, di Proclo e di tutta la scuola neoplatonica, quanto mai sdegnosa verso i seguaci dell’oscuro "galileo", sovvertitori, a suo credere, di tutto ciò che, per essa, era bellezza, eleganza, eros, vita -, i padri del deserto furono uno dei pilastri della civiltà cristiana che sarebbe durata più di mille anni e che avrebbe rappresentato la radice di ciò che, ancora oggi, nonostante tutto, noi europei siamo, di quel che pensiamo e che sentiamo e che pensiamo, dei valori in cui crediamo, della concezione del mondo che ci anima, pur se abbiamo rifiutato Cristo.

Dei grandi maestri di psicologia pratica, dicevano: nel silenzio, nella solitudine, nel raccoglimento, nella preghiera, essi ebbero modo di analizzare se stessi, di scandagliare il proprio io, di scendere sino al fondo di esso e di sbarazzarsene, per lasciarsi riempire dalla luce vivificante dello Spirito Santo; e poi, specialmente quelli fra essi che divennero abati o direttori spirituali delle comunità cenobitiche, si sentirono spinti a mettere a disposizione dei loro confratelli le pazienti osservazioni che avevano fatte, su se stessi e sugli altri, ma innanzitutto su se stessi, venendo così a costituire le pietre miliari di un nuovo umanesimo, fondato sull’ascolto di Dio anziché sull’esaltazione dell’uomo, e, tuttavia, fedele alla natura profonda dell’uomo, nella ferma volontà di offrire a lui gli strumenti necessari per conquistare la salute dell’anima, scopo supremo ed essenziale di quel pellegrinaggio in terra straniera che è la vita terrena. Il loro punto di vista era del tutto diverso da quello dei filosofi greci: essi partivano dall’interiorità, e, specialmente per merito di Sant’Agostino, si può dire che scoprirono una maniera nuova di vedere l’uomo coi suoi veri bisogni, e riconoscere, invece, le futilità, i capricci, le brame disordinate rivolte verso ciò che è secondario e nocivo al suo equilibrio spirituale (anche se bisogna ammettere che Seneca, fra i pagani, ebbe un presentimento di questa nuova prospettiva interiore; sebbene non sia escluso che essa gli sia venuta appunto, almeno in parte, per il tramite di san Paolo, benché nessun documento storico ci dica che egli lo conobbe personalmente; però un esame imparziale dei suoi scritti, e la presenza di quell’alone quasi cristiano che li avvolge, ci consentono d’immaginare la cosa e ritenerla perfino probabile).

Prendiamo il caso di uno di questi "padri del deserto", san Doroteo di Gaza, noto anche come san Doroteo abate, vissuto fra il 505 e il 565 e fondatore di un monastero in Palestina, per . Per i suoi monaci egli scrisse una serie d’istruzioni la cui lettura, come dicevamo, ha ancora moltissime cose da dire — sorpresa! — proprio a noi, uomini di una civiltà tecnologica e materialista, appunto perché ci riporta a quella semplicità di vita, a quella essenzialità dello spirito che è il segreto della pace dell’anima, invano agognata e inseguita da generazioni di uomini del mondo moderno, i quali si sono allontanati dal loro centro interiore per inseguire cose esteriori, ingannevoli, illusorie, e si avvoltolano su se stessi, nel vano sforzo di trovare un equilibrio qualsiasi, dopo aver fatto in modo di allontanare da sé tutti i punti saldi di riferimento, e aver spazzato via, quasi con rabbia, oltre che con metodo e costanza degni di una miglior causa, il retaggio di una tradizione millenaria nella quale avrebbero potuto trovare, se lo avessero voluto, tutto ciò che si affaticavano a cercare lungo strade ingannevoli e inconcludenti.

Diceva san Doroteo nei Discorsi spirituali (Doctr.. 7, De accus. sui ipsius, 1-2; PG 88, 1695-1699):

Cerchiamo, fratelli, di vedere da che cosa soprattutto derivi il fatto che quando qualcuno ha sentito una parola molesta, spesso se ne va senza alcuna reazione, come se non l’avesse udita, mentre talvolta appena l’ha sentita si turba e si affligge. Qual è, mi domanda, la causa di questa differenza? Questo fatto ha una sola o più spiegazioni? Io mi rendo conto che vi sono molte spiegazioni e motivi, ma ve n’è una che sta avanti alle altre e che genera tutte le altre, secondo quanto disse un tale. Questo deriva dalla particolare condizione in cui qualcuno viene a trovarsi.

Chi infatti si trova in preghiera o in contemplazione, facilmente sopporta il fratello che lo insulta, e rimane imperturbato. Talvolta questo avviene per il troppo affetto da cui qualcuno è animato vero qualche fratello. Per questo affetto egli sopporta da lui ogni cosa con molta pazienza.

Questo può inoltre derivare dal disprezzo. Quando uno disprezza o schernisce chi abbia voluto irritarlo, disdegna di guardarlo o di rivolgergli la parola o di accennare, parlando con qualcuno, ai suoi insulti e alle sue maldicenze, considerandolo come il più vile di tutti.

Da tutto questo può derivare il fatto, come ho detto, che qualcuno non si turbi, né si affligga se disprezzato o non prenda in considerazione le cose che gli vengono dette. Accade invece che qualcuno si turbi e si affligga per le parole di un fratello allorquando si trova in una condizione molto critica o quando odia quel fratello. Vi sono tuttavia anche molte altre cause di questo stesso fenomeno che vengono diversamente presentate. Ma la ragione prima di ogni turbamento, se facciamo una diligente indagine, la si trova nel fatto che nessuno incolpa se stesso. Da qui scaturisce ogni cruccio e travaglio, qui sta la ragione per cui non abbiamo mai un po’ di pace; né ci dobbiamo meravigliare, poiché abbiamo appreso da santi uomini che non esiste per noi altra strada all’infuori di questa per giungere alla tranquillità. Che le cose stiano proprio così lo constatiamo in moltissimi casi. E noi, inoperosi e amanti della tranquillità, ci illudiamo e crediamo di aver intrapresa la via giusta allorché in tutte le cose siamo insofferenti, non accettando mai di incolpare noi stessi. Così stanno le cose. Per quante virtù possegga l’uomo, fossero pure innumerevoli e infinite, se si allontana da questa strada, non avrà mai pace, ma sarà sempre afflitto o affliggerà gli altri, e si affaticherà invano.

Sarebbe stato difficile dire di più in un minor spazio, e con maggior precisione e obiettività. Quel che turba l’animo, che inquieta, che fa perdere la serenità e la pace, è una radicata incapacità, o meglio, una indisponibilità a giudicarsi e ad accusarsi con la stessa implacabile coerenza con cui siamo soliti giudicare e accusare gli altri. Perciò diamo la colpa ad essi della nostra perdita di equilibrio, della nostra pace sconvolta: mentre dovremmo rimproverare noi stessi, e analizzare con occhio fermo e con lucido esame quel che in noi fa resistenza: la nostra superbia, la nostra meschinità, il nostro egoismo, tutte le cose che ci fanno velo a noi stessi e ci impediscono di misurare in maniera esatta la distanza abissale che ci separa dalla meta che, a parole, diciamo di desiderare e che ci sforziamo invano di perseguire. Qualcuno obietterà che l’uomo moderno si sente fin troppo colpevole (come il signor K. ne Il processo di Kafka): è vero, spesso si sente colpevole, ma non per la ragione giusta: che è il tradimento della sua vocazione divina,

Quel che Doroteo abate vuol dire è che, se noi fossimo capaci di esaminarci, ed eventualmente di accusarci, con la stessa fermezza e mancanza di scuse con cui siamo soliti guardare agli altri, non sarebbe così facile che un evento esterno riesca a turbare la nostra pace. Se ciò, invece, accade, è perché noi abbiamo molti più riguardi verso noi stessi che verso il resto del mondo; e, così facendo, manifestiamo il nostro attaccamento egoistico verso noi stessi, la nostra difficoltà, o mancanza di volontà, di liberarci della zavorra dell’io, con tutti i vizi e le debolezze che le si accompagnano, perché offre ad esse la presa mediante cui ci fanno perdere l’equilibrio. Per non consentire alle circostanze esteriori alcuna presa su di noi, o, almeno, per offrire ad esse la minor presa possibile, dobbiamo levigare il nostro io, svuotarlo, purificarlo, renderlo terso e trasparente e farne un docile strumento della volontà divina: solo allora esso, che era il nostro capriccioso tiranno, diverrà il nostro fidato amico e il prezioso strumento per realizzare la nostra vocazione.

E qui veniamo al nodo centrale della questione. Ciascuno di noi è chiamato ad una vocazione; ma, nella apparente diversità delle vocazioni individuali, rimane il tratto comune di ciascuna: la realizzazione dell’uomo attraverso l’unione con Dio, il divenire tutt’uno con la Sua volontà, il rendersi disponibili a ciò che Lui vuol fare di noi, senza resistere, né recalcitrare, né accampare scuse o inalberare il nostro orgoglio. Ma una cosa è certa: finché restiamo aggrappati al nostro io, prigionieri del nostro io, crocifissi al nostro io, non possiamo fare niente; meno che mai possiamo risponde alla vocazione. La vocazione è la chiamata di Dio: Dio ci chiama e noi possiamo rispondere, oppure no. Nel primo caso, il nostro passo diverrà leggero e, per quanto gravati da pesanti fardelli esteriori, riusciremo a portarli, perché non saremo soli, ma Dio sarà con noi; nel secondo, saremo condannati all’impotenza più totale, e – di conseguenza – alla disperazione.

E chi non sa che la malattia mortale di cui soffrono gli uomini moderni è, appunto, la disperazione?

Fonte dell'immagine in evidenza: Foto di Chad Greiter su Unsplash

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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