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Il mistero dell’anima davanti alla morte lo conoscono solo il morente e Dio

Il mistero dell’anima di fronte alla morte è un mistero grande, luminoso e terribile: sono solo in due a conoscerlo, colui che muore e Dio.

Gli altri, possono solo guardare dall’esterno:il che, ovviamente, cambia del tutto la prospettiva. È come osservare dal’esterno una casa dalle finestre chiuse, o appena socchiuse: nessuno è in grado di dire con assoluta certezza quel che avviene all’interno, anche se quella casa ci è nota, anche se ci siamo stati dentro chissà quante volte. Adesso, però, è diverso; adesso nessuno apre alla porta e nessuno si affaccia a rispondere. C’è un grande silenzio e le tendine, in quel silenzio, si muovono leggermente al soffio del vento; ma nessun suono, nessun altro segno di vita giungono dall’interno. Perfino chi era un frequentatore abituale di quella casa, forse un ospite gradito, ora si trova nella stessa situazione di un prefetto estraneo: anche lui è lì, sulla strada, come chiunque altro; e si fa delle domande; anche lui guarda, ma non sa, non può avere le risposte.

Davanti a questo mistero abissale, noi dobbiamo muoverci in punta di piedi e trattenere persino il fiato, per non fare il più piccolo rumore. Qualunque parola impulsiva, qualunque giudizio affrettato sarebbero una profanazione, né più né meno. Noi non sappiamo: umanamente parlando, non sappiamo un bel nulla, siamo al buio; questa è la verità. Certo, talvolta compaiono degli indizi, almeno per chi li sa vedere. Indizi, non evidenze; o, almeno, raramente si tratta di evidenze. Pure, dei segni ci sono: piccoli, quasi impercettibili. Ma, ripetiamo, è anche necessario saperli vedere; e, se qualcuno si aspettasse qualche cosa di clamoroso, di spettacolare, di scientificamente evidente e dimostrabile, sarebbe del tutto fuori strada, perché non si tratta di nulla del genere. Come lo potrebbe? La morte rappresenta appunto la soglia perfetta, davanti alla quale il sapere umano si deve fermare e la scienza deve tacere. Sulla morte, la scienza non ha nulla da dire, tranne ciò che può dire della casa dalle finestre socchiuse, uno che si trovi confinato al suo esterno. Vede la casa, ma non sa che cosa avvenga dentro: e lo stesso vale per la conoscenza scientifica davanti al mistero della morte. Essa vede il cadavere, registra il cessare del battito cardiaco, il fermarsi degli impulsi delle onde cerebrali: nient’altro. E non ha il diritto di spingersi oltre, di dire altro. Se lo fa, si squalifica da se stessa: perché la scienza studia ciò che è visibile, non l’invisibile; studia i fatti, ma deve saper tacere davanti al mistero. Una scienza che non riconosce il mistero è una scienza che abusa del proprio credito.

Perfino Cristo è sceso in quel mistero insondabile, da uomo, così come da uomo aveva sofferto e si era spento sulla croce. Quel che è avvenuto nelle ore che vanno dal pomeriggio del Venerdì santo al mattino della domenica di Pasqua, nel sepolcro in cui era stato deposto, nessuno lo sa veramente. Si possono fare delle ipotesi: i teologi le hanno fatte. Ipotesi, non certezze; credenze, non dogmi. Tutta la teologia di questo mondo deve fermarsi, anch’essa, davanti a un mistero così grande. Alcuni artisti hanno raffigurato il corpo morto di Cristo, o, per meglio dire, il suo corpo dormiente, il suo volto assorto in una profondità inaccessibile. Alcuni scultori, alcuni pittori lo hanno saputo cogliere con una meravigliosa sensibilità, con una partecipazione commovente: nessuno, però, ha potuto sciogliere il mistero. Perché un tale mistero, umanamente parlando, non può essere sciolto, neppure dal più sapiente degli uomini.

Una cosa è certa: la morte, talvolta, distende sul volto delle persone un tale alone di luminosità, di bellezza, di pace, da far pensare che qualcosa sia realmente avvenuto, all’interno di quel mistero che a noi resta celato; qualcosa che ha cambiato lo stato di quell’anima, facendola passare dalla sofferenza, fisica o morale, ad una intensa, inesprimibile beatitudine. Qualcosa che ci lascia perplessi, increduli, che ci scuote, che c’interroga; qualcosa su cui non abbiamo il diritto di esprimerci con tono assertivo, con positiva sicurezza, perché quel qualcosa si serve di un altro linguaggio, si esprime con altre parole, del tutto diverse da quelle che adoperiamo nella vita ordinaria, poiché si riferisce a una dimensiona altra, a una sfera di realtà che non appartiene alle nostre precedenti esperienze. Infatti, non è di questo mondo.

Un simile concetto si torva espresso nelle pagine finali di un romanzo secondario di Julien Green, il grande scrittore cattolico franco-americano (Parigi, 1900-ivi, 1998; ma il suo corpo riposa in una cappella della Chiesa di Sant’Egidio a Klagenfurt, in Austria), del quale il movimento gay sta cercando di fare una propria icona, sorvolando o addomesticando il dato essenziale della sua biografia e soprattutto, ciò che più importa, della sua opera: che egli, esattamente come Giovanni Testori, e come altri scrittori cattolici che hanno vissuto la stessa situazione personale, non si vantava affatto della propria diversità, anzi, si sentiva profondamente peccatore, e vedeva nel groviglio dei desideri carnali disordinati – differenza fondamentale, ad esempio, con un Pasolini – il campo di battaglia decisivo dello scontro tra il Bene e il Male, tra la fede e l’incredulità. Il romanzo di cui parliamo è Ciascuno la sua notte, che non è certo un capolavoro e rimane alquanto inferiore ad opere magistrali come Adriana Mesurat (1927) o Leviathan (1929); è un libro che appartiene all’ultima, e sia pur lunga, fase della sua produzione letteraria, poiché fu pubblicato nel 1960. È una storia, non del tutto riuscita, e per varie ragioni, del tormento di un’anima — anzi, a ben guardare, di tutte le anime dei diversi personaggi — presa nella drammatica contraddizione fra l’aspirazione alla purezza e alla santità, da una parte, e il prepotente, indomabile richiamo della concupiscenza, dall’altra. Wilfred, il protagonista, è un ventiquattrenne americano che si barcamena con fatica sempre maggiore, e con un crescente senso di colpa e d’ipocrisia, fra il desiderio, o, per meglio dire, l’ossessione della donna, del corpo delle donne, ultima delle quali è Febea — una lontana parente che ha conosciuto in occasione del funerale dello zio, e che è infelicemente sposata con un uomo malato e molto più vecchio di lei — e il richiamo della spiritualità, che gli fa sentire una bruciante, divorante nostalgia della purezza.

La sequenza conclusiva del romanzo, che termina con l’assurda morte del protagonista, ucciso da un uomo che aveva capito, lui solo, il suo segreto, e che provava nei suoi confronti un acuto desiderio omosessuale, è, nondimeno, di una bellezza e di una nitidezza degne delle migliori opere di Green: la riportiamo come commento esemplare a ciò che stavamo dicendo circa il mistero abissale della morte e ciò che, di esso, può talvolta trasparire agli sguardi di coloro che restano (da: Julien Green, Ciascuno la sua notte; titolo originale: Chaque homme dans sa nuit, Paris, Librairie Plon, 1960; traduzione dal francese di Gastone Toschi e Giuseppe Valentini, Milano, Bompiani Editore, 1962, pp. 367-370):

"Angus", disse il signor Knight, "vedo che siete molto addolorato e capisco benissimo la ragione. È un brutto momento da passare. Se fossi in voi mi sforzerei di piangere e non ne avrei nessuna vergogna" [Angus è un cugino di Wilfred, che era stato irresistibilmente attratto, come tanti altri uomini e donne, da lui; e il signor Knight è il marito di Febea].

Angus scosse il capo e non rispose. Il so bel viso era di un pallore mortale e i suoi occhi dilatati pareva fissassero qualcosa che lo attirava come un incanto.

"Dio l’ha preso con sé al momento", disse il signor Knight. "Questo momento lui solo lo conosce, ed è sempre lui che lo sceglie. Noi certamente non verremo mai a sapere che cosa fosse andato a fare il povero Wilfred in quella strada e perché quel pazzo gli abbia sparato. Non sono riusciti a strappargli due parole coerenti, all’assassino".

Il piccolo corto di macchine si infilò in una strada tranquilla, fiancheggiata da giardini.

"Spero che voi abbiate fede in Dio", disse il signor Knight.

"Non posso", sussurrò Angus con voce roca.

"Che cosa ve lo impedisce?".

Vi fu una pausa, poi Angus rispose soltanto:

"Questo".

Il signor Knight tacque. Ci voleva un buon quarto d’ora prima di giungere al cimitero e il coreo, ch’era uscito dalla città, passava ora per un gran viale dove le case sempre più distanti fra loro si nascondevano dietro gli alberi e rivelavano la vicinanza della campagna. L’ombra dei sicomori si muoveva appena sulle facciate dalle colonnine bianche e i fuori ravvivavano il verde dei prati. Ogni tanto un passante si fermava e guardava passare il carro funebre sotto il sole scintillante.

"Sapete", disse d’improvviso il signor Knight sommessamente, "Io l’ho assistito sino all’ultimo. Penso che vi farebbe bene, ascoltare quel che vi dirò. Volete?"

Angus accennò di sì.

"C’era stata prima una specie di cerimonia che loro chiamano l’Estrema Unzione [il signor Knight è protestante e sta parlando dei cattolici]. Io non ho voluto assistervi. Non perché io sia contrario a questi riti, ma per non dar noia al prete. Sino andato a trovarlo dopo, in una stanza che gli è stata adibita a studio. È un uomo piccolo, dall’aspetto insignificante, potrebbe sembrare ujn funzionario qualunque. Almeno questa fu la mia impressione. Portava gli occhiali, aveva una figura rotondetta, di persona ben nutrita. Dopo avergli detto chi ero, gli ho domandato che cos’era l’Estrema Unzione e il beneficio che ne poteva trarre un moribondo. Confesso che era una domanda fatta apposta per prenderlo in trappola, ma è difficile cogliere alla sprovvista questa gente, anche se possono sembrare delle creature semplici. Mi ha risposto con parole precise. L’ho pregato di dirmi come sperava di venire in comunicazione con l’anima di un moribondo, il quale con tutti gli stupefacenti che gli avevano dato non era più cosciente. Mi ha guardato un momento, poi mi ha risposto con una vice calmissima: ‘Io non ho mai assistito un moribondo, la cui anima mi sia apparsa più presente, più sollecita di questa’. ‘E non potrebb’essere’ gli ho detto, ‘una vostra impressione, poiché, di fatto, lui non sentiva più niente’. Di nuovo, quel prete mi ha fissato. ‘Volete che andiamo a vederlo?’ mi ha chiesto. E l’ho seguito nella stanza del morto."

"Ebbene?" domandò Angus con voce soffocata.

"Ebbene, mio caro, io non sono il tipo che ceda facilmente alle emozioni. Anzi, diffido delle emozioni. Ma quando mi sono trovato in quella piccola camera, ho dovuto afferrarmi con tutt’e due le mani alla sbarra del lettino per non cadere. Io ho vissuto tanti anni, ebbene in tanti anni io non avevo mai visto in un essere umano l’espressione di una così grande felicità come quella che illuminava il viso di Wilfred. Per lui, la parola morto non aveva nessun significato. Viveva, vi dico che pareva vivo! Per un minuto, sono rimasto esterrefatto, poi ho sentito la mia voce che chiedeva l prete: ‘Ma è morto?’. E lui mi ha risposto: ‘Sì, se per morto intendete dire che il suo cuore non batte più’. Non ricordo che cosa gli ho risposto, ma non aveva importanza. Io non potevo staccare gli occhi da Wilfred. Sembrava che sorridesse per la mia sorpresa e che conoscesse dei segreti che teneva per sé solo. Era come se ci avesse voluto fare uno scherzo andandosene, lo scherzo di un ragazzo, e benché tenesse gli occhi chiusi, si sarebbe detto che ci vedesse da lontano, da un regno di luce. Io mi sono avvicinato a lui e l’ho baciato due, tre volte Mi sono trattenuto, perché c’era lì il prete, in ginocchio. Ma se fossi stato solo con Wilfred, sono certo che gli avrei parlato, gli avrei parlato per vi, se avessi saputo quel che so ora, gli avrei parlato per me, e anche per Febea, perché lui c’era, Angus, era lontano eppure era lì, vicinissimo…

Angus si piegò in due e si strinse la testa tra i pugni.

"Tacete", lo supplicò."Nn dite più niente, niente, niente".

Ecco: ciò che ha visto quel prete, ciò che ha visto il signor Knight, è stato lo spettacolo del mistero: la maestà della morte, certo, ma anche qualcos’altro;. è stato il tralucere di un sorriso, di un altrove, di una beatitudine che il "morto", forse, sta già assaporando in un’altra vita, mentre noi, i vivi – o meglio, noi che ci crediamo vivi, e invece siamo dei moribondi che non sanno di esserlo – riusciamo solo a intuire, come il passo felpato d’uno sconosciuto che ci passa accanto, portando con sé il profumo e la pungente nostalgia d’un luogo meraviglioso. Un luogo che non è lontano, anzi è qui, vicinissimo; ma del quale ignoriamo tutto, perché una luce abbagliante scaturisce da quella soglia…

Fonte dell'immagine in evidenza: Foto di Chad Greiter su Unsplash

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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