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E ‘n la sua volontade è nostra pace: ell’è quel mare al qual tutto si move

Può succedere, nel cammino della vita, di sentirsi non solo stanchi, ma dubbiosi: di chiedersi se valeva la pena di fare tanti sacrifici; se si è fatta la cosa giusta nell’ intraprende quella certa strada; e se, insomma, si è fatto un buon uso dei talenti che ci erano stati dati, se si è risposto in maniera positiva alla propria chiamata.

Può anche succedere che il pungiglione del ricordo venga a turbare il nostro presente, che ci insinui il veleno del rimpianto, che ci provochi angustia e turbamento agitandoci davanti i fantasmi del passato, le persone che abbiamo lasciato indietro, le situazioni che non abbiamo vissuto sino in fondo, le scelte che non abbiamo fatto. Può bastare relativamente poco, per turbare il nostro cuore e gettarci nella confusione: una persona vista da lontano, una fotografia che spunta fuori da un cassetto, ed ecco che un’ondata di emozioni ci investe con forza inusitata. Queste cose possono succedere perché siamo esseri umani e tutti, anche i santi, hanno conosciuto simili momenti di confusione, si sono sentiti smarriti, incerti, confusi; per alcuni di essi, addirittura — e parliamo di personalità gigantesche, straordinarie — non si è trattato di "momenti", ma di periodi anche piuttosto lunghi, perfino di anni di oscurità.

L’importante, in simili casi, è non perdere la calma e non acconsentire a che il pungiglione del ricordo ci faccia soffrire più di quanto sia inevitabile: perché, se a farlo scattare può essere stata una circostanza casuale, il fatto di indulgervi e di crogiolarsi nella sofferenza, o, al contrario, di riprendere il nostro cammino, dipende pur sempre da noi.

La tentazione del masochismo, a volte, può essere forte: la tentazione di fare le vittime ai nostri stessi occhi; di versare lacrime amare ed inutili, ma a loro modo — confessiamolo — segretamente deliziose, per ciò che è passato, per ciò che non è stato, per ciò che avrebbe potuto essere. È un fatto umano, anch’esso, specialmente per talune persone, dominate dal carattere psicologico della secondarietà o risonanza, cioè per quelle persone che non riescono a dimenticare in fretta le esperienze vissute, ma che, anzi, sono tormentate a lungo dalle impressioni, specialmente se penose, delle proprie esperienze affettive.

L’importante è non indulgervi troppo. E come si fa?, domanderà qualcuno. Non è così difficile come potrebbe sembrare: e colui che ha già fatto un percorso di vita di tipo spirituale, sa bene di che cosa stiamo parlando. Stiamo parlando di sgonfiare il proprio ego e di abbandonarsi all’amore di Dio. Quanto più l’ego è gonfio, ipertrofico, tanto più il pungiglione del rimpianto troverà dei punti sensibili nei quali colpirci e farci sanguinare; ma se abbiamo una certa pratica di autodisciplina, di meditazione e di preghiera; se siamo abituati a mettere il guinzaglio al nostro ego, e a comandarlo con autorità; se, soprattutto, abbiamo familiarità con l’atteggiamento di apertura e di fiducia incondizionata in Dio, l’aiuto ci verrà dato, e sarà pronto ed efficace.

Gli uomini, generalmente parlando, sono talmente irretiti nel groviglio delle loro passioni, e persino nel ricordo delle loro passioni, da faticare ad immaginare come le stesse anime che sono entrate nell’eternità possano liberarsi di esso; figuriamoci se si trovano ancora alle prese con le situazioni della vita terrena. Perfino dopo essere salito al Paradiso, Dante si chiedeva se non vi fosse, nelle anime beate, un qualche residuo di attaccamento, di vanità, di gelosia; se le anime del Cielo della Luna, il più basso e il più esterno, non provassero un certo qual rammarico per il fatto di essere più lontane da Dio, a paragone delle anime poste nell’Empireo.

La risposta di Piccarda Donati, incontrata, appunto, nel Cielo della Luna, non potrebbe essere più chiara, più persuasiva, più logica e naturale, e, nello stesso tempo, più profonda sul piano teologico; e ciò che ella dice, noi possiamo benissimo applicarlo non solo al caso specifico illustrato da Dante, ma a qualsiasi anima e in qualsiasi situazione, non solo nella vita ultraterrena, ma anche nella vita presente, così carica del fardello delle nostre passioni, dei desideri, delle speranze, e quindi, inevitabilmente, così esposta al torrido vento delle delusioni, delle sofferenze, delle amarezze.

Vale la pena di rileggere quei versi, e meditarli a lungo (Paradiso, 70-87):

Frate, la nostra volontà quïeta

virtù di carità, che fa volerne sol quel ch’avemo,

e d’altro non ci asseta.

Se distassimo esser più superne,

foran discordi li nostri disiri

dal voler di colui che qui ne cerne;

che vedrai non capere in questi giri,

s’essere in carità è qui necesse,

e se la sua natura ben rimiri.

Anzi è formale ad esto beato esse

tenersi dentro a la divina voglia

per ch’una fansi nostre voglie stesse;

sì che, come noi sem di soglia in soglia

per questo regno, a tutto il regno piace,

com’a lo re che ‘n suo voler ne ‘nvoglia.

E ‘n la sua volontade è nostra pace:

ell’è quel mare al qual tutto si move

ciò ch’ella crïa o che natura face.

Noi non troveremo mai la pace, fino a quando non saremo tornati a Dio: infatti la vita umana non è altro che un necessario pellegrinaggio verso la terra promessa. Siamo come dei fiumi che cercano il mare: fin dalla sorgente, quando abbiamo incominciato la nostra avventura, eravamo consapevoli che qualcosa ci chiama a valle, sempre più lontano, verso la nostra meta finale, la gran pace del mare, vasto, aperto, meraviglioso: il mare che raccoglie tutti gli altri fiumi, simili al nostro, e soltanto nel quale ciascuno di essi troverà il proprio scopo, e gli diverranno perfettamente chiare le cose che, ora, sono avvolte nella penombra.

Noi non possiamo capire tutto; non ci è dato comprendere perché soffre l’innocente, e perché sembra che il colpevole goda e trionfi; non possiamo nemmeno capire perché certe cose ci siano state concesse ed altre no; perché taluni nostri desideri e nostri piani siano naufragati, anche se il nostro cuore era puro ed eravamo disposti ad affrontare qualunque sacrificio, pur di realizzarli, ma senza mai scendere a compromessi e senza nutrire alcun secondo fine. La nostra prospettiva è talmente limitata, da non riuscire a vedere se il naufragio sia stato veramente tale, o se non si sia trattato, piuttosto, di una nuova occasione, più alta, più degna, che ci veniva offerta per il nostro innalzamento spirituale.

Quando Giona venne gettato in mare e fu divorato dalla balena, tutto sembrava perduto: ma dopo tre giorni il mostro marino lo vomitò sulla spiaggia, ed egli comprese che Dio lo aveva passato al setaccio per mostrargli, con mano potente e, insieme, misericordiosa, quale fosse la Sua volontà, alla quale Giona non aveva voluto sottomettersi. Per questo, appena ebbe ripreso le forze, egli si avviò verso la città di Ninive e si mise a predicarvi instancabilmente la penitenza: a fare, cioè, con tutta l’anima, e senza risparmiarsi in alcun modo, ciò che il Signore gli aveva domandato, ma che lui si era rifiutato di compiere.

Noi tutti siamo un po’ come Giona: udiamo il richiamo di Dio, ma vorremmo fare a modo nostro; non vorremmo ascoltarlo, non vorremmo seguirlo, perché — questo è il nocciolo della questione — non ci fidiamo abbastanza di Lui. La nostra umana fragilità si riconosce soprattutto da questo: più ancora che dalle tentazioni, materiali e spirituali, nelle quali cadiamo, dal fatto che non abbiamo fede bastante per abbandonarci completamente e incondizionatamente a Dio. Sovente mascheriamo questa mancanza di fede con il pretesto di non aver capito con chiarezza cosa Dio voglia da noi; ma sono, appunto, solo dei miseri pretesti.

Quello che Dio vuole da noi, è talmente semplice e chiaro che non c’è bisogno di chissà quali segnali da parte Sua o di chissà quali sforzi d’interpretazione da parte nostra. Perché Dio, da noi, vuole una cosa, ed una cosa sola: che amiamo. Ma attenzione: bisogna intendersi bene sul significato di questo concetto. Non qualsiasi appetito disordinato è amore: ecco il grande abbaglio, il grande equivoco in cui sono scivolati certi teologi progressisti e perfino di certi preti, come don Marco Bisceglia, già paladino della causa omosessuale e della piena accettazione della pratica omosessuale da parte della Chiesa (anche se, negli ultimi anni di vita, stanco e malato di Aids, egli aveva preso le distanze dal movimento gay, che lui stesso aveva contribuito a creare, ed era rientrato silenziosamente in seno alla Chiesa, che lo aveva sospeso a divinis ma che poi lo riaccolse con infinita carità e delicatezza: sebbene di questa parte della sua storia, i suoi apologeti omosessualisti preferiscono parlar poco e piuttosto malvolentieri).

Dio è amore, Amore assoluto, con la maiuscola; per amore Egli ha creato il mondo, per amore ha chiamato ciascuno di noi; è perfettamente logico e naturale, dunque, che l’essenza della sua chiamata sia una chiamata all’amore. Il problema è che noi, con la parola "amore", intendiamo, il più delle volte, cento cose che sono tutt’altro, o che sono soltanto aspetti collaterali e non essenziali dell’amore: il desiderio sessuale, il piacere egoistico, il nostro stesso, sfrenato narcisismo, che ci spinge ad usare gli altri e a voler mettere sempre al centro noi stessi, in maniera invadente e pressoché insaziabile. E questo accade, paradossalmente, proprio perché l’amore è il sigillo che Dio ha impresso nella nostra anima; ma noi distorciamo e deformiamo quell’istinto e lo trasformiamo in qualcosa di profondamente diverso. Abbiamo fame e sete di amore, ma — spesso — non del vero amore, quello che avvicina le anime le une alle altre, e che le avvicina, singolarmente e tutte insieme, a Dio; bensì di quell’altro "amore", che consiste nel cercare furiosamente il godimento attraverso l’uso del corpo dell’altro, o attraverso la contemplazione della nostra posizione di forza, allorché l’altro ci desidera, ci cerca, e noi godiamo a tenerlo in pugno, magari facendolo ballare sulla corda, così, per il piacere maligno di sentirci potenti.

In altre parole, noi siamo fatti per amare e per essere amati, proprio come diceva sant’Agostino; ma siamo fatti per il vero amore e non per le sue numerose e maldestre contraffazioni. Il vero amore si riconosce dai frutti: anche nel sacrificio, anche nelle difficoltà, anche nelle rinunce, esso non genera mai amarezza, acredine, frustrazione, rabbia, gelosia, invidia, desiderio di vendetta. L’amore vero, l’amore di carità, è — per dirla con san Paolo — sempre benevolo, sempre paziente, sempre misericordioso, sempre sincero, sempre affabile, sempre modesto.

L’amore vero, inteso come carità benigna e disinteressata, non esisteva nel mondo antico, se non fra parenti e fra amici. Esso è una "scoperta" cristiana: lo ha insegnato il Vangelo di Gesù; lo hanno ribadito gli altri scritti del Nuovo Testamento, come lo stupendo inno all’amore di carità innalzato da san Paolo nel tredicesimo capitolo (1-13) della Prima lettera ai Corinzi:

Se anche parlassi le lingue degli uomini e degli angeli, ma non avessi la carità, sarei un bronzo risuonante o un cembalo squillante. Se avessi il dono della profezia e conoscessi tutti i misteri e tutta la scienza e avessi tutta la fede in modo da spostare le montagne, ma non avessi la carità, non sarei nulla. Se distribuissi tutti i miei beni per nutrire i poveri, se dessi il mio corpo per essere arso, e non avessi la carità, non mi gioverebbe a nulla. La carità è paziente, è benigna la carità; la carità non invidia, non si vanta, non si gonfia, non manca di rispetto, non cerca il proprio interesse, non si adira, non tiene conto del male ricevuto, ma si compiace della verità; tutto tollera, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta. La carità non verrà mai meno. Le profezie scompariranno; il dono delle lingue cesserà, la scienza svanirà; conosciamo infatti imperfettamente, e imperfettamente profetizziamo; ma quando verrà la perfezione, sparirà ciò che è imperfetto. Quando ero bambino, parlavo da bambino, pensavo da bambino, ragionavo da bambino. Da quando sono diventato uomo, ho smesso le cose da bambino. Adesso vediamo come in uno specchio, in modo oscuro; ma allora vedremo faccia a faccia. Ora conosco in parte, ma allora conoscerò perfettamente, come perfettamente sono conosciuto. Ora esistono queste tre cose: la fede, la speranza e la carità; ma la più grande di esse è la carità.

Quando riflettiamo che l’essenza di Dio è amore e che siamo chiamati ad amare, dubbi e incertezze si placano e il cuore si rasserena, purché la nostra più intima coscienza ci dica di sì, che abbiamo saputo amare davvero

Fonte dell'immagine in evidenza: Foto di Chad Greiter su Unsplash

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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