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Ci son tre modi di guardare ai propri vizi…

Esistono tre modi, sostanzialmente, di porsi davanti ai propri vizi. I primi due appartengono alle fasi storiche nelle quali vi è ancora un forte sentimento del bene e del male, una diffusa convinzione che è necessario fare il bene ed evitare il male. Il primo consiste nel dolersi dei vizi e nel proporsi di non ricadervi nuovamente, per quanto possibile; e, se mai ciò dovesse accadere, di tornare a pentirsene e di cercare tutti gli aiuti, umani e — per chi ci crede — divini, onde evitare di cadervi ancora nel futuro. Il secondo modo, invece, consiste nell’assumere la sfida di praticare i vizi, di non piegarsi ai dettami della morale, di non ascoltare la voce della coscienza, ma di indulgere nelle proprie debolezze, non già elaborando una filosofia morale alternativa a quella vigente, la quale non viene contestata e rifiutata: non in linea generale, almeno, ma, semmai, per se stessi e a titolo personale; trovando, ad esempio, tutte le giustificazioni e tutte le scusanti che possano rendere più accettabile l’infrazione alla regola, la deroga alla legge.

Il terzo modo è caratteristico delle epoche storiche nelle quali si verifica un cambio di paradigma, ivi compreso il paradigma etico. In esse, la legge morale viene contestata e rifiutata frontalmente; di più: i valori vengono rovesciati come un guanto, e si proclama che è bene ciò che, fino a ieri, veniva considerato male, e che è male ciò che, prima, appariva come bene (ve ne è traccia, ad esempio, nel Decameron di Boccaccio). In tali momento storici, non solo i vizi vengono praticati, ma le persone si vantano di farlo, solo che non sopportano di essere chiamate viziose; pretendono di essere considerate virtuose, ed esigono che i vizi siano chiamati virtù, o, semmai, che siano considerati come assolutamente normali. Poiché tali momenti storici sono caratterizzati da un brusco e radicale allontanamento dalla religione, in essi la morale si laicizza e si secolarizza e i concetti di "male" e "bene" si relativizzano e, soprattutto, si laicizzano e si secolarizzano a loro volta. Allora non è più importante che una cosa sia giudicata realmente "buona" o "cattiva", ma che sia considerata lecita o illecita. Al senso morale si sostituiscono il illegalismo e il giuridicismo.

Prendiamo l’aborto, o l’uso della droga, o l’omosessualità, o la pedofilia, o le svariate pratiche della manipolazione genetica e della fecondazione artificiale. Sono ben pochi, ormai, a discutere di simili argomenti in termini morali; lo stesso concetto di bioetica è diventato rapidamente obsoleto: per qualche anno era sulla bocca di tutti, non si parlava quasi d’altro nelle riviste specializzate; oggi è caduto in disuso e ha assunto un suono strano e vagamente sconveniente, come di archeologia industriale. Non ci si domanda più se prendere la droga faccia bene o male; tutto quello che si vuole sapere è se si debba considerare un crimine, oppure no. A questo punto, il possesso e l’uso delle sostanze stupefacenti diventa una questione meramente quantitativa: si stabilisce una "soglia" entro la quale si tratta di "uso personale", e oltre la quale si tratta di "spaccio": e si decide che la prima cosa è lecita, la seconda no. Qualche grammo di eroina in più o in meno fa la differenza fra un legittimo uso e un uso criminale. Le discussioni teoriche sono state bandite; quelle morali, lasciate negli oratori e nelle sacrestie — e, forse, più nemmeno lì. Il pragmatismo ha preso il posto dei dibattiti, più o meno appassionanti, sul bene e sul male, sulla responsabilità e sulla irresponsabilità, sui valori e sui disvalori.

Che tale sia stata l’evoluzione della cultura laica, non suscita una particolare meraviglia: è il normale andamento delle cose, e, storicamente, lo si è già visto ogni volta che si è verificato un cambio di paradigma: al tramonto della polis greca, per esempio, o alla fine dell’Impero romano; poi, di nuovo, al trapasso dal Medioevo all’Umanesimo, e così via. Quel che colpisce, e colpisce in maniera drammatica, è stato il comportamento degli uomini di Chiesa e degli esponenti della cultura cattolica. È come se, a partire dal Concilio Vaticano II, avessero adottato una teologia e una morale completamente nuove, il cui ultimo scopo — anche se non sempre e non del tutto dichiarato apertamente — era, ed è, quello di abbassare il divino al livello dell’umano, di secolarizzare la Chiesa e di umanizzare completamente la dimensione religiosa. In altre parole, uccidere il cristianesimo e sovvertire il Vangelo, ma senza l’onestà di dirlo a chiare lettere, anzi, proclamano la volontà di ravvivare e rivitalizzare il senso cristiano, di attualizzare il Vangelo e di metterlo in condizioni di poter dialogare in maniera libera e feconda, senza complessi e senza ulteriori "ritardi", con il mondo moderno.

A titolo di esempio, prendiamo il caso della omosessualità. Secondo il Catechismo di san Pio X, era uno dei quattro peccati che gridano vendetta al cospetto di Dio: non la tendenza in se stessa (della quale, evidentemente, le singole persone non sono responsabili, se tali le ha fatte la natura e non lo sono divenute per amore del vizio), ma la pratica. Questa è stata, per secoli, la ferma posizione della Chiesa: misericordia per le persone, severità estrema per il "vizio impuro contro natura"; e questo, si badi, in un contesto generale che considerava comunque la castità come un valore, e la lussuria come un peccato, per cui la pratica omosessuale si configurava come un sotto-genere di un vizio più ampio, fatto d’incontinenza e di appetiti sessuali disordinati (perché staccati da ciò che rende il sesso veramente umano: l’amore fecondo, cioè l’amore coniugale). Il vizio contro natura è, oltretutto, sterile, per cui la sua condanna non poteva che essere netta, radicale, senza appello: impossibile qualsiasi tentativo di giustificarlo, di attenuarne la gravità, di presentarlo come qualcosa di diverso da un comportamento oggettivamente e intrinsecamente disordinato, e ciò in misura assai più grave della "semplice" lussuria fra l’uomo e la donna.

Ma ecco che arrivano i primi preti progressisti e modernisti, imbevuti di teologia della liberazione, di marxismo, di lotta di classe, di psicanalisi freudiana, e si domandano: Perché mai il buon Dio, che è tanto misericordioso, dovrebbe condannare l’amore fra due persone dello stesso sesso? È dunque così ricco di amore, il mondo, da poter disprezzare questa sua particolar manifestazione? O non è forse vero che in molte famiglie, in molte coppie eterosessuali, vigono l’incomprensione, la prepotenza, l’umiliazione reciproca, tutto, insomma, fuor che l’amore? Si noti che questo tipo di argomentazioni è scorretto, perché parte dal presupposto che i rapporti omosessuali siano il frutto del vero amore, mentre quelli eterosessuali, molto spesso, ne sarebbero carenti; mentre si tace del fatto che i rapporti omosessuali possono essere caratterizzati da promiscuità, egoismo, brutalità, tanto quanto, e spesso anche assai più, di quelli eterosessuali; e che, in molti casi, nascono già sotto il segno di una cattiva stella, perché in essi le persone cercano, ma invano, la soluzione di problemi affettivi e psicologici che sono a monte e che hanno una notevole complessità, per cui tali persone, nella relazione con l’altro, portano il loro malessere, il loro squilibrio, il loro disordine interiore, e ne ricevono altrettanto, dato che il loro partner si trova suppergiù nelle stesse condizioni. A meno che si tratti di un partner molto più grande, che sfrutta la sua maggiore esperienza di vita per irretire il giovane (o la giovane) e farne strumento del proprio piacere. Si dirà che simili dinamiche possono esistere anche nelle relazioni eterosessuali, il che è vero; ma, mentre in queste sono, almeno teoricamente, l’eccezione (almeno fino a quando la società, nel suo insieme, conserva tratti di sanità intellettuale, spirituale e morale), in quelle omosessuali sono la regola. Infatti, una persona psicologicamente e affettivamente sana non prova disgusto per il sesso opposto, ma si avvicina ad esso con stupore, rispetto e desiderio, come al proprio naturale completamento: e si ricordi che è il disgusto nei confronti dell’altro sesso, e non l’attrazione verso i membri del proprio, la caratteristica dominante del carattere omosessuale. Il che spiega già da sé perché le relazioni omosessuali abbiano, intrinsecamente, un carattere disordinato, compulsivo, nevrotico e tendenzialmente depressivo (o aggressivo), con un alto tasso di gelosia patologica, di possessività incontrollabile e d’inquietudine e insoddisfazione profonda. Tuttavia, dire queste cose è quanto mai politicamente scorretto: perché tutti, psichiatri e psicologi in testa, si sono "dimenticati" che, fino a due o tre decenni or sono (non due o tre secoli, si badi), quasi tutti i manuali di psichiatria e di psicologia parlavano della omosessualità come di una grave anomalia, di una perversione, di una deviazione del sano e normale istinto sessuale; mentre ora, quasi da un giorno all’altro, a parlare della omosessualità come di un disturbo della personalità, si rischia, se non una denuncia, un solenne bando di ostracismo e si sparisce da giornali, televisione e pubbliche conferenze o tavole rotonde.

Dicevamo che, nella Chiesa e nella cultura cattolica, fra gli anni Cinquanta e Sessanta del Novecento, si è manifestata la tendenza ad accettare l’omosessualità come comportamento perfettamente lecito e normale, dato che esso sarebbe secondo la natura delle persone in questione. Ci sono stati perfino dei movimenti di suore lesbiche, specialmente negli Stati Uniti d’America (sempre all’avanguardia, in tal genere di cose), le quali hanno fuso e mescolato i principi del femminismo con quelli dell’omosessualismo e, in nome della riconquista dei propri "diritti" e della propria "dignità" di donne, hanno rifiutato la loro tradizionale "sottomissione" al maschio, sia nella società profana che all’interno della Chiesa cattolica, dove i preti, guarda caso, sono maschi, e così i vescovi e i papi, dunque in posizione di potere. È bastato qualche anno, e centinaia di suore lesbiche hanno lasciato i rispettivi conventi, non senza avervi seminato il cattivo seme del relativismo etico e aver preparato il terreno per ulteriori disordini. Fra quelle che sono rimaste, l’ideologia femminista ha messo saldissime radici, tanto è vero che, oggi, una insistente richiesta delle suore americane è quella di ottenere il riconoscimento del diaconato femminile, e, se possibile, anche il sacerdozio femminile, episcopato compreso: come, del resto, già fanno, da tempo (e si sa che essi sono più avanti, più bravi e più evoluti) i protestanti e gli anglicani. Papa Giovanni Paolo II dovette occuparsi seriamente del problema e redarguire, con parole severe, queste suore femministe che parlano pochissimo del Vangelo, ma che hanno sempre in bocca i loro supposti diritti e la loro supposta sudditanza alla gerarchia maschilista della Chiesa cattolica; ma il cattivo seme è rimasto e continua a seminare acredine e tensioni, oltre che confusione tra i fedeli.

In Italia, forse non sono in molti a sapere che l’Arcigay è stata ideata e fondata da un prete, omosessuale dichiarato e deciso a diffondere l’idea della assoluta legittimità del comportamento omosessuale: don Marco Bisceglia (nato nel 1925 e morto, di Aids, nel 2001), che ebbe quale collaboratore il suo amico e compagno di appartamento, allora obiettore di coscienza e attivo nel servizio civile, Nichi Vendola. Don Bisceglia venne sospeso a divinis allorché una servizio giornalistico rese di pubblico dominio ciò che egli penava, diceva e faceva, pur con qualche discrezione, ormai da molto tempo, oltre ad essere impegnatissimo sul fronte politico (ovviamente quale fiancheggiatore del Partito Comunista, come don Gallo, al punto da prestare la canonica ai raduni elettorali in tempo di elezioni) e, altrettanto ovviamente, oltre a sparare a zero contro la gerarchia, contro la Chiesa bigotta e repressiva, e contro il suo diretto superiore e pastore, cioè il suo stesso vescovo. Tra parentesi, egli aveva disobbedito ai suoi superiori — e, a nostro parere, al Vangelo — anche nel prendere apertamente posizione a favore del divorzio, prima, e delle pratiche abortive, poi. Perché questi preti progressisti e integralisti neomarxisti sono addirittura prevedibili, per non dire un po’ noiosi, nelle loro battaglie, o crociate che dir si voglia (crociate alla rovescia, s’intende): partono tutti dalla solita semplificazione che divide il mondo in bianco e nero, dove tutto il bene e tutto il Vangelo (blasfema appropriazione del divino) stanno dalla parte degli "oppressi", delle donne, degli omosessuali, mentre tutto il male e la negazione del Vangelo sono dalla parte degli "oppressori", degli uomini e degli eterosessuali animati da malsani sentimenti di "omofobia".

Questo è solo un esempio; e il fatto dell’omosessualità, a sua volta, è solo un esempio di come la Chiesa e la cultura cattolica dell’ultimo mezzo secolo si siano sempre più affannate a rincorrere le logiche del mondo, facendole proprie e proclamano che, per trovare Dio, bisogna abbassarlo alla misura degli uomini, ma non degli uomini che cercano la Verità, bensì degli uomini così come sono, con tutti i loro istinti e le loro brame, con tutte le loro debolezze e i loro vizi: senza dimenticarsi di cancellare le parole "debolezza" e "vizio" dal loro vocabolario, perché, si sa, Dio è tanto misericordioso, e non guarda ai nostri peccati, ci perdona sempre e comunque, anche se non domandiamo affatto perdono, anche se rifiutiamo il concetto stesso di peccato e, in nome dei nostri istinti "naturali" (ma bisognerebbe prima intendersi sul significato di quest’ultimo termine), rivendichiamo il nostro diritto di vivere la vita in assoluta libertà, come ci pare e piace.

Può darsi che i vari don Gallo e don Bisceglia siano in buona fede, almeno fino a un certo punto; più difficile credere alla buona fede di teologi come Enzo Bianchi e Vito Mancuso, i quali, come pensatori di professione, dovrebbero sapere benissimo quel che stanno facendo, allorché fanno certe affermazioni sia in campo religioso, che etico. Con quali effetti, poi, ciascuno è libero di giudicare…

Fonte dell'immagine in evidenza: Foto di Chad Greiter su Unsplash

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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