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La prudenza cristiana fra sapienza del mondo e sapienza di Dio

La prudenza è una virtù fondamentale e tipicamente umana, una delle quattro virtù cardinali: le altre tre sono la giustizia, la fortezza e la temperanza. Ciò non toglie che, in una prospettiva religiosa, la virtù naturale della prudenza assuma una luce nuova, una luce cristiana: diventa qualche cosa di più della pur nobile e necessaria capacità di destreggiarsi con discernimento nelle cose di questo mondo. Diventa una delle tante finestre che la fede spalanca sul mistero dell’Assoluto, e, dunque, diventa uno dei tanti trampolini dai quali ci si può proiettare verso la dimensione del soprannaturale. Dunque, la virtù cristiana della prudenza diventa una virtù nuova, trasfigurata dalla Grazia; acquista, per così dire, una prospettiva, uno scopo, una finalità più alti e completi: accompagna l’uomo nella sua esperienza di vita radicalmente rinnovata, nella quale ciò che prima era saggezza può diventare follia (può: non è detto che lo diventi, sempre e comunque), e viceversa.

È a questo punto, cioè nell’intersezione fra la virtù puramente umana della prudenza e la virtù soprannaturale della prudenza cristiana, che viene al pettine il nodo della incommensurabilità fra la sapienza del mondo e la sapienza divina. Perché, se la prudenza umana è l’arte del vivere tenendosi lontano dai pericoli (non solo quelli nei quali si può incappare, ma anche quelli che si possono causare ad altri), e la virtù soprannaturale della prudenza è l’arte del discernere le cose secondo lo sguardo di Dio, e non secondo uno sguardo puramente umano: allora subentra il contrasto fra la sapienza umana e di quella di Dio, o, comunque, la loro irriducibilità reciproca.

Proveremo a spiegarci con un esempio. La virtù umana della prudenza, poniamo, ci prescrive di astenerci dal dire o dal fare qualsiasi cosa possa turbare gli altri, e specialmente i più semplici, i più influenzabili, i più indifesi; la virtù cristiana della prudenza ci spinge ancora un poco più in là, e ci esorta a non astenerci da quelle cose che, anche se possono, in qualche misura, scandalizzare gli altri secondo un criterio puramente umano, sicuramente, però, avranno l’effetto di edificarli, di illuminarli, di favorire un loro ripensamento e un loro riavvicinamento a quelle verità eterne, dalle quali si erano allontanati. Ecco: spogliarsi nudi, in mezzo alla strada, è cosa da evitarsi, secondo la prudenza umana; ma se il gesto viene da un San Francesco d’Assisi e vuol ricondurre i suoi concittadini all’amore della Povertà, in senso evangelico, e al ripensamento critico nei confronti delle ricchezze del mondo, allora esso diventa non solo lecito, ma benefico. Vi sono scandali moralmente negativi, che turbano il cuore e lo sospingono verso il disordine della concupiscenza; e vi sono scandali santi, che scuotono i dormienti dal loro sonno morale e dischiudono ad essi le porte di una santità possibile. Il sottofondo immodificabile della visione cristiana della vita è che tutti gli esseri umani, tutti indistintamente, sono chiamati alla santificazione; e, quindi, che la santità è sempre possibile, anche contro ogni apparenza. E qui si manifesta l’incontro/scontro fra la sapienza del mondo e la sapienza di Dio. Per la sapienza del mondo, ad esempio, cercare il pericolo, gettarsi verso di esso, senza alcuna cautela o protezione, è stoltezza: è il contrario della prudenza. Ma per il cristiano, vi possono essere delle circostanze (attenzione: vi possono essere; non è detto che vi siano) nelle quali gettarsi incontro al pericolo è utile, necessario, indispensabile. Si pensi al caso dei martiri; oppure si pensi al caso di una madre che sfida le fiamme d’un incendio per tentar di salvare il suo bambino; o a padre Damiano de Veuster, l’apostolo di Molokai, che sfida la lebbra, e, infine, ne diviene preda, per andare a vivere in mezzo ai suoi lebbrosi. Il cristiano è prudente, mai vile.

Un esempio meno drammatico, ma altrettanto efficace, può essere quello del manifestarsi della vocazione religiosa all’interno di una famiglia. Immaginiamo che una bella ragazza, intelligente, piena di amici e, magari, già fidanzata, senta sopraggiungere in se stessa, potente, irresistibile, la chiamata di Dio; non una semplice suggestione, non una illusione, ma una chiamata vera e propria. Ebbene: secondo la sapienza del mondo, sua madre e suo padre cercheranno in ogni maniera di dissuaderla, di scoraggiarla, di farle cambiare idea; penseranno: Perché dovrebbe sacrificarsi? Perché dovrebbe andare a seppellirsi in un convento? Magari, quei genitori avevano anche il desiderio di avere dei nipoti: desiderio umano, legittimo, perfettamente naturale. Tuttavia, la sapienza di Dio segue altre strade e, qualche volta, contraddice frontalmente la sapienza del mondo. Certo, quella ragazza avrebbe potuto diventare una buona moglie e una buona mamma; ma, una volta manifestatasi, in lei, una vocazione di ordine più alto — perché la chiamata alla vita soprannaturale è una chiamata più alta di qualunque chiamata alla vita naturale, per quanto degna e legittima sia quest’ultima — è certo ch’ella diverrà, come religiosa, più perfetta di quanto, nell’ordine naturale, sarebbe stata quale madre di famiglia. I genitori, illuminati dalla sapienza di Dio, dovrebbero favorire, e non scoraggiare, una simile vocazione; quanto meno, capirla e accettarla. In realtà, perfino la prudenza umana dovrebbe suggerire ai genitori di rispettare la sincera vocazione dei propri figli e di non sovrapporre i loro desideri alle loro libere scelte: compito dei genitori non è di "possedere" i figli, ma di guidarli e accompagnarli verso l’autonomia e la piena realizzazione di se stessi. A maggior ragione, sul piano della vita soprannaturale, dei genitori cristiani dovrebbero essere fieri e orgogliosi di aver potuto contribuire, magari indirettamente, alla vocazione religiosa dei loro figli; e rinunciare con serenità ad avere dei nipotini su questa terra, affinché i loro figli possano spargere i semi della fede a vantaggio di molte anime.

Ha scritto il teologo belga Gustave Thils (1909-2000), che è stato, fra le altre cose, uno dei maggiori cosiddetta riforma liturgica del Concilio Vaticano II — nel suo capolavoro Santità cristiana. Compendio di teologia ascetica (titolo originale: Sainteté chrétienne. Précis de Théologie ascetique, Tielt, Belgique, Editions Lannoo, 1958; traduzione dal francese delle Suore domenicane di Alba, a cura di natale Bussi; Alba, Edizioni Paoline, 1960, pp. 303-304; 306-308):

Il "giudizio" è una specie d’accortezza dell’intelligenza. Colui che ha giudizio, conosce lo scopo di un’impresa, apprezza i mezzi adeguati, fa appello agli strumenti proporzionati, stima esattamente le misure, il tempo, le possibilità. Con lo sguardo fisso alo scopo da raggiungere, può prevedere, ordinare, coordinare, concludere. Non ha perso il filo conduttore ad è arrivato allo scopo. Quando i moralisti parlano della "prudenza" pensano a qualcosa di simile, ma per la condotta della vita umana: è un’arte di vivere da uomo. Esiste un accorgimento morale che permette di discernere ciò che è umano e ciò che non lo è. C’è un giudizio retto concernente ciò che mi conviene o che non mi conviene. Quanto alla prudenza "cristiana" è una maniera di pensare, di giudicare, di apprezzare, di decidere, che tiene conto del pensiero rivelato, dell’ideale cristiano. Ora, al termine di esso non si deve sempre trovare la santificazione?

Il CRITERIO INTIMO di questa prudenza è evidentemente la carità. Come potrebbe avvenire diversamente nel cristianesimo? L’agape deciderà le azioni e i movimenti, la scelta della vocazione temporale e le decisioni gravi sulle opzioni di dettaglio come sulle scelte vitali. Il CRITERIO ULTIMO è lo Spirito Santo stesso. Egli è, personalmente, come la coscienza di Dio. È la sorgente divina di ogni "discernimento" spirituale. È il "consigliere" per eccellenza di ogni battezzato. La prudenza cristiana si radica così nella vita teologale stessa da cui trae la sua norma più raffinata e più delicata. […]

Il giudizio cristiano on è cosa che interessi soltanto l’individuo. Implica uno sguardo di fede su tutta la realtà umana, sulla SOCIETÀ sulla CULTURA, sul MONDO; implicherà quindi anche un giudizio sano ed esatto sulla maniera d’agire del cristiano nel mondo e per il mondo. La visione del modo secondo la fede non è puramente "speculativa". Porta frutti nell’"azione" in questo mondo. "Le idee e le opinioni correnti, le teorie e le ideologie, gli avvenimenti d’ordine generale che costituiscono la storia d’una nazione, dell’universo e della Chiesa, le mille circostanze di grande o di minima importanza che formano la trama della nostra vita, dobbiamo studiarci di misurarli secondo le regole della fede, considerando tutto secondo Dio".

La teologia ha sempre richiamato questa necessità di giudicare rettamente intorno al fine SOPRANNATURALE della famiglia, della patria, della professione, delle arti, della cultura. C’è una prudenza soprannaturale "familiare", "civile", "professionale", "culturale". Questi valori hanno una funzione provvidenziale che dobbiamo conoscere e conservare, sopprimendo quanto potrebbe sviarcene, restaurando quanto è deficiente, ampliando quanto la rende sicura.

Sapienza del mondo. C’è un peccato fondamentale contro questa "sapienza di Dio": è il pensare, il giudicare, e l’agire secondo la "sapienza del mondo". Per quest’ultima il giudizio cristiano è una follia! (1 Cor., 2, 14).

a) Potremmo avere un po’ lo SPIRITO DEL MONDO. Il mondo giudica delizioso quel libro, e noi affermiamo che va benissimo. Preferisce le prodezze straordinarie all’umile dovere di stato quotidiano, e noi l’assecondiamo. È affascinato dal talento che brilla più che dalla virtù nascosta, e noi condividiamo il suo entusiasmo illusorio. È offuscato dalle passioni, e noi seguiamo i suoi movimenti inconsiderati. Difende dei privilegi non fondati di casta o di gruppo, e noi lo assecondiamo pietosamente. Diffonde su ogni cosa un apprezzamento terra terra, e noi dimentichiamo di corregger ei suoi discorsi secondo il pensiero di Gesù Cristo.

b) Potremmo giudicare secondo i CRITERI DEL MONDO. Il mondo giudica secondo la TERRA. I suoi moventi, le sue ragioni, sono di quaggiù. Le sue reazioni concernono valori transitori che accarezza come fossero definitivi. Il mondo giudica in funzione di quel che si VEDE! Il tangibile lo impressiona, il palpabile lo interessa, la bellezza sensibile lo avvince. Per lui il mondo soprannaturale ha un valore secondario, è come una zona vaporosa e senza consistenza. Il mondo giudica in funzione del TEMPO; la prospettiva dell’eternità praticamente gli mana; anche se in qualche occasione ne ammette l’esistenza, è per lui inoperante. Quindi regola la sua condotta, le sue brighe, le sue speranze sulla durata prevista della vita: tutto è volto al buon successo temporale. Per il restio fa astrazione dall’eternità ed il suo più gran desiderio è quello di entrarvi senza aver avuto il dolore di strapparsi in piena coscienza ai beni di questo mondo.

Nella misura in cui il cristiano pensa ed agisce secondo la "prudenza del mondo" non può tendere alla santità. Vive senza bussola in un oceano tumultuoso. E per il mondo, che pè riuscito a render inoffensivo, ha perduto ogni sapore di rinnovamento e di redenzione.

C’è poco da fare: anche se certi sedicenti teologi post-conciliari vorrebbero negare il contrasto di fondo tra la sapienza del mondo e la sapienza di Dio, quel contrasto esiste, è sempre esistito e continuerà ad esistere fino al giorno del Giudizio finale, cioè fino a quando durerà il mondo; come ammonisce Gesù stesso, non si possono servire contemporaneamente due padroni. Bisognerebbe sempre diffidare degli applausi del mondo, così come della sua disapprovazione: per il cristiano, ciò che piace troppo al mondo non può piacere anche a Dio, e viceversa. Ora, tutto sta a non perder di vista lo scopo ultimo della vita umana: che non è il successo mondano, ma il dono della Grazia divina: in questa vita, adesso; e nell’altra, dopo la morte. Il mondo ama le cose per se stesse; il cristiano le ama in senso relativo, come riflesso della sapienza e magnificenza del Creatore; quanto alle cose materiali, le adopera, ma non se ne fa schiavo. Inoltre, la sapienza del mondo ama i compromessi: pur di raggiungere i suoi obiettivi, non esita a piegare la morale come un giunco, per farla coincidere con le sue brame (di potere, di ricchezza, di piacere). Il mondo giudica secondo il successo esteriore: secondo i beni che si possiede, lo stile di vita, e, naturalmente, secondo la giovinezza e la bellezza fisica. Ma questi non possono essere, in alcun modo, i criteri della prudenza in senso cristiano: non è questo che insegna la sapienza di Dio, alla quale il cristiano cerca sempre di uniformarsi e alla quale soltanto vorrebbe piacere. Quando si tratta di questioni attinenti la sfera morale, il cristiano deve essere inflessibile: nessun compromesso, nessun accomodamento sarà mai possibile con le logiche del mondo. Aborto ed eutanasia, per esempio, mai potranno trovare comprensione e legittimazione, tranne che nel caso in cui la vita della madre sia in effettivo pericolo, o la vita del malato sia prolungata dalle macchine in maniera del tutto artificiale. Per il resto, il cristiano se ne infischia dei giudizi del mondo: non gl’importa di essere considerato un "perdente" in senso puramente umano; un vincente, semmai, vuole esserlo solo agli occhi di Dio…

Fonte dell'immagine in evidenza: Foto di Chad Greiter su Unsplash

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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