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Gli uomini cercano nelle anime consacrate l’impronta di Dio sulla terra

Che cosa cercano gli uomini nelle persone consacrate, nei sacerdoti, nei monaci, nelle suore, se non l’impronta di Dio sulla terra? Non cercano cose umane: non cercano né un sindacalista, né un assistente sociale, né un agitatore o un rivoluzionario, e nemmeno uno psicologo, o un sociologo, o un antropologo, o qualunque altro tipo di —ologo. No, non cercano nessuna di queste cose: perché le potrebbero già trovare nel mondo profano, e, probabilmente, anche di migliori, almeno nel loro genere. Dunque, perché dovrebbero cercarle in un uomo consacrato? Sarebbe una soluzione di ripiego, una cattiva copia, uno scadente duplicato, o surrogato, di quel che già si trova in offerta, al supermercato delle occasioni, delle ricette bell’e pronte, delle soluzioni usa e getta. E, per giunta, a prezzo scontato: prendi tre e paghi due.

Il fatto è che nell’uomo, persino nel più superficiale e nel più materialista degli uomini, esiste, da qualche parte, in qualche forma, magari semi-dimenticata e sepolta sotto pesanti strati di materiali di scarto, la parte luminosa, divina, che è come il sigillo del suo Creatore; e quel sigillo è la causa di una inquietudine, di una sete, di un appetito, che, a volte, tardano alquanto a divenire coscienti, ma che hanno una sola sorgente e una sola meta ideale: l’Amore assoluto, eterno, perfetto, che nel mondo terreno non si trova, perché non esiste, ma di cui tutti gli esseri umani recano in se stessi una vaga memoria, perché da lì tutti hanno avuto origine. Come potrebbe l’uomo, allora, negare la sua intima natura e accontentarsi di bere alle pozze d’acqua sporca e fangosa, che non dissetano, mentre egli ha un immenso desiderio e una infinita nostalgia della fonte d’acqua fresca e viva, da cui scaturisce la promessa delle coste eterne?

Ecco: l’uomo di Dio dovrebbe aiutare gli altri uomini, immersi nelle cose del mondo, a dissetarsi, almeno in parte, a quella sorgente d’acqua viva; e se, per caso, essi hanno addirittura dimenticato la propria sete (il che non equivale a dire che non ne subiscano il tormento: si può essere tormentati da qualcosa di cui s’ignora l’esistenza), egli dovrebbe risvegliare in loro quel ricordo, ridestare quella facoltà, scuoterli dall’oblio della loro parte più nobile e profonda, e dischiudere ad essi gli orizzonti infiniti della vita divina. L’uomo consacrato non è stato chiamato a dare ai suoi simili solo le sue doti umane: per quanto ampie e generose, non basterebbero mai a spegnere quella sete, né a riaccendere quel desiderio. No: l’uomo di Dio è chiamato a donare agli altri uomini l’acqua viva che sgorga da Dio stesso; e, per poterlo fare, deve essere, egli stesso, una immagine di Dio. Le sue impronte di uomo, devono diventare le impronte di Dio sulla terra. Bisogna che, attraverso di lui, gli altri uomini scorgano un riflesso dell’ombra di Dio stesso: il che non accadrà mai, se egli fa conto solo sulle sue forze e non si fa tutt’uno con la volontà e con l’amore di Dio.

Come può mostrare le impronte di Dio, un sacerdote che non rinuncia al fardello del proprio Ego e non si annulla totalmente in Dio, non si scioglie dolcemente nell’amore di Gesù Cristo e non diviene parte di un amore molto più grande della sua persona, la Comunione dei santi? Come potrebbe essere degno di celebrare il sacro mistero dell’Eucarestia, se non si affidasse totalmente, incondizionatamente, alla potenza e all’amore di Colui che lo ha scelto, così come ha scelto ciascuno di noi, prima ancora che il mondo fosse? E come potrebbe celebrare il Sacramento della Riconciliazione, e assolvere in nome di Dio stesso, anzi, assolvere diventando egli stesso, in quel momento, manifestazione di Dio, non semplice ministro, ma figura del Redentore, benché misero uomo, e pur restando pienamente e dolorosamente consapevole di tutti i suoi limiti umani?

Ci sembrano quanto mai appropriate le riflessioni svolte da don Angelo Bellenzier, che è stato direttore, per quattordici anni, dal 1994 al 2008, del centro spirituale del Nevegal Maria Immacolta di Lourdes e, poi, canonico onorario della Cattedrale di Belluno – nel suo libro Momenti di vita del Sacerdote. Vita interiore e apostolato, Belluno, Edizioni Santuario del Nevegal, 2005, pp. 70-72):

L’animo dell’uomo è assetato, nell’animo dell’uomo è radicata l’esigenza di infinito. Plasmati da un amore senza limiti non potevamo che risultare così; è il nostro intimo impasto, è l’evidente marchio di fabbrica.

Dio ha creato l’uomo libero, ma non poteva che crearlo per sé e quindi l’uomo è naturalmente, per sua struttura intima, bisognoso di Dio e poiché Dio è per essenza amore, l’essere umano ha bisogno di amare e di essere amato.

Se l’uomo è creatura d Dio, non può che realizzarsi in Dio ed ecco allora che le realtà terrene, quelle che non sanno di infinito, non possono soddisfare.

La sete di infinito è parte della struttura dell’uomo.

Vi sono purtroppo fratelli, creature di Dio, del tutto privi dell’acqua che sgorga per la vita eterna che sola potrebbe dissetare, perché forse non sono stati aiutati a scoprire da dove essa scaturisce.

Ecco che noi, come Sacerdoti, abbiamo il compito tutto particolar, impegno che ci è affidato, di indicare e porgere quest’acqua che sola disseta lo spirito.

L’acqua non può che venire dalla sorgente; dobbiamo quindi essere noi uniti a Lui, roccia da cui sgorga la sorgente d’acqua viva, canali che partono da Lui, perché non è sufficiente portare alle anime solo qualcosa di nostro, la nostra dedizione, la nostra generosità, il nostro senso sociale, la nostra ricerca di giustizia, la nostra solidarietà umana (tutte cose lodevoli e meritorie), ma dobbiamo prima portare Gesù e solo se innestati in Lui porteremo Lui e tutto il resto. […]

Le nostre parole, anche la nostra dedizione, non sono sufficienti a soddisfare la sete delle anime. Le anime assetate hanno una sensibilità particolare, per capire se quanto noi offriamo è il solito bene passeggero, solo sentimento umano, o se invece è l’autentico bene, il valore vero che viene da Dio.

Lo specifico valore del nostro ruolo di intermediari del sacro, che nei disegni di Gesù ci è affidato, sta tutto nel saper provocare, sostenere e alimentare un vero incontro con Dio.

L’apostolato è il più grande atto di amore a cui siamo chiamati.

Anche chi è lontano da Dio sa intuire se noi siamo testimoni affidabili, sente se in noi consacrati c’è qualcosa di un livello diverso, qualcosa che forse non sanno definire, ma che intuiscono come realtà superiore, al di fuori delle categorie terrene. Comprendono che navighiamo in un mondo di valori a loro estranei, che non accettano, ma che forse ci invidiano, se vedono in noi una serenità che loro non conoscono, alla ricerca come sono di una risposta ai problemi della vita che non riescono a trovare.

Vi sono fratelli che in noi ricercano Dio e per tanti l’unica impronta di Dio che sono in grado di afferrare; ci osservano, ci soppesano, vedono se è evidente che la nostra vita è guidata da qualcosa, da qualcuno, da una realtà per loro lontana e misteriosa, ma che intuiscono presente. È un ruolo importante e di responsabilità che ci viene riconosciuto, spesso anche da chi non è credente.

Certo per primi dobbiamo credere alla presenza di Dio in noi.

Alla base di una vita sacerdotale feconda sta una profonda vita interiore.

Vita interiore è vivere in unione con Dio, riservargli un ampio spazio, non solo momenti insignificanti e distratti, ma un tempo dedicato esclusivamente a Lui.

A Dio dobbiamo saper dare noi stessi, non solo ritagli di vita. […]

Vivere uniti a Dio non è estraniarsi dalla realtà o eludere l’attività apostolica e di animazione cristiana umanitaria e sociale. Come cristiani non possiamo vivere nelle nuvole, ma ci è richiesto di partecipare ai problemi della società, portando un nostro contributo specifico, caratteristico nostro.

Vita interiore, preghiera, unione con Dio, non è disertare da un possibile e dovuto apporto per risolvere i problemi degli uomini, ma è renderci capaci di operare con maggiore efficacia, è ricevere forza per dedicarci maggiormente ai fratelli. Dio non ci distoglie ma ci spinge ai fratelli, con energia di amore.

Il più grande atto di vera carità, il più grande dono che possiamo loro offrire, è aiutarli ad incontrarsi col Signore, è portarli a Dio, è portare a loro Dio: saremo usati come strumento di bene, solo a patto di possedere veramente Dio.

È questo il grande dono che si aspettano da noi; le altre cose già le possiedono e sanno farle meglio di noi.

Gravissima, quindi, è la responsabilità dell’uomo consacrato il quale, tradendo la chiamata di Dio e deludendo le attese dei suoi simili, invece di indicare loro l’acqua della vita eterna, zampillante freschissima dalla roccia di Dio, offe ad essi la sua dimensione puramente umana, e se sia pure con buone intenzioni, e non sa mostrare loro null’altro che le passioni, le speranze, i timori tipicamente umani, senza nulla che li sollevi un poco da terra, dall’orizzonte immanentistico, senza nulla che rechi un sollievo, anche minimo, alla loro sete di eternità. Se una persona consacrata, anche solo per un istante, si scordasse che in ogni cuore umano, magari allo stato potenziale, esiste questa sete di Dio, vorrebbe dire che si è scordata di ciò che è essenziale, e che sta girando le sue pale a vuoto, come un mulino forse bello a vedersi, da lontano, ma inutile, perché abbandonato. Del resto, Gesù in persona ha ricordato, con parole di una chiarezza esemplare, questo concetto (Luca, 11, 11-12): Quale padre tra voi, se il figlio gli chiede un pane, gli darà una pietra? O se se gli chiede un pesce, gli darà al posto del pese una serpe? O se gli chiede un uovo, gli darà uno scorpione? Ebbene, questo è precisamente ciò che accade quando un’anima, assetata di Dio, come lo sono tutte le anime, ma forse, in un dato momento, più assetata e bisognosa che mai (anche se non lo sa), si avvicina a un uomo di Dio, e invece delle parole eterne, che sgorgano dalla roccia inesauribile della Grazia, si sente rivolgere solo parole umane, troppo umane; parole di quella misera, meschina saggezza che è soltanto e unicamente umana; parole dalle quali traspaiono l’orgoglio e la superbia di chi crede d’aver capito tutto, di poter dispensare ad altri la sua "saggezza", e invece è nudo, perché ha perso l’essenziale: il contatto intimo, costante, pieno di fervore, con Dio.

A volte accade perfino che il sacerdote, imbevuto di idee progressiste e moderniste, si metta a parlare con leggerezza e quasi con sufficienza della sacra Tradizione; che si abbandoni a espressioni sconcertanti, irrispettose, nei confronti di ciò che dovrebbe essere più caro al cuore dei credenti: la fiducia, piena di soavità e delicatezza, nella intercessione degli Angeli, dei Santi, di Maria Vergine; che applichi sconsideratamente, in maniera assurdamente ideologica, categorie attuali alla teologia del Nuovo Testamento, per esempio rivolgendo a San Paolo l’accusa di "antifemminismo" e, magari, di "omofobia"; che non si faccia scrupolo di criticare aspramente la Gerarchia ecclesiastica, beninteso se questa non corrisponde alle sue idee "evolute", come è stato nel caso di papa Benedetto XVI, salvo poi invocare un altro pontefice, ossia Francesco, quale testimonio e supremo garante di tutte le sue sparate e di tutti i suoi sproloqui. L’anima che si era avvicinata a lui, assetata e trepidante, in cerca di una certezza, di una verità soprannaturale, rimane confusa, nauseata, si sente respinta e tradita, e si domanda, con tristezza e meraviglia, quale razza di Speranza cristiana abbia tentato di rifilargli quel sacerdote.

In quei falsi uomini di Dio, i quali non sanno più rivolgere alle anime parole di verità e di conforto soprannaturale, ma che sono essi stessi — orribile a dirsi, ma vero e neppur tanto infrequente — a dare scandalo e seminare dubbi nel cuore altrui, evidentemente è svanito il ricordo delle parole di Gesù (Giov. 15, 1-8): Io sono la vera vite e il Padre mio è il vignaiolo. Ogni tralcio che in me non porta frutto, lo toglie e ogni tralcio che porta frutto, lo pota perché porti più frutto. Voi siete già mondi, per la parola che vi ho annunziato. Rimanete in me e io in voi. Come il tralcio non può far frutto da se stesso, se non rimane nella vite, così anche voi, se non rimanete in me. Io sono la vite, voi i tralci. Chi rimane in me e io in lui, fa molto frutto, perché senza di me non potete far nulla. Chi rimane in me viene gettato via come il tralcio e si secca, e poi lo raccolgono e lo gettano nel fuoco e lo bruciano. Se rimanete in me e le mie parole rimangono in voi, chiedete quel che volete e vi sarà dato. In questo è glorificato il Padre mio: che portiate molto frutto e diventiate miei discepoli.

Fonte dell'immagine in evidenza: Foto di Chad Greiter su Unsplash

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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