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La magnificenza del creato è un inno imperituro alla Sapienza divina

Si possono dare delle dimostrazioni logiche dell’esistenza di Dio; tuttavia, bisogna essere franchi, a ciascuna di esse lo scettico e l’ateo possono ribattere, punto su punto, perché la questione non è tale che si possa decidere razionalmente, una volta per tutte. Si può arrivare a Dio con la ragione, ma per via d’indizi e analogie che, a rigore, non sopportano un esame troppo severo: infatti, tutto ciò che si può inferire per analogia, ha una qualche attinenza con la sfera dell’umano; mentre Dio, per definizione, sorpassa di tanto la mente dell’uomo e la sua capacità di comprensione, e anche solo di visione, di quanto l’immensità del cielo oltrepassa la superficie finita della terra, se anche questa avesse le dimensioni del pianeta più grande che riusciamo a immaginare.

Prendiamo, a titolo di esempio, l’argomentazione più classica in favore della possibilità di dimostrare razionalmente l’esistenza di Dio: le cinque prove di San Tommaso d’Aquino.

La prima: Ex motu de mutatione rerum: tutte le cose cambiano e si muovono, dunque deve esistere un ente che le muove senza muoversi lui stesso; ma è proprio vero? Le cose non potrebbero muoversi e trasformarsi, così, da se stesse, senza una causa, senza un movente originario? Non potrebbero essere eterne e increate, come sostengono le filosofie panteiste?

La seconda: Ex ordine causarum efficentium, le cose rimandano a una causa efficiente, perché partecipano dell’essere, ma non sono l’essere; di nuovo, ne siamo sicuri? Se le cose fossero eterne e increate, avrebbero in se stesse la loro causa efficiente, cioè sarebbero causa di se medesime. È questo un concetto alquanto difficile da pensare, ma non impossibile da postulare in linea teorica, specialmente in mancanza di meglio.

La terza: Ex rerum contingentia: le cose sono contingenti, cioè possono esserci o non esserci, il che rimanda a un qualcosa che non sia contingente, ma necessario e assoluto; ma chi lo dice che le cose sono contingenti? Non si potrebbe pensare che, per il fatto di esistere, esse devono esistere, e quindi sono necessarie; mentre quelle che non esistono, non esistono perché non possono esistere, e che, dunque, la loro non esistenza è altrettanto necessaria? Certo, questo ragionamento somiglia molto a una passiva adorazione dell’esistente: quello che c’è, c’è, e quello che non c’è, è fatale che non ci sia. Non si può dire che spieghi un gran che, però, se non andiamo troppo per il sottile, potremmo anche accontentarci; e qualcuno, di fatto, si accontenta: o, per dir meglio, questa è la spiegazione che piace di più, o che spiace di meno, alla maggior parte degli intellettuali moderni.

La quarta: Ex variis gradibus perfectionis: le cose possiedono diversi gradi di perfezione (ad esempio, una musica può essere eseguita in maniera più o meno perfetta; una decisione dei giudici può rispecchiare un maggiore o minor grado di giustizia), il che induce a pensare che esista la somma perfezione, un modello supremo dal quale tutte le cose contingenti (e imperfette) discendono; ma questa è davvero una prova dell’esistenza di Dio? Sì, le cose di quaggiù sono più o meno imperfette; se ho molta sete, desidero bere un’acqua freschissima, e posso trovare delle sorgenti che possiedano in vario grado la qualità della freschezza: ma da quale necessità deriva l’esistenza di una perfezione originaria che contenga in se stessa, potenzialmente, tutte le manifestazioni contingenti, nel grado più eccellente? In fondo, noi conosciamo solo questa realtà contingente, nella quale siamo immersi; postulare una realtà trascendente, perfetta e assoluta, che "sorregga" le cose di cui facciamo esperienza, equivale a postulare proprio ciò che si voleva, invece, dimostrare: il che è un paradosso, o un modo di eludere il problema.

La quinta: Ex rerum gubernatione, dal governo delle cose: le cose non intelligenti rispondono a una logica intelligente (ad esempio, l’albero che cerca il sole), il che indica una teleologia, un finalismo; e ciò, ancora una volta, rimanda a un fine supremo di tutte le cose, che le trascende, le organizza e le dirige. Anche in questo caso, tuttavia, parrebbe che si voglia offrire una spiegazione già bella e pronta al posto di una spiegazione logica e consequenziale: è dimostrabile che le cose tendono a un fine? Non si potrebbe pensare che esse si muovano a caso, oppure che si muovano secondo un ordine disordinato, cioè secondo un ordine dei mezzi, ma non dei fini? L’ordine dei mezzi, infatti, può anche essere solo apparente; in fondo, cosa sono le "leggi" della natura, se non un insieme di automatismi, ai quali noi umani diamo il valore di "leggi" per spiegare, ma solo esteriormente, dei fenomeni la cui intima essenza ci sfugge, così come ce ne sfugge l’origine?

Eppure, c’è una sesta prova, non solo dell’esistenza, ma anche della somma sapienza di Dio, che non sarà del tutto "razionale" nel senso aristotelico del termine, ma che possiede un’evidenza immediata, purché l’anima trovi l’umiltà necessaria a riconoscerla, deponendo la presunzione di voler capire, spiegare e giudicare tutto, quasi che l’universo intero, visibile e invisibile, fosse opera dell’uomo: perché è chiaro, anche sul piano logico, che solo il Creatore può avere la piena e perfetta comprensione della creazione; Questa sesta prova consiste nella magnificenza del creato, nel suo incomparabile splendore, per quanto vi siano vari argomenti, o, piuttosto sofismi, che pretendono di sminuire tale splendore e negare tale magnificenza. Non è forse vero che la lampreda si attacca con la sua chiostra di denti al corpo delle sue vittime, e le divora ancor vive? Dov’è la magnificenza, dov’è lo splendore, in un universo siffatto, pieno di sofferenze atroci e incomprensibili, pieno di disordine, di crudeltà, di non-senso? Così parlano gli uomini, nella loro piccolezza, con la pretesa di poter capire tutto, e, quindi, di poter giudicare anche Dio. Se Dio esiste, essi pensano, non avrebbe potuto creare un universo migliore di questo, senza la sofferenza, o, almeno, senza la sofferenza degli innocenti? E se Dio esiste, allora che senso ha la sofferenza delle creature innocenti: degli animali, che non comprendono, oppure dei bambini, che non sanno ancora?

L’autore di un notevolissimo libro della Bibbia si era posto queste domande, qualcosa come duemilacinquecento anni fa; anche lui, vinto dall’angoscia per lo spettacolo della sofferenza del giusto, dell’innocente, quale egli riteneva di essere (giacché proprio di lui si trattava), volle trascinare Dio davanti al tribunale della ragione, della ragione umana, e chiedergli conto di tanta sofferenza, di tanta ingiustizia. Ma la risposta, che viene da Dio stesso, lo confonde, lo ammutolisce, e lo mette nella giusta disposizione d’animo per valutare meglio ciò che è accessibile alla ragione umana, e ciò che non lo è. È la stessa pretesa d’Ivan Karamazov, nel capolavoro di Fëdor Dostoevskij: quella di poter chiedere conto a Dio del mistero del male; di citare Dio davanti al tribunale della ragione umana, e di accusarlo pubblicamente, o di crudeltà, se Egli vede il male e non lo impedisce, oppure d’impotenza, se vorrebbe impedirlo, ma non può. L’uomo moderno, dunque, non ha fatto il minimo progresso rispetto all’uomo antico (nonostante sia convinto del contrario, e sul mito del Progresso abbia costruito la sua intera civiltà): è rimasto fermo alle domande e alle accuse di Giobbe; con l’aggravante che è incapace di fare quel che l’uomo antico, alla fine, imparò a fare: sospendere il giudizio sulle cose più grandi di lui; rinunciare alla pretesa di giudicare quel che non può capire; e, dopo la venuta di Gesù, mettersi la propria croce sulle spalle e porsi alla sequela del Maestro, confidando nella Sua promessa di rendere leggero e soave quel giogo, quella sofferenza, mediante il dono del suo stesso Spirito.

Leggiamo, dunque, nel Libro di Giobbe questo meraviglioso inno alla Sapienza creatrice di Dio, nel quale Dio stesso parla all’uomo della sua creazione (38, 1-41):

Allora il Signore rispose a Giobbe di mezzo alla tempesta e disse:

Chi è costui che intorbida i miei consigli con parole prive di senso? Cingi qual prode i tuoi lombi: io t’interrogherò e tu m’istruirai. Ov’eri tu, quando io fondavo la terra?Parla, se possiedi intelligenza. Chi fissò le sue dimensioni, che tu sappia, e chi distese sovr’essa la corda? Su che cosa stanno fissi i suoi cardini e chi gettò la sua pietra angolare, tra il concerto gioioso delle stelle del mattino e le acclamazioni unanimi dei figli di Dio? Chi rinchiuse con porte il mare, quando erompendo dall’utero uscì? Quando gli ponevo una nube quale ammanto, e la caligine qual suo pannolino? Quando gli determinai un confine gli misi attorno sbarre e porte? E dissi: Fin qui verrai, ma non oltre, e qui deporrai l’alterigia delle tue onde. Da che vivi, hai tu comandato al mattino, hai tu additato all’aurora il suo posto, affinché ella occupi i lembi della terra e ne scacci i malvagi? Allora essa la trasforma come creta sotto un sigillo, e la colora come un vestito; è sottratta agli empi la loro luce ed è spezzato il braccio dei superbi. Sei giunto tu fino alle sorgenti del mare, o hai passeggiato nelle profondità dell’abisso? Forse ti furono aperte le porte della morte, e hai veduto le porte dell’ombra? Conosci tu l’ampiezza della terra? Parla, se conosci tutto questo!

Qual è la strada al soggiorno della luce, e le tenebre dove risiedono, onde tu sappia ricondurle nei loro domini, e poi rimetterle sui sentieri di casa loro? Devi saperlo, perché allora eri nato, e il numero dei tuoi giorni è sì grande!… Sei tu forse giunto ai depositi della neve? Hai tu visitato i serbatoi della grandine, che ho messo in serbo per il tempo di sciagura, per il giorno di mischia e di battaglia? Qual è la via per cui si spande la nebbia, si diffonde lo scirocco sulla terra? Chi aprì all’inondazione i canali, e una strada ai nembi dell’uragano, per far piovere su contrade ove non vive l’uomo, su deserti in cui non abita alcuno, per abbeverare squallide solitudini e far germogliare l’erba nella steppa? Ha forse un padre la pioggia, o chi generò le stille di rugiada? Dal seno di chi è uscito il ghiaccio e la brina del cielo chi l’ha generata? Le acque s’induriscono come pietra e la faccia dell’abisso ne è nascosta. Annodi tu i legami delle Pleiadi, oppure disciogli i vincoli d’Orione? Fai tu uscire a suo tempo le costellazioni e guidi tu l’Orsa coi suoi figli? Conosci le leggi del cielo o determini tu la loro influenza sulla terra? Alzi tu forse verso le nubi la tua voce, affinché un profluvio d’acque ti ricopra? Partono forse i fulmini su tuo ordine, dicendoti: Eccoci? Chi ha messo la sapienza nelle nubi, o chi ha dato intelligenza alle meteore? Chi può contare le nubi con esattezza e chi inclina gli otri del cielo, quando la terra si fonde in una massa, e le zolle si ammassano insieme?

Procuri tu la preda alla leonessa e sazi tu la fame dei leoncelli, quando s’accovacciano nelle tane o si appiattiscono in agguato nella macchia? Chi prepara al corvo il suo pasto, mentre i suoi nati gridano a Dio e si agitano senza nutrimento?

Ora, vi sono due maniere possibili di leggere questo famoso brano della Bibbia: l’una con un atteggiamento di superbia intellettuale, l’altra, con la fede in Dio. Nel primo caso, esso sembrerà una pagina di prosa gonfia d’inutile retorica, con la quale Dio, non potendo rispondere al perché? di Giobbe, lo sovrasta e lo schiaccia sotto il peso della sua potenza, lo fa ammutolire mostrandogli la sua immensa superiorità quantitativa. «Vedi come è grande e perfetto l’universo che Io ho fatto?», gli chiede; «se tu non puoi fare altrettanto, allora taci, e non chiedere a Me di renderti conto del mistero della sofferenza che colpisce l’innocente. Se non sai contare le stelle del cielo e non sai sfamare i leoncelli che attendono il loro pasto; se non sai spiegare da dove vengano la neve e la brina, il ghiaccio e la rugiada, allora impara a tacere e ad essere umile davanti a Me». Nel secondo caso, si tratta di una pagina densa di saggezza, che spalanca una nuova prospettiva a colui che pensava d’essersi cacciato in un vicolo cieco. Sì, quello della sofferenza che colpisce l’innocente, il giusto, è davvero un grande mistero (ma vi sono degli "innocenti", dei "giusti" in senso assoluto?; o non sono forse tutte le creature solidali fra loro, nel bene e nel male, in quanto compartecipi del medesimo destino?); però non ne deriva che l’uomo possa ergersi a giudice del suo creatore, e domandare a Lui che gli renda conto, come l’imputato tradotto in tribunale deve rendere conto ai giudici di quello che ha fatto. Dio è l’autore dell’universo, e la sua creazione è mirabile, per chi possieda occhi per vedere, orecchi per udire, e un cuore e una mente capaci di stupirsi davanti allo spettacolo grandioso e struggente della bellezza. È naturale che, nella vastità della creazione, vi siano, per l’uomo, degli interrogativi abissali, che lo lasciano profondamente pensoso. Ma come potrebbe la creatura giudicare il suo creatore? Come potrebbe capire sino in fondo il mistero dell’Amore — perché tale è la Creazione, in se stessa: un abissale mistero d’Amore — se non Colui che è l’Amore, mentre l’uomo, fosse pure il più santo, può solo parteciparvi, non essere l’amore…?

Fonte dell'immagine in evidenza: Foto di Chad Greiter su Unsplash

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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