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21 Giugno 2016È possibile una civiltà che non si curi dell’anima, che punti solo ed esclusivamente al progresso materiale, economico e tecnologico; che neghi a Dio il posto dovutogli, e che veda nell’uomo una creatura puramente biologica e null’altro, evoluta fin che si vuole, ma nata dal caso e sviluppatasi in senso esclusivamente naturalistico? Oppure si tratta di un concetto assurdo, di una contraddizione in termini, perché la civiltà, non questa o quella civiltà storicamente manifestata, ma la civiltà in se stessa, altro non può essere che la civiltà dell’anima, che rivolge lo sguardo verso Dio, e che vede nell’uomo la creatura fatta a Sua immagine e somiglianza, e destinata a tornare a Lui, così come da Lui essa, insieme a tutte le altre creature, ha tratto origine?
Il cardinale Michael von Faulhaber (1869-1952), arcivescovo di Monaco e Frisinga per trentacinque anni — anni terribili, dal 1917 al 1952: dalla Prima guerra mondiale al secondo dopoguerra, passando attraverso gli orrori del regime nazista, del quale fu coraggioso e fermissimo oppositore — ha espresso questo concetto con una mirabile capacità di sintesi, nella formula: Die Seele aller Kultur bleibt die Kultur der Seele: l’anima di ogni cultura è la cultura dell’anima (tenendo presente che, in tedesco, Kultur non è la nostra "cultura", ma corrisponde al concetto di "civiltà"). Pertanto, una civiltà senz’anima non è più civiltà, ma soltanto una forma di barbarie.
L’aforisma di monsignor Faulhaber (l’uomo a cui si deve la vocazione religiosa e, poi, la consacrazione sacerdotale del futuro Benedetto XVI) era ben presente alla mente di un altro prelato che ha vissuti in prima persona le tragiche vicende europee del XX secolo: monsignor Alojzije Viktor Stepinac (1898-1960), cardinale, che fu arcivescovo di Zagabria dal 1937 al 1960 e che, dopo la caduta del regime ustascia di Ante Pavelic — del quale fu considerato, ma a torto, un fiancheggiatore – subì una durissima persecuzione da parte del regime comunista jugoslavo del maresciallo Tito. Arrestato nel 1946, fu processato, condannato per reati politici in un processo farsa, durante il quale le sue dichiarazioni furono manipolate e la maggior parte dei testimoni chiamati dalla difesa, non vennero ascoltati, e imprigionato. Dal carcere e dai lavori forzati, in cui la sua salute venne irrimediabilmente rovinata (pare che gli venisse somministrato anche del veleno), passò in seguito agli arresti domiciliari; tuttavia, creato cardinale da Pio XII, nel 1953, rimase sempre nella sua Croazia e continuò ad essere, ufficialmente, il legittimo arcivescovo di Zagabria, fino al termine della sua vita, senza peraltro mai ricevere il permesso di recarsi a Roma.
Nel 1998 Giovanni Paolo II lo ha beatificato, riportando di attualità la sua figura semi-dimenticata di martire silenzioso della persecuzione anticristiana nei Paesi comunisti, durante i decenni della Guerra fredda: un destino parallelo a quello del Primate d’Ungheria, cardinale e arcivescovo Jozsef Mindszenty (1892-1975), anch’egli imprigionato, dopo la Seconda guerra mondiale, dalle autorità comuniste del suo Paese, e ufficialmente riabilitato solo nel 2012, mentre è in corso, anche per lui, la causa di canonizzazione. Entrambi, Mindszenty e Stepinac, rappresentano ancora oggi, e assai più rappresentarono in vita, un elemento ideologicamente scomodo e un segno di contraddizione all’interno della stessa Chiesa cattolica; entrambi, infatti, furono visti da certi cattolici "progressisti", che poi erano – e sono — dei marxisti sotto false vesti, come il fumo negli occhi, a causa della loro irriducibile opposizione al comunismo, cosa che li fece automaticamente etichettare come "conservatori", o "reazionari", o, peggio ancora, "filo-nazisti". E questo benché sia provato che entrambi si opposero ai rispettivi regimi totalitari di tipo fascista: Mindszenty a quello ungherese, che lo fece gettare in carcere nel 1944-45, e Stepinac a quello croato, per la sua esplicita condanna del razzismo e dell’antisemitismo, che gli valse, a guerra finita, il riconoscimento delle autorità ebraiche (Nessun capo di una Chiesa nazionale parlò del genocidio in modo così esplicito, come fece Stepinac, scrisse Michael Phayer, uno dei maggiori storici viventi dell’Olocausto).
Le lettere che Stepinac scrisse agli amici ed a svariate personalità, laiche e religiose, durante i lunghi anni del suo silenzioso martirio, sovrabbondano di espressioni di fede incondizionata nella volontà di Dio, di umiltà, perdono, amore per tutti gli uomini, compresi i nemici, e una sconfinata, illimitata fiducia nella Provvidenza; sono lettere quanto mai edificanti, nelle quali si respira una atmosfera di spiritualità semplice, ma possente, simile a quella che caratterizza la letteratura relativa alle persecuzioni dei primi martiri cristiani, durante l’Impero romano. Esse rappresentano una lettura che fa bene all’anima e che ricorda che il cristiano deve essere sempre pronto ad affrontare le difficoltà della vita con animo fermo e sereno, confidando non nelle sue povere forze umane, ma nella forza soprannaturale che viene dallo Spirito, per intercessione dei Santi e di Maria Vergine: e, inoltre — anche se questo discorso non piace ai catto-comunisti e ai nipotini di Dossetti e La Pira, né ai teologi della "liberazione" – che il comunismo è radicalmente, costituzionalmente incompatibile con l’ordine cristiano del mondo e con i principi della vita cristiana, perché pretende di escludere Dio dalla società e di sradicare il sentimento religioso dall’anima umana, gettando così il mondo non in una nuova forma di civiltà, ma in una civiltà senz’anima, che equivale alla barbarie più sfrenata, ove, chiamandoli "compagni" (suprema forma d’ipocrisia), si mandano a morte o nei campi di concentramento milioni di esseri umani.
Scriveva, dunque, monsignor Stepinac al professor Petar Grgec, scrittore croato, suo commilitone durante la Prima guerra mondiale e, al termine di essa, suo compagno nei campi di prigionia (da: Luigi Stepinac, Lettere dal martirio quotidiano, pref. del card. Josip Bozanic, testo a cura di Alberto Di Chio e Luciana Mirri Vigodarzere, Padova, Associazione Editoriale Promozione Cattolica, 2009, anno 1956, lettera n. 21, pp. 200-202):
Stimatissimo signor Professore!
Le restituisco con riconoscenza il libro "Atom-Waffen oder isotope" ("Atomo-Armi o isotopi), che Lei m ha imprestato in occasione della sua ultima visita a Krasic. L’ho letto davvero con grande interesse. Un tempo restavamo meravigliati dalla fantasia di Giulio Verne.
Durante la Prima guerra mondiale, nelle trincee del fronte italiano, ho letto il romanzo del convertito inglese Benson, sotto il nome di "Gospodar Svijeta"("Il padrone del mondo") il quale, alla fine del romanzo, descrive che dall’aereo gettavano un esplosivo, in forma di pillole d’argento, per distruggere una parte della Palestina.
Ed ora, ecco che questa fantasia un po’ alla volta, diventa realtà.
Opportunamente il titolo del libro ha la forma interrogativa: "Atom-Waffen oder Isotope?". Io oserei dare una risposta a questa domanda; questa risposta suonerebbe pressappoco così: "Se l’atomo sarà nelle mani dell’uomo, sarà isotopo; se in mano a belve, sarà Waffen (Armi), doppia guerra lampo, annientamento".
Penso, infatti, che non sia senza fondamento quella parola dello scrittore francese Alain [Emile Chartier Alain, 1868-1944, filosofo e pedagogista], il quale scrive: "Le pouvoir rend fou" (il potere rende folli). "Docet" Nerone, imperatore romano, ma insegnano anche i vari Neroni e i Neronetti durante i secoli, fino ai giorni nostri, quando milioni e milioni di uomini hanno sperimentato sulla loro pelle la veracità di quelle parole di sopra, e non in un caso solo.
Il Nerone romano, per esempio, fece cospargerei cristiani di resina, li fece legare a pali e poi, di notte, fece dar fuoco, perché diventassero quali torce notturne: poi egli correva, rivestito come cocchiere, tra quelle torce viventi. Egli fece condurre in una barca lussuosa anche la propria madre in mezzo al lago di Nemi, per divertimento; e poi vi aprì una falla, perché tutti annegassero. Quando poi si uccise, fuggendo dai pretoriani insorti, esclamò: "Quale artista sta morendo!".
Spesso mi ritornano in mente le parole dello scrittore francese: "Il potere rende folli!". Non potrebbero forse un giorno questi moderni Neroni contemplare, magari da un aereo, a sangue freddo, come bruciano gli uomini sulla terra e considerarsi artisti, liberatori dell’umanità dall’oscurantismo medioevale?
Infatti, a che servono questa tanto decantata civiltà, il progresso e la tecnica più perfetta, se manca la cultura dell’anima, se non viene riconosciuto l’uomo, come il primo valore dopo Dio?
Un giorno disse il cardinale Faulhaber: "Die Seele aller Kultur bleibt die Kultur der Seele ("L’anima di ogni cultura è la cultura dell’anima") [invece, come si è detto, Kultur non è la cultura, ma la civiltà]. E questa cultura[sic] è oggi regredita paurosamente.
E nonostante che siamo ad ogni passo abituati a sentire la parola "compagno", è un fatto che oggi vale più la definizione degli antichi pagani: "homo homini lupus" (l’uomo è il lupo dell’uomo).
E questo è del tutto coerente con la negazione di Dio. Infatti, chi non riconosce Dio Creatore, sarebbe strano che riconoscesse l’essere umano mortale, senza eliminarlo dalla faccia della terra, quando lo considerasse utile a se stesso.
E non suona forse fin troppo paradossale che questo lo facciano in nome della libertà, coloro che negano la libera volontà umana?
Tuttavia, il Cristianesimo non ha mai perso al speranza. Non si è scoraggiato di fronte alla situazione disperata degli antichi pagani, ma si è messo al lavoro e nella lotta con i vari Neroni, ha trasformato tanta parte della società umana in modo che l’uomo non vedeva più, nel suo simile, un lupo e nemmeno solo un compagno, ma molto di più: un fratello, perché tutti e i neri in Africa e i cannibali della Nuova Guinea e gli esquimesi del Polo Nord e i progrediti europei dicono con lo stesso diritto: "Padre nostro, che sei nei cieli!".
I socialisti e i comunisti si sforzano di conquistare il monopolio di essere considerati i liberatori del proletariato dalla schiavitù del capitalismo, ma non sanno che il primo manifesto in relazione all’abolizione della schiavitù lo ha già pubblicato San paolo apostolo oltre 1900 anni fa, quando scrisse quella stupenda letterina a Filemone, al quale, nello spirito delle condizioni sociali di allora,riconosce i diritti sullo schiavo Onesimo, che era fuggito, ma insieme lo ammonisce di riceverlo "non più come schiavo, ma piuttosto cime fratello amato" (Lettera a Filemone, 16).
E come il Cristianesimo non ha perso allora la speranza, così non dispera neppur oggi, ma procede verso l’avvenire con sereno ottimismo, anche se a volte va incontro al’era atomica.
Il Sovrano e assoluto Signore di tutti gli avvenimenti è ancora oggi solo Dio e nessun altro. Se vogliono, possono anche considerarsi padroni del mondo, in realtà sono solo piccole pedine sulla scacchiera del mondo che la mano di Dio muove dove vuole, quando vuole e finché vuole.
"Io sono il Signore e non ce n’è alcun altro", dice Dio onnipotente.
Come sono vere queste parole, e come farebbe bene a tutti i cristiani, e non ad essi soltanto, leggerle e rileggerle con calma, con serenità, meditandole a lungo, senza pregiudizi ideologici di sorta. Non sono le parole di un uomo vinto e amareggiata, né le parole di un uomo bramoso di vendetta o animato da sentimenti di rivalsa nei confronti dei suoi persecutori. Sono parole pacate e ponderate, profondamente umane, profondamente sagge: le parole di un uomo che, in pieno regime ustascia, aveva osato tuonare contro il razzismo, contro la persecuzione antiebraica e contro la divinizzazione della nazionalità, al punto che un alto ufficiale tedesco, udendolo, aveva commentato, rivolto ai capi del regime di Ante Pavelic: Da noi, in Germania, se un sacerdote avesse parlato in questo modo durante la Messa, non sarebbe sceso vivo dall’altare!; e che mantenne la stessa fierezza, la stessa fedeltà a Dio, lo stesso rifiuto della statolatria, quando salirono al potere i comunisti. Ed è questo che dà, e che dava, tanto fastidio ai cattolici "progressisti", segretamente affascinati dal Capitale di Marx quasi quanto dal Vangelo di Gesù Cristo (e, a volte, neanche tanto segretamente, soprattutto prima della caduta ingloriosa del comunismo), e per i quali figure come quella di Stepinac — e di Mindszenty, come si è detto — rappresentano e rappresentavano una specie di rimorso segreto, di pungolo nella carne viva del loro sedicente progressismo.
Eppure, il concetto che emerge da questa lettera, così come da tutte le altre del suo epistolario, è chiarissimo, e non può non essere pienamente condiviso da chiunque sia realmente animato dalla fede cristiana: niente e nessuno, né idoli di sorta — la classe, la razza, lo Stato -, né promesse di paradisi in terra, potranno mai sostituirsi ai diritti di Dio e al dovuto sentimento filiale, della creatura verso il suo Creatore, da parte dell’uomo. Nessuna civiltà può esistere senza Dio. Perché, senza Dio, l’uomo non è più nemmeno uomo. Come diceva Jean-Marie Vianney, il santo curato d’Ars: Lasciateli vent’anni senza il loro parroco, e gli uomini si metteranno ad adorare le bestie…
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