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Pietà per l’uomo che soffre e che la Grazia tenta di risvegliare

Graham Greene (nato a Berkhamsted, vicino a Londra, il 2 ottobre 1904 e spentosi in Svizzera, a Corsier-sur-Vevey, il 3 aprile 1991) soleva definirsi uno scrittore che è anche cattolico, piuttosto che uno scrittore cattolico; e ci sembra che sia una definizione condivisibile; forse, però, non nel senso che probabilmente intendeva lui. Egli, definendosi uno scrittore che è anche cattolico, intendeva evidenziare l’anteriorità del suo essere scrittore rispetto all’essere cattolico, anteriorità cronologica — si convertì nel 1926, dal protestantesimo — ma anche esistenziale. Greene si sentiva prima di tutto scrittore; trattava situazioni intimamente pervase dalla tematica religiosa, ma il cattolicesimo vi appare, se pure vi appare, come una delle possibili risposte, più che come un bisogno originario che trova in Dio, nel Dio proclamato dal cattolicesimo, il suo pieno appagamento.

In un certo senso, Greene è uno scrittore del "mondo": l’uomo che descrive nei suoi romanzi, è l’uomo smarrito e peccatore di una modernità che ha smesso di credere in se stessa, nei suoi miti e nelle sue illusioni; ed è dal fondo di questo smarrimento che trova la voce della Grazia, nonostante la sua debolezza o proprio nella sua debolezza. Non è un uomo che senta la vocazione alla santità; è un uomo fallito, miserabile, disperato; un povero essere amareggiato, che si porta dietro l’inutile fardello delle sue speranze deluse, dei suoi sogni infranti; un essere che non di rado scivola nell’auto-compatimento, che beve fino ad abbrutirsi, o che si rotola nel sesso sperando di alleviare le sue sofferenze, di scordarsi la sua profonda amarezza.

Non si capisce bene da dove gli giunga la voce della Grazia: a volte è per mezzo di una donna, come avviene in uno dei suoi romanzi più belli e struggenti, La fine dell’avventura, dove è l’amore di Sarah, moglie infedele di Henry, tormentata, infelice, e nondimeno, a suo modo, profondamente attratta dal richiamo di Dio, che getta al suo amante Maurice Bendrix l’ancora della salvezza, anche se egli potrà riconoscerla solo dopo la morte di lei per tubercolosi: strana donna angelo, adultera e fragile, incomprensibile e appassionata donna moderna, che non sa resistere al richiamo dei sensi, eppure è disposta a sacrificare ogni cosa, anche se stessa, per la redenzione morale dell’uomo che ama d’un amore colpevole. In un altro famoso romanzo, Il potere e la gloria, la Grazia giunge per vie ancora più tortuose ed oscure, quando un prete cattolico, nel Messico rivoluzionario straziato da una furiosa persecuzione anticattolica, decide di andare deliberatamente incontro alla morte, pur tremando di paura, per confessare una spia che lo consegnerà ai soldati: non vuole mancare un’altra volta alla chiamata di Dio, dopo che il vizio del bere e la relazione con una donna, da cui è nata anche una figlia, già hanno messo a nudo la sua penosa debolezza umana, la sua inadeguatezza di sacerdote e testimone di Cristo.

L’impressione è che la Grazia giunga agli uomini (e alle donne) peccatori quando meno se l’aspettano, che li venga a stanare per tirarli fuori da una vita di miserie e compromessi; ma non si riesce a vedere la mano di Dio, al contrario, la presenza di Dio resta vaga e dubbiosa, come vaga e dubbiosa, anche se sincera, è la ricerca di Dio da parte di questa umanità tormentata, umiliata e offesa. In effetti, quando si considerano i protagonisti dei romanzi di Greene, vengono subito alla mente quelli di Dostoevskij: non i più elevati, peraltro, ma soprattutto quelli che annaspano nella palude. Anche per la viva consapevolezza della presenza della sofferenza nella vita umana e nella storia, la narrativa di Greene è in linea con altri scrittori (e poeti) del Novecento, da Ungaretti a Saba, per non parlare del Wilde del De profundis o dei grandi romanzieri cattolici francesi, a cominciare da Bernanos e Mauriac. Pure, non si direbbe che il mistero della sofferenza trovi una vera risposta: continua ad incombere e non viene trasceso, al massimo viene affrontato eroicamente.

Scriveva Silvana Pintozzi nella sua bella nota introduttiva a Il treno d’Istanbul (titolo originale: Stamboul Train, traduzione dall’inglese di Bruno Oddera, Milano, Mondadori, 1961, pp. 6-9):

"Il ruolo dello scrittore è suscitare nel lettore simpatia verso quegli esseri che ufficialmente non hanno diritto alla simpatia", così Graham Greene definiva, in un’intervista concessa all’"Observateur", una dozzina di anni fa, la sua posizione di artista impegnato in un cattolicesimo difficile e sofferto che ritrova il contatto con l’individuo e si fa testimone del suo tempo. Personaggi di Greene sono di solito anime sradicate, diseredate, frustrate da una infanzia amara, che si dibattono nella loro fragilità, nel rimpianto dell’innocenza perduta e nell’ansia di un’impossibile evasione da se stessi e dalla propria ossessione. In un mondo che sembra diseredato da Dio e abbandonato a se stesso, i peccatori di Greene — alcolizzati, adulteri, lussuriosi, assassini, suicidi — ritrovano nella sofferenza quasi una masochistica consolazione, un’orgogliosa sfida alla miseria morale, alla vergogna, al disprezzo. "A volte penso che la ricerca della sofferenza e il ricordo della sofferenza" dichiara uno dei personaggi di "A Burnt-out Case" ("Un caso bruciato") "siano i soli mezzi di cui disponiamo per metterci in contatto con l’intera condizione umana". Soffrendo, entriamo a far parte del mito cristiano". Immerso in un mondo di violenza, l’eroe di Greene non è tuttavia un "tough guy" [un tipo tosto; nota nostra] alla Hemingway, è la vittima tragica di una graduale corruzione iniziata fin nelle aule e nei corridoi della scuola, palestra di lussuria e di violenza che l’autore descrive in "The Laweless Roads" ("Le strade senza legge"): "Orribili crudeltà potevano essere esercitate senza pensarci un istante, si incontravano per la prima volta caratteri di adulti e di adolescenti che avevano intorno un’autentica aurea [sic] di malvagità. Vi era Collifax che adoperava la tortura coi camerati, il signor Cranden coi suoi tre minacciosi menti, la sua toga polverosa, una specie di demoniaca sensualità; da queste altezze, la malvagità discendeva verso Parlow, il cui banco era pieno di minuscole fotografie: reclame di fotografie artistiche. L’inferno circondava quei ragazzi sin dalla loro infanzia". Di qui l’odio verso quelli che definisce "i partigiani dell’ordine" ossia coloro che costruiscono e difendono un ordine sociale aberrante, gli ipocriti e i farisei plasmati da quella inesauribile fucina che è la civiltà anglosassone ed europea in generale. L’Europa malata e corrotta esporta i suoi miti nelle colonie africane, dove la versione d "civiltà" instaurata dagli inglesi copre con appena un sottile strato di vernice il cancro segreto della corruzione. Scobie, il protagonista di "The Hearth of the Matter" ("Il nocciolo della questione"), interrogandosi sulle ragioni della sua permanenza nella Sierra Leone, riflette: "È forse perché qui la natura umana non ha avuto ancora il tempòo di mascherarsi? Qui nessuno avrebbe mai potuto parlare di un paradiso in terra: il cielo rimaneva rigidamente al proprio posto al di là della morte, e al di qua prosperavano le ingiustizie, le crudeltà, le grettezze che altrove la gente riusciva abilmente a mascherare. Qui si poteva amare le creature umane quasi come le ama Dio stesso, conoscendo il peggio di loro: qui non si amava una posa, un bell’abito, un sentimento assunto artificialmente". La "natura" di Greene non è dunque il sogno idillico di Rousseau, ma il ribollire violento delle nude passioni, la violenza messa allo scopeto che irrompe dagli schemi del perbenismo e dal bigottismo meticolosamente tramato dai ‘partigiani dell’ordine’. Nessun messianesimo politico o sociale anima l’opera di Graham Greene, la Speranza e la Grazia scaturiscono dal cuore dell’uomo così com’è, di fronte ad una infelicità che sfugge alla comprensione e che riconduce alla passione di Cristo, confondendo pietà e responsabilità. Lo scrittore non sembra lontano dall’ammettere che essendo l’uomo l’immagine del suo creatore, anche i criminali e gli assassini hanno il viso di Dio: "Qualcosa che somiglia a Dio pende all’estremità del cappio della forca". Mauriac, parlando del collega e correligionario inglese, dice: "Graham Greene è penetrato, come per effrazione, nel regno sconosciuto della natura e della grazia. Nessun partito preso turba la sua visione. Nessuna corrente di idee lo distoglie dalla scoperta di questo cielo che egli ha trovato all’improvviso. Egli non ha alcun preconcetto su quello che noi chiamiamo un cattivo prete: si direbbe che nel suo spirito non c’è alcun modello di santità. C’è la natura corrotta e la grazia in tutta la sua potenza; c’è l’uomo miserabile, perfino nel male, e quel misterioso amore di Dio che lo afferra nel più profondo della sua ridicola miseria e della sua vergogna beffarda per farne un santo o un martire". Ed ecco che il silenzio di Dio in un mondo che sembrava chiuso in se stesso, consumato dal suo stesso male, si fa voce imperiosa del sentimento della pietà: pietà per l’uomo che soffre, per il bambino che è dentro di noi e che la Grazia tenta continuamente di risvegliare. La pietà di Greene è un sentimento corrosivo e si trasforma in una sorta di vizio, tanto che Scobie afferma che se si volesse darsi la pena di essere pienamente lucidi, la compassione raggiungerebbe le stelle. Tutto il male del mondo non può soffocare la voce della pietà che accomuna il santo al peccatore, che divora e opprime le creature e si ritorce contro se stesa tornando al peccato in diverse forme: eutanasia, complicità illegale, silenzio colpevole, sacrilegio. "Come tutte le passioni, la pietà è per sé una cosa indifferente; non è né buona né cattiva, perché all’inizio è una reazione dell’istinto di difesa di fronte alle sofferenze degli altri" (Charles Moeller, "Graham Greene o il martirio della speranza", in "Letteratura moderna e cristianesimo", 1957). Il Cristianesimo di Greene non è dunque legato ad una ortodossia dannosa per qualunque artista, tanto che egli preferisce definirsi "un romanziere che è cattolico" piuttosto che "un romanziere cattolico". Egli fa parte di quel tipo di convertito che rinnova una tradizione di tolleranza e che è venuto a conclusione che un cattolico impegnato non può rimanere politicamente inattivo o indifferente con il pretesto di una visione trascendentale dell’esistenza: non si può ignorare nella sua opera la protesta contro la violenza, la tirannia politica e lo sfruttamento sociale tipici di un determinato contesto contemporaneo…

I limiti più vistosi, a nostro avviso, della concezione cattolica di Greene, sono, da un lato, il carattere generico e, a volte, troppo indulgente, della pietà da lui riservata all’uomo peccatore; e, dall’altro, il velleitarismo della sua protesta sociale, che paga lo scotto verso il clima generale degli anni delle Guerra fredda e della contestazione, ossia verso quel progressismo a buon mercato, venato di rivoluzionarismo pseudo-religioso, che era certo molto politically correct, ma che, alla luce del tempo galantuomo, rivela sempre più il suo carattere superficiale ed effimero. Cosa ancor più grave, nella visione di Greene si stenta assai a percepire il senso luminoso della trascendenza: Dio è troppo lontano, quasi incomprensibile, oppure, al contrario, troppo vicino, cioè troppo calato nel volto dell’umanità sofferente: è come se la sua fede fosse affetta ora da presbiopia, ora da miopia, senza mai trovare la giusta misura della relazione fra l’uomo e Dio.

Questi difetti dello scrittore sono tutt’uno con l’uomo Graham Greene. La sua eccessiva indulgenza verso l’umanità peccatrice, fu anche eccessiva indulgenza verso se stesso: lasciò la moglie Vivien, colei che lo aveva avvicinato al cattolicesimo, per un’altra donna, e poi ebbe molte altre relazioni, (tradendo sistematicamente la sua nuova compagna), ma non chiese mai il divorzio, per ossequio meramente formale verso l’indissolubilità del matrimonio. Si giustificava dicendo che agli istinti non si comanda; ma in ciò era molto luterano, piuttosto che cattolico: Pecca fortiter, sed crede fortius; o, se cattolico, era molto gesuita, e non nel senso migliore della parola. Per quanto riguarda il suo progressismo politico, la sua critica al colonialismo e all’imperialismo, la sua richiesta di giustizia sociale, che dire del fatto che, per anni e anni, fu sul libro paga dei servizi segreti britannici, grazie ai quali l’impero coloniale più grande della storia poté sfruttare i popoli e le risorse economiche di mezzo mondo per più di due secoli? Ancora oggi i suoi lettori sono costretti a porsi lo sconcertante interrogativo se egli sia stato uno scrittore che era anche una spia, o una spia che copriva le sue attività con la maschera della scrittura; sta di fatto che egli rimase al servizio del controspionaggio britannico fino al termine della sua vita. Infine, la sua incoerenza teologica. La chiave di essa sta nella definizione, esatta, formulata da Silvana Pintozzi: la Speranza e la Grazia scaturiscono dal cuore dell’uomo così com’è. Ma l’uomo, così com’è, non riesce ad aprirsi alla virtù della Speranza, né al mistero salvifico della Grazia; così com’è, in quanto essere naturale, egli è condannato a rimanere nell’inferno delle sue passioni disordinate, delle sue brame e dei suoi terrori. Nulla e nessuno lo potranno redimere. Ecco perché noi siamo commossi da personaggi come il prete de Il potere e la gloria, che va incontro alla morte per imitare Cristo almeno in quell’ultima occasione della sua vita di peccatore; ma non siamo convinti. Il suo gesto ha il sapore eroico ma freddo di quello degli antichi stoici; non quello caldo e vibrante d’amore del Vangelo.

Invero, è uno strano cattolicesimo, codesto. Certo, è verissimo che la Grazia tenta incessantemente di risvegliare l’uomo sofferente con il soffio d’una vita nuova: ma si tratta della vita soprannaturale dell’anima, non di un’altra vita umana, solo un po’ migliore della precedente. E questo risveglio non può aver luogo, se l’uomo peccatore si limita a soffrire e a compatirsi nella sua sofferenza, o a carezzare l’idea di uscire dalla vita per la scorciatoia del suicidio (un tema che ricorre in diversi romanzi di Greene; e lui stesso, infatti, quand’era ancora un giovanissimo studente, depresso e perseguitato dal "branco", tentò più volte di togliersi la vita; o, almeno, così ha poi raccontato). Perché la sofferenza si trasformi in strumento di redenzione e di rinascita, sono necessarie due cose: l’ammissione del peccato (e non solo il disprezzo di sé; anzi, questo non è affatto necessario e neppure desiderabile, perché di solito è un ennesimo travestimento dell’ego narcisista) e la richiesta di aiuto a Dio. Ed è questa l’essenza della concezione cattolica circa il rapporto fra l’uomo e Dio. Se mancano questi due elementi, o anche uno solo di essi, non è possibile alcuna redenzione; anche perché l’uomo non può redimersi da solo, e neppure riscattarsi: se non in un senso puramente ed esclusivamente umano.

Il che non basta per aprire gli orizzonti infiniti d’una vita nuova, né per trasmettere all’anima il soffio d’un respiro che sia davvero rigenerante…

Fonte dell'immagine in evidenza: Foto di Chad Greiter su Unsplash

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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