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Le origini della vita secondo l’evoluzionismo politicamente corretto

Paul B. Weisz (nato a Pilsen, in Boemia, nel 1919 e morto a Providence, nel New Jersey, nel 2005) è stato un importante fisico e chimico statunitense di origine ceca e uno dei massimi esponenti, anche a livello divulgativo, dell’evoluzionismo politicamente corretto.

Uno dei suoi libri di testo, Zoologia, ha avuto ampia diffusione anche nei licei italiani di una generazione fa (titolo originale: The Science of Zoology, McGraw-Hill, Inc., 1973; traduzione dall’inglese di Luciana Rinaldi, Bolognam Zanichelli Editore, 1978, 2 voll.); in esso, possiamo trovare una delle definizioni più "classiche" della teoria evoluzionista, naturalmente promossa al rango di certezza scientifica (cit., vol. 1, p. 248):

Si ritiene attualmente che la vita abbia preso origine da una serie progressiva di reazioni di sintesi chimica che ha portato l’organizzazione della materia inorganica a livelli sempre maggiori di complessità. Gli atomi hanno formato dapprima composti semplici, i quali più tardi ne hanno formato dei più complessi, e i più complessi tra questi si sono quindi organizzati in cellule viventi.

I particolari di questi processi sono attualmente noti soltanto in parte. Si possono avere alcune informazioni da deduzioni su virus, batteri e altre forme primitive che potrebbero essere simili ai primi sistemi biologici. Altri indizi ci vengono dall’astronomia, dalla fisica, dalla geologia, scienze che ci informano sulle probabili caratteristiche fisiche della terra primitiva. Indicazioni importanti ci sono anche fornite da esperimenti chimici organizzati in modo da ripetere in laboratorio alcune delle tappe che potrebbero aver portato all’insorgere della vita.

Tutto ciò che si è appreso per queste vie indica che le creature viventi sulla terra sono un prodotto diretto della Terra. Ci sono quindi tutte le ragioni per ritenere che gli esseri viventi debbano le loro origini esclusivamente alle caratteristiche fisiche e chimiche della terra primitiva. Non sembra che in ciò sia implicato niente di sovrannaturale, ma soltanto il tempo e le leggi naturali fisiche e chimiche che hanno agito in un ambiente terrestre particolarmente favorevole. Dato quel particolare ambiente, la vita probabilmente "doveva" comparire; una volta formatasi la Terra, con le sue particolari caratteristiche chimiche e fisiche, è stato praticamente inevitabile che in essa in seguito si originasse anche la vita. Analogamente, se altri sistemi solari hanno pianeti le cui condizioni chimiche e fisiche sono simili a quelle dell’antica Terra, è probabile che la vita si origini anche su tali pianeti. Attualmente si ritiene con buoni fondamenti che la vita non sia presente soltanto sulla Terra, ma sia probabilmente ampiamente diffusa nell’Universo.

Chi sa perché, in questo brano di prosa "scientifica", che pure si prende il lusso si sconfinare esplicitamente nella teologia, e sia pure per negarla con estrema decisione, c’è un’aria che ricorda terribilmente un circolo vizioso: sarà forse perché l’Autore, che è un chimico e un fisico, ripete per ben quattro volte, come un sacro mantra, nello spazio di appena cinque o sei righe, l’espressione "le caratteristiche fisiche e chimiche" per spiegare ciò che, in effetti, non spiega affatto, e cioè come sia nata la vita sulla Terra?

Infatti, se contassimo le espressioni dubitative come "probabilmente", "si ritiene che", "sembra", "è probabile", e poi le mettessimo a confronto con l’assertività categorica delle conclusioni ("ci sono tutte le ragioni per ritenere che"), non potremmo fare a meno di restare sorpresi da come la vaghezza e l’approssimazione degli "indizi", che l’Autore stesso chiama con questo nome, generi poi, bruscamente, una serie di rocciose sicurezze, on le quali egli si permette addirittura di uscire dall’ambito scientifico, per negare risolutamente che, nel problema considerato, c’entri lo zampino del soprannaturale. E tuttavia, non possiamo fare a meno di domandarci: è un compito pertinente alla scienza, negare questa possibilità? Non si tratta di due ambiti di ricerca totalmente diversi, e giacenti su due piani di realtà che non hanno nulla a che fare l’uno con l’altro: quello materiale e sperimentale la scienza, quello spirituale e invisibile, la teologia?

Proviamo a capirci qualcosa di più. Paul B. Weisz afferma che gli atomi hanno formato dapprima composti semplici, i quali più tardi ne hanno formato dei più complessi, e i più complessi tra questi si sono quindi organizzati in cellule viventi: insomma, una catena lineare, ininterrotta, graduale, dal semplice al complesso, dal primitivo all’evoluto, il tutto senza scosse o misteri, chiaro e liscio come bere un bicchier d’acqua. E soggiunge, per buona misura, che la vita [ha] preso origine da una serie progressiva di reazioni di sintesi chimica che ha portato l’organizzazione della materia inorganica a livelli sempre maggiori di complessità. Un quadretto bellissimo, razionale e rassicurante, solo che… è totalmente fasullo, oltre che del tutto congetturale, come perfino l’Autore è costretto a bofonchiare, sia pure a denti stretti, ad esempio quando, per scarico di coscienza, precisa che i particolari di questi processi sono attualmente noti soltanto in parte.

La profonda disonestà intellettuale di questo raccontino, simile a una deliziosa favoletta laicista e materialista, consiste nel fatto che un chimico e fisico del calibro dell’Autore sa benissimo che il passaggio dalle molecole inorganiche a quelle organiche, per quanto semplici, è un evento che, in natura, riesce difficile perfino immaginare, per non parlare della sua astronomica improbabilità: nel senso che esistono milioni e milioni di possibilità negative per una sola, e del tutto ipotetica, possibilità positiva. La storiella del passaggio "naturale" dall’inorganico all’organico, magari passando per il famigerato e fantomatico "brodo primordiale", gli scienziati la possono raccontare, ma solo in perfetta mala fede, ad un pubblico che sia del tutto sprovvisto e digiuno delle più elementari nozioni di biochimica; perché il lettore che ne abbia una conoscenza anche vaghissima, anche superficiale, capisce all’istante che si sta tentando di rifilargli una vera e propria "leggenda metropolitana" in formato pseudo-scientifico.

La verità è che, affinché una molecola inorganica, e sia pure nelle condizioni esterne più favorevoli che sia dato immaginare (temperatura adatta, scariche elettriche di un temporale, ambiente uniforme come quello d’uno stagno), si "trasformi" in una molecola di materia vivente, è necessario qualche cosa di molto, ma molto simile a quel "miracolo" che il buon Weisz si sente in diritto e in dovere, invece, di escludere categoricamente. Nemmeno dopo miliardi di tentativi da parte della natura si può immaginare che un evento del genere si verifichi spontaneamente, cioè casualmente; e il suo tentativo di fornire una logica post eventum, dicendo che, date una serie di circostanze fisiche e chimiche, la cosa "deve" verificarsi, è peggio che goffo: è palesemente truffaldino. Senza contare che uno scienziato non ha alcun diritto di ragionare in questo modo: non ha alcun diritto, cioè, di formulare delle "leggi", o, comunque, delle "costanti" della natura, deducendole retroattivamente da fatti che non è stato neppure in grado di spiegare esaurientemente, ma solo di spiegare parzialmente e ipoteticamente, per via d’indizi, congetture, e simili.

Una ipotesi resta sempre e solo una ipotesi, se si sostiene soltanto per mezzo di indizi e congetture, di probabilità e supposizioni: e onestà vuole che non si trasformi arbitrariamente una ipotesi, cioè una teoria, in un fatto. Invece, Weisz fa proprio questo, anzi, fa ancora di più, quando trasforma il supposto "fatto" in una "inevitabilità", vale a dire in una legge, quando scrive che dato quel particolare ambiente, la vita probabilmente "doveva" comparire; una volta formatasi la Terra, con le sue particolari caratteristiche chimiche e fisiche, è stato praticamente inevitabile che in essa in seguito si originasse anche la vita. Sorvoliamo sull’accostamento di quel "probabilmente" e di quel "doveva": un ossimoro che, all’Autore, passa del tutto inosservato. Se una cosa è probabile, vuol dire che non è detto che debba accadere, ma soltanto che potrebbe accadere. Ma si tratta di distinzioni troppo sottili per uno scienziato che s’improvvisa filosofo, anzi, teologo: gli sfugge la differenza fra probabilità e possibilità, distinzione che, pure, un fisico dovrebbe avere ben chiara.

Il fatto che un evento sia possibile, non significa che sia anche probabile: di fatto, esiste un grado di mera possibilità teorica, in un dato sistema fisico, che equivale alla impossibilità pratica, essendovi un altissimo grado di improbabilità che quel certo evento si verifichi. Si prenda il caso dell’entropia. In teoria, è possibile che le carte da gioco sparse sul tavolo, o mescolate a caso, si presentino, spontaneamente, nella sequenza esatta del mazzo ordinato, divise per tipo e per numero (quadri, fiori, ecc.; uno, due, ecc.); in pratica, è talmente improbabile, che lo si può tranquillamente considerare impossibile. Stessa cosa se parliamo dell’entropia spontanea in un determinato sistema chiuso: una volta che i fogli di un calendario siano stati staccati e portati via dal vento, è da escludersi del tutto che una serie di colpi di vento li rimetta al loro posto, ciascuno sopra quello che lo precede o che lo segue cronologicamente. Ancora un terzo esempio: possiamo immaginare un bambino, o, se si preferisce, un robot, che batta a caso i tasti di una tastiera per migliaia, milioni e, magari, miliardi di volte: ma prima che arrivi a comporre, non diciamo la Divina Commedia, o i Promessi Sposi, ma anche soltanto una breve, misera frase di senso compiuto, bisognerà aspettare che trascorrano bilioni di miliardi di anni, e ancora non sarà stato sufficiente.

Così stanno le cose riguardo alla formazione delle prime, e sia pur semplicissime, molecole organiche, a partire dalla materia inorganica: si tratta di un salto di inconcepibile complessità, che i tempi "storici" a disposizione, e anche un semplicissimo calcolo probabilistico, non arrivano a rendere verosimile in alcun modo, per quanti sforzi si facciano e per quanto si cerchi di darla a bere ad un pubblico impreparato. Il Sistema solare ha avuto origine circa 10 miliardi di anni fa; la Terra si è originata fra 5 e 4,5 miliardi di anni fa: ebbene, si tratta di tempi assolutamente ridicoli perché possa aver avuto luogo il passaggio suddetto. Tanto ridicoli, quanto sarebbe considerarli sufficienti perché il nostro robot arrivi a comporre la Divina Commedia battendo a caso sulla tastiera. Comunque, tornando alla tortuosità concettuale del Weisz, si noti come egli tenta di supportare una teoria con un’altra teoria, cosa di per sé scorretta: dopo aver affermato che, probabilmente, un pianeta deve produrre la vita da se stesso, in presenza di determinate condizioni fisiche e chimiche, poi, per dare maggior forza alla sua affermazione, aggiunge che se altri sistemi solari hanno pianeti le cui condizioni chimiche e fisiche sono simili a quelle dell’antica Terra, è probabile che la vita si origini anche su tali pianeti. Di nuovo, adopera l’espressione: "è probabile", e non: "è cosa certa": come egli stesso, involontariamente, ammette, qui viene utilizzata una mera possibilità teorica (di fatto, impossibile) per spiegare un’altra mera possibilità teorica (del pari impossibile in pratica). Un perfetto circolo vizioso, che si può replicare all’infinito, senza cambiare i termini del problema.

Quello che non finirà mai di stupirci è il fatto che i ragionamenti di questo tipo non sono rivolti ad un pubblico del tutto ignaro e impreparato, ma ad un pubblico qualificato: quello dei professori di scienze naturali, i quali, a loro volta, hanno il compito di rendere digeribili ai loro studenti simili sofismi. I professori non sono degli sprovveduti, non sono degli incompetenti (almeno si spera); e i loro studenti, dopotutto, sono dei ragazzi svegli, altrimenti non siederebbero sui banchi dei licei e delle aule universitarie. Come spiegare, allora, il mistero di un importante fisico e chimico, di fama internazionale, che scrive libri di testo per i licei, nei quali afferma delle cose insostenibili, nella certezza che tutti, dalle case editrici che li traducono e li pubblicano, ai professori che li adottano e se ne servono per svolgere le loro lezioni, agli studenti che studiano su di essi, le manderanno giù senza batter ciglio e senza minimamente avvedersi del trucco? L’unica spiegazione possibile è che, quando un paradigma culturale si insedia sulle cattedre e conquista la cultura "ufficiale", ogni senso critico individuale viene meno, si dissolve come nebbia al sole, e ciascuno, case editrici, professori, studenti, va avanti con il pilota automatico inserito, senza ragionare con la propria testa, senza farsi alcuna domanda che collida con il paradigma stesso. Si tratta di una gigantesca auto-limitazione del pensiero, per cui nessuno si prende la briga di ragionare al di fuori dei confini legittimi che sono stati tracciati sulla mappa concettuale politicamente corretta.

Ora, si trasporti questa constatazione dall’ambito delle scienze naturali a qualsiasi altro ambito del pensiero e della cultura: dalla filosofia all’arte, dalla storia alla politica, dalla pedagogia alla letteratura, e così via, e si avrà il prefetto ritratto della situazione culturale e intellettuale odierna: una situazione di perfetto appiattimento e asservimento del pensiero, quale mai s’è vista in passato…

Fonte dell'immagine in evidenza: Foto di Hal Gatewood su Pexels

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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