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Il fine ultimo dell’esistenza è tornare a Dio Quale è il fine della vita umana?

Quale è il fine della vita umana?

Di fronte a questa domanda esistono due maniere di porsi: negare che sia una domanda legittima, oppure prenderla in tutta la sua serietà. La prima posizione è quella del nichilismo; la seconda, dello spirito religioso. Questo è il vero spartiacque fra chi non crede in nulla e chi crede in qualcosa. Chi non crede in nulla giudica che sia una domanda priva di senso; chi crede in qualcosa, o è alla ricerca di qualcosa, ritiene che sia la domanda decisiva, dalla quale dipende tutto il resto.

Il fatto stesso di porsi questa domanda, o di accettarla, o, comunque, di sentirla come pienamente legittima, anzi, come la domanda decisiva, equivale a riconoscere che la vita umana, così com’è, come ci si presenta nella dimensione attuale, non è sufficiente a se stessa; che promette più di quanto possa mai mantenere, anche nel caso più fortunato; che rimanda a qualche cosa d’altro, a qualcosa dove quelle promesse troveranno risposta e piena attuazione. E la prima di tali promesse, naturalmente, è quella della vita eterna. Ma chi ci ha mai promesso una cosa del genere? Nessuno in modo esplicito; ma tutto, implicitamente. Le religioni fanno perno su questa promessa; ma non avrebbero potuto fare presa sugli individui e sui popoli, se quella domanda, quel desiderio, quell’ardente nostalgia di eternità, non fossero già presenti nel mistero dell’anima umana. Noi desideriamo la vita eterna perché, osservandoci, troviamo che questo desiderio era già in noi fin dall’inizio; e scopriamo, vivendo, che altri desideri brucianti — di bellezza, di amore, di verità, di giustizia — sono ugualmente presenti dentro di noi, senza essere stati da noi evocati: si presentano da sé, bussano alla nostra porta e ci chiedono di aprirla.

Questo è un punto centrale: il sentimento religioso è presente nell’anima umana anteriormente a qualsiasi costruzione storica; non è stato versato in essa dalle religioni: altrimenti queste da dove sarebbero sorte? E come mai non si è trovato un solo popolo privo di religione? Le religioni sono un prodotto e non la causa del sentimento religioso. Nell’Europa centro-orientale, nello spazio di due o tre generazioni, è stato fatto un esperimento: quello di sradicare la religione. Sono stati chiusi i monasteri e le chiese, è stato soppresso il clero, sono stati perseguitati i preti, le suore e i semplici fedeli, sovente fino alla deportazione e alla morte. Si pensava di aver raggiunto lo scopo, e sostituito il culto dell’uomo alla religione: ma il sentimento religioso non era morto, covava sotto la cenere, ed è riemerso con prepotenza; ed è stato il esso, indomabile, invincibile, a riedificare le chiese e i monasteri in Russia, in Polonia, in Romania, eccetera, non appena ciò è stato possibile.

Nell’Europa occidentale, e, ancor più, negli Stati Uniti d’America, è stato fatto, ed è tuttora in corso, l’esperimento opposto e tuttavia complementare: distruggere la religione non già assalendola frontalmente, ma inglobandola nella mentalità materialistica moderna e negli stili di vita consumisti ed edonisti. Staremo a vedere come finirà; anche in questo caso, peraltro, vi sono forti indizi che il fuoco del sentimento religioso continui a covare sotto la cenere. Quando esso sembra aver raggiunto il grado zero, improvvisamente risorge, magari in forme aberranti, con la tentazione del fondamentalismo, magari di provenienza esterna alla nostra civiltà, e in palese contraddizione con essa. Ma tant’è: una forza costituiva della natura umana non sopporta di essere ingabbiata, imprigionata, negata, derisa, sbeffeggiata, e si prende, presto o tardi, la sua rivincita; cacciata dalla porta, ritornerà dalla finestra. E non è detto che ritorni nella forma pura e spirituale che possedeva in origine. Tutti i rivoluzionari conoscono questo segreto: che l’umanità non può fare a meno di una religione. Perfino Robespierre tentò di instaurarne una, il culto dell’Essere Supremo, dopo che gli enragés si erano scatenati nell’opera furibonda della scristianizzazione.

Al cuore del sentimento religioso c’è, dunque, la domanda: che cosa si deve fare della propria vita? Qual è la sua destinazione finale? Fra coloro che hanno formulato una risposta chiara e coerente, spicca il pedagogista Comenio (Jan Amos Komensky: 1592-1670), esponente dell’Unione dei Fratelli Boemi, poi rifugiato in Olanda, e considerato uno dei maggiori pensatori ed educatori del Seicento. La sua risposta è chiara, netta, limpidamente argomentata: si vive sulla terra per trovare la strada del cielo, del ritorno a Dio. Anche se la sua prospettiva, ancora pienamente rinascimentale, è pervasa da un ottimismo filosoficamente non giustificato, e soffre di una grave sottovalutazione dei fattori contrari al suo progetto di educazione universale (cfr. il nostro precedente articolo: «La pedagogia di Comenio ci interroga se sia giusto insegnare tutto a tutti», pubblicato sul sito di Arianna Editrice il 12/12/2007), nondimeno, nel delineare lo scopo ultimo dell’educazione e della stessa vita umana, egli ci appare come una delle menti più lucide e illuminate della sua epoca.

Secondo Comenio, l’uomo è destinato a soggiornare in tre successive dimore: nell’utero materno, dove si sviluppa gradualmente la sua forma umana; sulla terra, dove realizza il suo desiderio di conoscenza e di armonia della vita morale; e infine in cielo, dove il suo destino si compie interamente, mediante il ritorno a Dio. Così, dunque, egli scriveva nella sua Didactica magna (in: Opere, a cura di M. Fattori, U.T.E.T., Torino, 1974):

Tutti coloro che hanno il compito di formare gli uomini debbono educarli a vivere memori della loro dignità e della loro eccellenza: cerchino dunque di indirizzare i loro sforzi a questo sommo scopo.

La stessa ragione ci indica che una creatura tanto eccelsa è destinata ad un fine più eccelso di tutte le altre creature: a godere in eterno la gloria e la beatitudine più assoluta congiunta con Dio, sommità di ogni perfezione, gloria, beatitudine.

Benché questo appaia chiaramente dalla Sacra Scrittura, e noi crediamo fermamente che sia così, non sarà tuttavia inutile osservare, sia pure di sfuggita, in quanto modi Dio ci ha rappresentato in questa vita il nostro al di là. Anzitutto nella stessa creazione. Infatti all’uomo non ordinò semplicemente di esistere, come alle altre creature, ma dopo solenne consiglio formò il suo corpo quasi con le proprie dita, e gli ispirò l’anima direttamente da sé.

La nostra costituzione ci mostra che quanto ci è dato in questa vita non è sufficiente. Noi infatti viviamo tre specie di vita, la vegetativa, l’animale e l’intellettuale o spirituale. La prima non esce mai fuori dal corpo, la seconda si estende alle cose con le azioni sensitive e motori, la terza può esistere separatamente, come mostrano gli angeli. Ma poiché è evidente che questo supremo grado della vita è in noi oscurato e ostacolato dai precedenti, ne segue di necessità che deve esservi un luogo ove sarà attuata nella sua pienezza. Tutto ciò che facciamo o soffriamo in questa vita mostra che noi non raggiungiamo qui il fine ultimo, ma tutte le nostre azioni, come noi stessi, tendono altrove. Ciò che siamo, facciamo, pensiamo, diciamo, inventiamo, conosciamo possediamo, è solo come una scala, di cui, salendo sempre più innanzi, raggiungiamo gradini più alti, ma non guadagniamo mai la vetta.

In tutte queste cose c’è solo una progressiva gradualità: anche l’intelligenza delle cose inizia a poco a poco a scintillare, come il raggio luminoso dell’aurora che emerge dalle tenebre profonde della notte; poi in tutta la vita, sempre di più aumenta la sua luce (se uno non si abbrutisce del tutto) fino alla morte. Egualmente le nostre azioni sono sull’inizio deboli, inabili, rozze e confuse; poi, a poco a poco, insieme alle forze del corpo, si esplicano le virtù dell’animo, e finché viviamo (salvo colui che è preso dal torpore e vive come morto) non mancano le cose da fare, da proporsi, da tentare: tutte le facoltà, in un animo generoso, tendono sempre più in alto, senza tuttavia raggiungere un termine ultimo. Infatti in questa vita non è possibile raggiungere alcun fine, né dei nostri desideri, né dei nostri sforzi.

Ovunque uno si volga, imparerà questo per esperienza. Se uno ama la potenza e la ricchezza, non troverà ove poter saziare la sua fame, anche se possiede l’universo mondo: il caso di Alessandro è esemplare. Se uno si abbandona ai piaceri, per quanto i sensi si immergano in fiumi di delizie, tutte le cose si consumano, e il desiderio si volge da un oggetto all’altro. Se uno applica il suo animo allo studio della sapienza, non troverà mai fine: quanto più uno sa, tanto più comprende che gli mancano molte cose da sapere. Ben disse, quindi, Salomone che non si sazia l’occhio di vedere, né l’orecchio di udire (Eccl., 1, 8).

Ma questo è più chiaro a noi cristiani, dopoché Cristo, figlio di Dio vivo, mandato dal cielo per restaurare in noi la perduta immagine di Dio, mostrò questo col suo esempio.

Concepito e dato alla luce, girò tra gli uomini: morto, risuscitò e ascese al cielo, né la morte lo domina più. Egli è detto, ed è, nostro precursore (Ebr., 6, 20), primogenito tra i fratelli (Rom., 8, 29), capo della Chiesa (Ef., 1, 22) e archetipo di tutti coloro che debbono essere riformati ad immagine di Dio (Rom., 8, 29). Come egli non fu qui per restare, ma per passare alle eterne dimore, una volta portato a termine il suo compito, così noi, che ne condividiamo la sorte, non dobbiamo rimanere qui, ma migrare altrove.

L’ottimismo, invero assai poco calvinista,di Comenio, consiste nel fatto che egli sembra dare quasi per scontato che gli uomini si muovano secondo questa linea evolutiva, che li porta naturalmente dal grembo materno alla dimora del Signore, attraverso una successiva realizzazione di ciò che essi sono chiamati ad essere. Qua e là egli pare sfiorato da un dubbio, ad esempio quando specifica che le facoltà umane tendono sempre verso l’alto, almeno in un animo generoso (ammettendo che non proprio tutti gli esseri umani provano questa spinta, o attrazione, verso le altezze); oppure quando afferma che l’uomo, procedendo nel suo cammino di perfezione, vede sempre di più la luce divina sul proprio cammino, salvo colui che è preso dal torpore e vive come morto.

Comunque, l’impostazione complessiva della questione del destino ultimo dell’uomo, da parte di Comenio, ci pare sostanzialmente condivisibile; dispiace soltanto che egli non abbia colto, o, quanto meno, che non abbia evidenziato a sufficienza, la condizione "aperta", problematica e drammatica (nel senso tecnico della parola) dell’uomo, alla cui libertà morale è demandata la scelta di cosa fare della propria vita. L’evoluzione verso il bene, verso la luce, verso Dio, non è affatto scontata; se lo fosse, la vita sarebbe una specie di passeggiata o di viaggio turistico ben programmato e dall’esito scontato, la cui metà è immancabilmente riservata a tutti i partecipanti. Ma la verità è che nel mistero del libero arbitrio è inscritta la possibilità, per l’uomo, di dire "no" a Dio, e, dunque, di fallire clamorosamente lo scopo della sua vita, sprecando risorse e talenti in un continuo, insensato vagabondare da un lido all’altro, senza ragione che non quella della ricerca inesausta e frustrante di beni illusori o, peggio, nel perseguimento consapevole del male.

Certo che l’uomo è chiamato a tornare a Dio, perché gli enti sono attratti necessariamente verso l’Essere dal quale hanno avuto origine; ma in questo movimento non vi è nulla di meccanico, di scontato, di necessario. Se così non fosse, l’uomo non sarebbe libero: e allora egli non sarebbe la creatura perfetta, creata da Dio a propria immagine, di cui parla lo stesso Comenio, al principio del suo discorso. Quanto al fatto che la ragione stessa ci mostra che siamo chiamati ad un fine più eccelso di tutte le altre creature, è una osservazione indubbiamente giusta, ma che andrebbe corretta con l’osservazione, altrettanto vera, che molti uomini non si servono affatto della loro ragione naturale, ma vivono all’insegna di un edonismo e di una superficialità pressoché totali. Comenio, come Socrate, sembra sopravvalutare il ruolo della ragione e presumere che, a patto di scorgere, mediante il lune della ragione, la via del bene, sia impossibile, o molto difficile, non percorrere la strada che conduce ad esso. Ma il fatto è che non solo molti uomini sembrano dimentichi della loro vocazione alle altezze; non solo sembrano sprovvisti, o incapaci, di discernimento rispetto alla stessa legge naturale; ma, pur vedendola, non sempre sono capaci di seguirla e di perseverare in essa. E ciò per la buona ragione che, senza il soccorso della Grazia divina, un simile percorso finisce per rivelarsi, praticamente, impossibile, anche se teoricamente, forse, non lo sarebbe. Dante si smarrisce nella selva oscura e non è capace di salire il colle luminoso, non perché non veda la via del bene, ma perché le sole forze umane non sono bastanti alla salvezza: l’uomo naturale non può redimersi da solo, anche se la ragione gli mostra in maniera veritiera la via da seguire.

Pur con questi limiti, la prospettiva delineata da Comenio ci sembra, nel complesso, talmente giusta, che possiamo solo deprecare come oggi, nel nostro progetto educativo, sia a livello scolastico, sia, prima ancora, a livello familiare (e, horribile dictu, anche ecclesiale), essa sia stata quasi obliata…

Fonte dell'immagine in evidenza: Foto di Chad Greiter su Unsplash

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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