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Abbiamo bisogno di discernimento spirituale per partecipare alla vita divina

La civiltà moderna non rappresenta soltanto, come volentieri si dice e si ripete, un autentico deserto spirituale; è qualcosa di assai peggiore: il luogo della negazione della vita spirituale, e, dunque, della rottura permanente e volontaria del rapporto di amore fra l’uomo e Dio — e perciò, inevitabilmente, anche dell’uomo con se stesso. Solo se si pone in armonia con Dio, infatti, l’uomo è in pace con se stesso; ma, affinché questo sia possibile, è necessario che la sua vita spirituale — che è la vita dell’anima — sia costantemente collegata con la sua sorgente, che è la dimensione soprannaturale. Se l’uomo dimentica di essere una creatura chiamata alla vita soprannaturale, e partecipe, così, della stessa vita divina; se altro non crede, né spera, di se stesso, che di essere un animale un po’ evoluto, nato dal caso e diretto verso il nulla: allora non può non vedersi come un animale malato e infelice, la cui ragione si è costituita in conflitto con i suoi istinti e, sfuggendo al suo controllo, lo trascina inesorabilmente verso l’autodistruzione. Senza un ancoraggio nel soprannaturale, la ragione umana diventa una maledizione; non solo: diventa l’alibi per giustificare, con ragionamenti capziosi e sofistici, qualunque capriccio e qualunque abnormità vengano suggeriti all’uomo dagli istinti che salgono dalle zone più basse dell’anima.

Ma l’uomo tecnologico, l’uomo immerso nel diabolico consumismo, che sempre brama e teme qualcosa, che è sempre proteso al di fuori di sé, dimentico del suo centro spirituale e della sua autentica vocazione, sa ancora di avere un’anima? Pare proprio di no, visto che neppure davanti all’insorgere e all’aggravarsi del suo malessere spirituale ne sa riconoscere la causa, e, per cercare un po’ di sollievo, si affida al quella bassa forma di magia nera che è la psicanalisi, invece di fare chiarezza in se stesso, affidandosi a chi sa e può aiutarlo (ne abbiamo già parlato in alcuni articoli precedenti, fra i quali: «Una forma di magia nera: la psicanalisi»; «Confessione o psicanalisi? Il superuomo in cerca di una guida», pubblicati sul sito di Arianna Editrice rispettivamente il 10/05/07 e il 23/11/2012, e poi ripubblicati su «Il Corriere delle Regioni»). È pur vero che, nella società odierna, la figura del direttore spirituale ("direttore", si badi, o "maestro": non semplice consigliere) sta diventando sempre più rara e oggettivamente difficile da trovare; proliferano, invece, i maestri fasulli e le "guide" ciarlatanesche, dalle quali bisognerebbe guardarsi in tutte le maniere, per il danno immenso che possono provocare (innanzitutto a livello spirituale e morale, ma anche a livello economico).

Alcune riflessioni svolte dal padre Charles André Bernard nel suo libro «L’aiuto spirituale personale» (Roma, Libreria Editrice Rogate, 1978, 1994, pp. 40-43), pur essendo dirette propriamente alla figura del direttore spirituale, in senso cattolico ed ecclesiastico, ci sembra che contengano utilissima materia di chiarificazione per qualsiasi persona di retto sentire, la quale sia assetata di una Verità superiore a quella puramente umana:

«… L’impegno ad entrare nell’esperienza spirituale richiede una conoscenza di sé: come attuare la vita di grazia senza conoscere le strutture psicologiche in cui essa si inserisce?

Qui possiamo individuare la differenza fondamentale fra il consigliere psicologo e il padre spirituale. Il primo aiuta, innanzitutto, a conoscere le condizioni psicologiche della personalità e in particolare gli impedimenti ed i complessi che ostacolano la piena realizzazione di sé; soltanto dopo questo risanamento psicologico si pone il problema dell’impegno spirituale, che per lo psicologo rimane facoltativo. Per il padre spirituale, invece, è l’impegno spirituale serio e deciso che porta alla manifestazione e alla scoperta delle debolezze e distorsioni psicologiche. Di queste anch’egli dovrà occuparsi, ma sempre in modo subordinato alla ricerca e all’adempimento della volontà di Dio. Criterio determinante rimane la capacità del figlio spirituale di vivere ed agire secondo lo Spirito di Dio.

Un altro campo dell’aiuto illuminante del pare spirituale riguarda il discernimento spirituale. La differenza tra il discernimento e l’illuminazione […], è parallela a quella che intercorre fra la decisione spirituale e lo sviluppo vitale. La scelta, o per dirla con S. Ignazio, l’elezione, va effettuata con i criteri spirituali che permettono di discernere  qual è la volontà di Dio e così orientare la propria vita nella direzione voluta dal Signore. […]

Non ci può essere opposizione tra vita evangelica e realizzazione umana, né questa ultima va misurata secondo i nostri criteri, come se, seguendo il detto degli antichi sofisti, l’uomo fosse "la misura di ogni cosa". […]

La realizzazione vera della persona singola deriva dall’attuazione della sua vocazione personale.  […] Ciò significa che la vocazione va considerata come una realtà che, a modo di una pianticella, deve crescere e quindi ha bisogno di essere protetta, nutrita, sorretta. Come la pianta, la vocazione possiede un dinamismo interiore, ma risente delle condizioni esterne che provocano reazioni vitali.  […]

Lo sviluppo della personalità non è esente da tensioni o difficoltà. Anche nei casi più semplici esistono tensioni fra le varie dimensioni dello sviluppo personale: ogni uomo ha diritto a far fruttificare i  talenti personali  e le forze corporali e intellettuali, ma, allo stesso tempo, ha bisogno degli altri e della società per realizzarsi pienamente e, soprattutto, ha bisogno dell’amore vero nelle sue varie manifestazioni. Ora, queste necessità possono entrare in conflitto perché l’amore egocentrico deve subordinarsi all’amore oblativo. Oltre a questo, la  vita impone scelte decise: professione, scelta del congiunto, rinuncia a desideri poco accessibili ecc.

Nella vita spirituale si aggiunge una tensione più radicale: l’amore di Dio, che è il valore supremo, tende a sottomettere a sé tutte le altre tendenze per realizzare l’unità integrativa di tutta la persona.»

Il discernimento spirituale, dunque, non è una espressione generica e buona per tutte le stagioni; non indica una qualità propriamente umana, bensì un tipo di attività dello spirito che si realizza quando l’anima è entrata in sintonia con la vita divina; quando, magari sotto la guida di un vero maestro spirituale (che può essere anche il Maestro interiore) si abbandono all’azione della Grazia ed esce, per così dire, dai limiti del mondo naturale, entro i quali è confinata anche la ragione umana, e vede spalancarsi innanzi a sé gli orizzonti infiniti del Divino.

Discernere spiritualmente, quindi, equivale a riconoscere come "vere" o "false", "buone" o "cattive", "giuste" o "sbagliate", quelle cose che, considerate da un punto di vista prettamente umano, possono anche risultare sostanzialmente indifferenti, o, addirittura, mostrarsi sotto una luce ingannevole, sì da presentarsi come il contrario di ciò che sono realmente. In una logica puramente umana, e cioè, in ultima analisi, utilitaristica ed egoistica, perfino una azione malvagia può prendere le apparenze di una cosa buona; perfino toglierla vita a un essere umano, come nel caso dell’aborto o dell’eutanasia, può nascondersi sotto le apparenze di una "buona" azione, laddove si ponga attenzione soltanto ad un aspetto della realtà: il fatto che il nascituro abbia una qualche malformazione, ad esempio; oppure il fatto che il malato terminale chieda lui stesso di poter finire i suoi giorni mediante un atto "pietoso" dei familiari e dei medici.

Per uscire dalla palude del relativismo, dove tutto è uguale a tutto e dove le ragioni dell’uno si contrappongono frontalmente a quelle dell’altro, con il risultato di una instaurazione della legge del più forte, del più astuto, del più fornito di beni materiali, la ragione stessa, se rettamente utilizzata, indica la sola, possibile via d’uscita nel riconoscimento d’una Verità superiore, anzi, per dir meglio, della Verità assoluta, della quale le piccole verità parziali, che ciascuno di noi sfrutta e brandisce come altrettante armi per giustificare il proprio egoismo e la difesa del proprio cieco interesse, appaiono per quello che realmente sono: dei pallidi, sbiaditi e, soprattutto, ingannevoli riflessi di quell’unica verità, che sola è vera per se stessa, buona e giusta e bella in se stessa, e non per altro da sé o per qualsiasi ragione che stia al di fuori di essa.

Ma come si fa a sviluppare il discernimento spirituale, se si ignora perfino — come tanto spesso accade nella civiltà moderna — di possedere un’anima soprannaturale; di provenire da un progetto che esiste fin da prima che il mondo incominciasse a esistere; e di essere stati scelti e chiamati, uno per uno, a compiere e realizzare lo scopo di glorificare, nella propria vita, nei propri pensieri e nelle proprie opere, la Verità, la Bontà, la Giustizia e la Bellezza, da cui ogni cosa ha avuto inizio, e alla quale ogni cosa farà infine ritorno?

La prima forma di consapevolezza, pertanto, dovrà essere proprio questa: riconoscere l’inganno del materialismo, del relativismo, dell’utilitarismo e di tutte le filosofie e le pratiche di vita basate sull’egoismo, sull’immanentismo e sull’autosufficienza dell’uomo; prendere atto della piccolezza, della fragilità e della labilità della natura umana, considerata esclusivamente sotto l’aspetto materiale; aprire la mente e il cuore alla dimensione della trascendenza (che è cosa ben diversa da certe confuse pratiche pseudo spirituali, malamente importate o imitate dall’Oriente, e basate non sull’apertura al divino, ma sulla supposta auto-divinizzazione dell’uomo).

Una volta fatto ciò, si tratta di allenare la vita dell’anima al colloquio costante, fiducioso, fervido, con Dio: cioè alla preghiera, nelle varie forme della preghiera "tradizionale", della locuzione interiore, della contemplazione, della meditazione, della lettura mistica delle Scritture; cosa, quest’ultima, evidentemente diversa da una lettura puramente "umana", storica e critica, anche se a questa spettano pure uno spazio e una dignità specifici, però su di un piano differente, quello dello studio e dell’approfondimento intellettuale. Peraltro, per l’uomo che cerca Dio, non è mai possibile separare totalmente le due cose, la fede e la ragione, come hanno visto tutti i grandi teologi, da san Paolo ad Agostino, da Tommaso d’Aquino a Kierkegaard. Solamente i teologi moderni, imbevuti di razionalismo e scetticismo, credendo d’aver fatto chi sa quale meravigliosa scoperta, si sono scostati dalla strada tracciata dai loro predecessori: col risultato che, un poco alla volta, togliendo un "mito" qua, un dogma là, hanno finito per ritrovarsi in mano non già la Rivelazione "sfrondata" dalle sedimentazioni posteriori, e abusive, ma un guscio vuoto me inerte, dove la Verità si è eclissata definitivamente nel gran mare del dubbio e della sospettosità permanente (ah, quanto male hanno fatto alla dimensione spirituale dell’uomo i moderni "maestri del sospetto"!), e dove la fede non è che una parola senza più un reale significato.

La vita soprannaturale, dunque, finché siamo legati, mediante il corpo, alla dimensione del finito e del contingente, è, essenzialmente, quella dell’anima, che si apre alla Grazia e ne riceve i doni copiosi, anche attraverso la mediazione di altri spiriti umani e delle cose stesse: da questo punto di vista, tutto è Grazia e tutto parla all’uomo dello splendore di Dio. Ma il corpo, appunto, e la nostra natura materiale, ci attirano verso la terra, verso il dominio delle passioni e degli istinti: ciò non è male in se stesso, ma può diventarlo, se tali istinti vengono "naturalizzati", ossia se vengono recepiti come una forza di per sé giusta e irresistibile, mentre invece è proprio lì che l’anima deve fare ricorso a tutte le sue capacità di discernimento spirituale. Non tutto è buono, quel che proviene dalla natura: se così fosse, il Peccato originale sarebbe soltanto una pia leggenda, e la stesa Redenzione diverrebbe superflua, perché l’uomo avrebbe la possibilità di giungere alla Verità e alla perfetta santità con le sue sole forze, senza alcun bisogno della Grazia. Non vi sarebbe bisogno della protezione degli Angeli, né dalla intercessione della Vergine Maria: ciascuno di noi, da se stesso, potrebbe prendere in mano la propria direzione spirituale, vincere qualunque tentazione, realizzare compiutamente il disegno divino a proposito dell’uomo. Ma questo, ripetiamo, renderebbe inutile quel progetto, anzi, renderebbe inutile Dio stesso: perché sarebbe l’uomo, a quel punto, a diventare il Dio di se medesimo, al di sopra e al di là del quale non vi sarebbe più nulla, né esisterebbe la necessità, per lui, di cercare qualche cosa d’altro. È il vecchio, antichissimo peccato di superbia: il peccato di Adamo ed Eva. È la prima e fondamentale forma della umana concupiscenza, dalla quale derivano le altre due: la lussuria e l’avarizia/cupidigia (come adombrato da Dante Alighieri nella allegoria delle tre fiere: il leone, la lonza e la lupa). Anche Cristo, nel deserto, fu tentato dal Diavolo di mettere alla prova l’amore di Dio: una tentazione della superbia, che seppe respingere con forza…

Fonte dell'immagine in evidenza: Foto di Chad Greiter su Unsplash

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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