Ma cristianesimo deve fare rima per forza con democrazia?
6 Marzo 2016
Ma l’idea di fondo del Sillabo è proprio così errata come da sempre si ripete?
8 Marzo 2016
Ma cristianesimo deve fare rima per forza con democrazia?
6 Marzo 2016
Ma l’idea di fondo del Sillabo è proprio così errata come da sempre si ripete?
8 Marzo 2016
Mostra tutto

Anche se costruisse il Paradiso in terra, l’uomo sentirebbe la nostalgia dell’assoluto

Henri Petiot, in arte Danie-Rops (Épinal, Lorena, 19 gennaio 1901-Aix-les-Bains, 27 luglio 1965) è uno scrittore francese del quale non si è mai parlato molto, benché abbia pubblicato una decina di libri piuttosto importanti e sia stato membro dell’Accademia di Francia; o meglio, è stato conosciuto e apprezzato — e usiamo la forma passata non a caso – in una sorta di nicchia culturale, quella cattolica, che in Francia, dopo il 1870 e l’avvento della Terza Repubblica, è stata sempre più marginalizzata e ghettizzata dalla cultura dominante, radicale e progressista, massonica e neo-illuminista. Anche se non ai livelli quasi inverosimili che il fenomeno ha raggiunto in Italia fra il 1945 e il 1990, e che, in parte, si prolunga ancora ai nostri giorni, pure in Francia vi è stata, dopo la Seconda guerra mondiale — e, anzi, in una certa misura, anche prima, nel ventennio fra le due guerre — una egemonia culturale della sinistra, in tutte le sue forme, ma specialmente del marxismo, compresi i suoi rami "eretici" (trotzkismo, maoismo, eurocomunismo), sicché le altre aree culturali sono state spinte in un angolo e quasi ridotte al silenzio, mano a mano che dal "centro" (cattolico, appunto) ci si sposta verso la destra, fino alla demonizzazione implacabile, al linciaggio morale sistematico e alla persecuzione giudiziaria riservate ai "negazionisti" dell’estrema destra.

Nel suo romanzo «La spada di fuoco», del 1939, Daniel-Rops, con accenti drammatici e intuizioni folgoranti che ricordano l’opera di Dostoevskij, e specialmente le tematiche sviluppate dal grande scrittore russo ne «I fratelli Karamazov», ma soprattutto ne «I demoni», ha tracciato una vivida e toccante descrizione del turbamento e dello sbandamento morale, oltre che politico, che ha travagliato la società francese negli anni precedenti la Seconda guerra mondiale e che ne ha preparato la fulminea caduta del 1940. Ma quel che l’Autore dice della società francese degli anni Trenta del XX secolo, si può estendere, coi dovuti distinguo, all’intero continente, anzi, all’intero ambito della civiltà moderna, e non solo relativamente a quel preciso contesto storico-culturale, visto che i problemi nei quali si dibattono i personaggi delle sue opere — problemi di ordine politico, sociale, ma anche spirituale, morale, religioso — sono più o meno gli stessi con i quali dobbiamo fare tuttora i conti noi, oggi, all’inizio del terzo millennio. Problemi non risolti, che si accumulano l’uno sull’altro e che s’incancreniscono, si infettano, si decompongono, senza che la nostra organizzazione sociale, la nostra cultura e la nostra vita interiore (ammesso e non concesso che ne abbiamo ancora una) sappia dare ad essi una risposta, anzi, rispetto ai quali stiamo sprofondando sempre di più nella palude dell’incertezza, dell’impotenza e dello scoraggiamento.

Una delle questioni chiave, che l’uomo moderno non riesce a risolvere con gli strumenti intellettuali e spirituali che la civiltà odierna gli mette a disposizione, è quello relativo alla presenza del male morale, dell’ingiustizia, dello sfruttamento, e alla possibilità di riuscire ad affrontarla, se non a risolverla, in maniera razionale e sistematica, sì da poter almeno intravedere l’alba di un giorno in cui l’umanità potrà vivere in pace e in armonia sulla terra, assicurando a tutti un lavoro, un po’ di terra per vivere, un po’ di speranza per sognare. Oppure ci dobbiamo rassegnare a una perenne guerra di tutti contro tutti, a una darwiniana lotta per la vita, nella quale valori e ideali vengono travolti dall’egoismo e dalla legge del più forte, senza neppure l’ombra di un progresso morale?

C’è un dialogo, nel capitolo XIV del romanzo di Daniel-Rops «La spada di fuoco», nel quale viene dibattuta tale questione (titolo originale: «L’êpêe de feu», 1939; traduzione dal francese di Cesare Giardini, Milano, Arnoldo Mondadori Editore, 1941, pp. 296-298):

«"Certo voi non avrete mai sentito in voi, per voi, il desiderio della religione"?

"Non credo. Non so neanche che cosa vogliate dire."

"E tuttavia voi amate gli uomini, perché, tutto sommato, è per essi che…"

"Oh, per essi…"

"Perché esitate a dirlo? Voi non dovete vergognarvi di quello che avete fatto. Vi confesserò anzi che, senza conoscervi, vi ammiravo."

"Oh! non ne vale la pena, credetemi".

Seduto sullo sgabello che aveva avvicinato alla sedia, a sdraio, non aveva nessuna voglia d’abbreviare quella visita che, di prim’acchito, aveva pensato dovesse essere brevissima e di pura convenienza.

"Ma insomma – riprese per continuare sullo stesso terreno – voi siete proprio certo d’aver ragione? Non credete che il fatto religioso potrebbe scomparire? Perché la società di domani non dovrebbe assistere alla fine di questo ‘aroma di decomposizione’, come dice Marx?"

"Si può sempre scommettere. Se qualcuno mi dicesse: "Sei sicuro che in una società perfetta, nella quale le classi saranno eliminate e il disordine impossibile – vedete che vi faccio la parte migliore – ci saranno ancora delle persone non soddisfatte di questo mondo, che guarderanno altrove, terrei la scommessa. Anche a prezzo d’uno sconvolgimento totale, fors’anche di milioni di martiri."

"Di martiri? perché?"

"La vostra società non può stabilirsi che sulle nostre rovine. Bisognerà pure che voi abbattiate la nostra ultima fortezza. Voi comunisti, cominciate col dirci che noi non siamo che dei malati o dei primitivi; il vostro regno ci salverà da noi stessi. Ma per stabilir questo regno, bisognerà sacrificare la nostra stessa esistenza. Non importa. Rimarrà sempre qualcuno per tenere in serbo la chiave del tempio. E costoro ridiranno quello che noi diciamo ora. Ve l’ho detto, tengo la scommessa."

"Non è che una scommessa."

"Ma voi stesso ne fate testimonianza."

"Io?"

Egli guardò fissamente quel magro volto indecifrabile.

"Perché avete compiuto quel gesto che io ammiro? Perché riprovavate questo mondo pieno d’ingiustizia. Perché non potevate più accettare d’esserne il beneficiario. Voi volete trasformare il mondo del disordine. E dopo?"

"Dopo che cosa?" domandò Gianluigi, che udiva dietro le frasi di Bernardo Capart le interrogazioni ansiose d’Abele: mondo d0ingiustizia, mondo di disordine…

"Ammettete che questa società che voi aspettate, nasca. Ma quando avrete modificato la ripartizione delle ricchezze, il possesso delle fabbriche, il meccanismo dello Stato, e qualcos’altro ancora, credete che l’uomo sarà migliore? Ci saranno perciò meno violenze, meno omicidi, meno adulteri?"

"Non ci sarà più il peso del denaro che grava sui poveri".

"Forse i ricchi che voi avete conosciuto, pel fatto d’essere protetti, erano meno spregevoli? E poi… Quand’anche aveste ottenuto tutto questo, quand’anche riusciste a rendere migliori gli uomini, non già migliorando la società, ma ottenendo da essi uno sforzo, non so come, rimarrà sempre qualche cosa per cui voi non troverete nessuna soluzione."

Gianluigi l’interrogò con lo sguardo. Bernardo spiegò, con una parola e con voce secca:

"La morte."

"È troppo facile servirsi di questa vecchia paura. Sorpasseremo la morte con tutto il resto."

"Ne siete certo?"

"La morte, al servizio ‘causa che sia giusta…"

"Giusta. E umana, non è vero?"

"Se volete."

Tacque, stranamente colpito, con una gran voglia d’interrompere il colloquio e, nello stesso tempo, appassionatamente curioso di spingerlo sino alle sue estreme conseguenze.

"Io non chiedo alla Rivoluzione di sopire le mie inquietudini né di darmi la felicità. Lascio questo compito alle vostre religioni"."

Bertrando ebbe un sorriso nel quale non sarebbe stato difficile sorprendere un po’ d’incredulità e d’ironia, ma temperate dalla bontà;: egli aveva l’aria di considerarlo come un bambino che fa lo spavaldo.

"Ho spesso pensato a quei comunisti che si sono uccisi: Esenin, Majakovskij, »altri ancora. Capite il loro gesto, voi? Non è più la morte col gruppo, ma contro il gruppo."

"Vili, transfughi."

"O chiaroveggenti. Per credervi liberi, voi dovete negare i problemi. Dio, la morte, il destino, tutto. Voi non avete trovato l’umano dove lo cercate, esso non è che dove sorpassa se stesso."

"Voi non tenete alcun conto del sacrificio di milioni d’uomini…"

Bertrando l’interruppe con un gesto.

"Conosco l’argomento di cui state per servirvi. So: noi siamo in uno stato intermedio, dove il meglio e il peggio si confondono. Io non nego la grandezza più di quanto pensi a valermi contro di voi dei delitti. Ma tutto sarà deciso dopo. E dopo, dovremo scegliere."

"Scegliere?"

"Tra l’uomo che sarà l’ultimo scopo di se stesso e l’uomo che cercherà il proprio scopo."»

La modernità, in effetti, si caratterizza, fra le altre cose, per la fiducia, o, comunque, per la volontà, da parte dell’uomo, di prendere in mano il proprio destino; di voler tracciare il solco del proprio futuro; di dare un senso immanente, dall’interno, alla sua storia, senza più "delegarlo" a Dio; ma proprio in tale progetto egli sembra aver fallito, e non essere riuscito ad avvicinarsi d’un passo alla meta, per quanti progressi tecnici egli possa aver realizzato. Anzi, sono proprio quei progressi che hanno gettato nuove ombre sul domani, sempre più fosche, aggiungendo nuovi problemi e inedite minacce agli antichi: la manipolazione del Dna, la clonazione, le varie tecniche di fecondazione artificiale, la graduale sostituzione dell’uomo da parte delle macchine, la minaccia di una guerra nucleare, l’inquinamento e la devastazione ambientale, il cambiamento climatico, la sconfitta delle vecchie malattie ma l’insorgere di nuove, non meno paurose, e l’indomabilità di altre, come i tumori: tutto questo ha fatto sì che l’uomo moderno, assai più ambizioso e spregiudicato dei suoi predecessori, sia, però, minacciato da pericoli esterni, in parte suscitati da lui stesso, ma anche da una crisi interiore, che si manifesta in depressione, angoscia, schizofrenia, tendenza al suicidio, abuso di sostanze stupefacenti, frenesia sessuale e disamore generale per la vita, evidente già dal crollo demografico nei Paesi ove maggiore è stato il progresso della modernità.

L’uomo moderno tende ad attribuire alla mancata soluzione dei vecchi problemi di sopravvivenza, ed all’insorgere di nuove minacce provocate dalla tecnica stessa, la profonda inquietudine che lo travaglia; e si affida, per contrastarla, ad altre soluzioni di tipo "tecnico", come la psicanalisi. Raramente gli viene in mente che tale inquietudine potrebbe avere una diversa origine: che potrebbe essere, in parte, costituiva della natura umana, e, in se stessa, tutt’altro che negativa, in quanto gli ricorda la sua vocazione soprannaturale e lo richiama al suo destino ultraterreno; in parte, venire dall’inconscio senso di colpa che egli ha introiettato per aver preteso di sostituirsi a Dio e aver abusato, verso se stesso e verso gli altri esseri viventi, del potere che la tecno-scienza gli ha messo nelle mani. Eppure, noi crediamo che la chiave del problema sia precisamente qui. Pertanto, alla domanda se l’uomo, qualora potesse risolvere tutti i suoi problemi materiali, mediante la ragione e la scienza, non proverebbe più inquietudine e si sentirebbe finalmente appagato e in pace con se stesso, crediamo si debba dare una risposta negativa (cfr. il nostro articolo: «La sofferenza è una parte essenziale della vita o qualcosa che bisogna puntare a eliminare?», pubblicato sul sito di Arianna Editrice il 10/09/2008). Inquietum est cor nostrum, donec requiescat in te, Domine: il nostro cuore sarà sempre inquieto, dice s. Agostino, finché non trova riposo in Dio. Ed è, codesta, un’inquietudine benedetta: guai se non l’avessimo; ciò vorrebbe dire che avremmo perso l’anima…

Fonte dell'immagine in evidenza: sconosciuta, contattare gli amministratori per chiedere l'attribuzione

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
Hai notato degli errori in questo articolo?

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

This site uses Akismet to reduce spam. Learn how your comment data is processed.