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6 Marzo 2016Qualche anno fa, Ian Buruma, classe 1951, un giornalista e saggista di origine olandese che ha studiato in Giappone, e Avishai Margalit, classe 1939, un politologo israeliano, professore di Filosofia all’Università americana di Princeton, hanno pubblicato sulla «New York Review of Books» un importante saggio intitolato «Occidentalism» (che riecheggia, intenzionalmente e polemicamente, il libro «Orientalism», pubblicato nel 1978 da un saggista americano-palestinese di religione cristiana), nel quale si pongono la questione di come l’Occidente venga percepito dai suoi nemici, partendo dal Giappone degli anni Trenta e arrivando fino a molti altri Paesi e a differenti contesti politici e culturali dei nostri giorni.
Scrivono Buruma e Margalit nel saggio, edito in volume, «Occidentalismo. L’Occidente agli occhi dei suoi nemici»; titolo originale: «Occidentalism: the West in the Eyes of Its Enemies», 2004; traduzione dall’inglese di A. Nadotti, Torino, Einaudi, 2004, pp. 126-130):
«Nel luglio 1942 — sette mesi dopo il bombardamento giapponese della flotta statunitense a Pearl Harbor, che metteva fine alla presenza occidentale nel sudest asiatico — si riunì a Kyoto un gruppo selezionato di studiosi e intellettuali giapponesi. Fra loro c’erano letterati, del cosiddetto "Gruppo romantico" e filosofi della scuola buddhista-hegeliana di Kyoto. Argomento centrale della discussione fu cime avere la meglio sulla modernità.
Era un’epoca di entusiasmi nazionalistici, e gli intellettuali presenti al convegno erano tutti in un modo o nell’altro nazionalisti, ma curiosamente la guerra in Cina, nelle Hawaii e nel sudest asiatico non venne quasi nemmeno menzionata. Almeno uno dei partecipanti, Hayasi Fusao, ex marxista diventato ardente nazionalista, scrisse in seguito che l’offensiva contro lo aveva riempito di gioia. Quando gli era giunta la notizia si trovava nella gelida Manciuria e aveva sentito che le nuvole tenebrose diradavano e sorgeva una luminosa giornata estiva. Sena dubbio molti suoi colleghi erano stati pervasi da analoghe emozioni, ma la propaganda bellica non era tema esplicito del congresso. Quegli uomini, tanto i letterati romantici quanto i filosofi, erano interessati al problema della lotta alla modernità assai prima dell’attacco di Pearl Harbor. Le loro conclusioni, nella misura in cui erano sufficientemente coerenti per essere politicamente utili, auspicavano un nuovo ordine asiatico sotto la leadership giapponese; sarebbero tuttavia inorriditi se qualcuno li avesse considerati propagandisti. Erano pensatori, loro, non politicanti.
Il concetto di "modernità" era comunque molto ambiguo. Nella Kyoto del 1942, come a Kabul o Karachi nel 2001, questa parola significava "occidente". La nozione di "occidente" è tuttavia quasi altrettanto elusiva di quella di "moderno". Gli intellettuali giapponesi nutrivano robuste convinzioni sul mondo che avversavano, ma erano in difficoltà nel definire ciò che invece volevano. L’occidentalizzazione, sosteneva uno di loro, è una malattia che infetta lo spirito giapponese. Le "cose moderne", diceva un altro, sono "cose europee". Si parlava molto di conoscenze specialistiche malsane che avevano danneggiato l’integrità della cultura spirituale orientale. Si stigmatizzava la scienza, e con essa il capitalismo, le nuove tecnologie, le libertà individuali, e la democrazia. Era necessario fare piazza pulita di tutto ciò. Un critico cinematografico, Tsumura Hideo, esecrava il cinema di Hollywood e celebrava i documentari di Leni Riefenstahl sulle imprese naziste, più in sintonia con le sue convinzioni sul come si forgia una comunità nazionale sana. Da tale prospettiva, la guerra all’Occidente era una sfida alla "dannosa civiltà materialista" finanziata dal capitale giudaico. Mentre la cultura tradizionale giapponese si connotava come spirituale e profonda, la moderna civiltà occidentale era superficiale, priva di radici e distruggeva ogni creatività. L’Occidente, soprattutto gli Stati Uniti, era visto come un mondo freddo e meccanico. Il vigoroso, tradizionale Oriente classico, unito sotto la guida divina dell’impero giapponese, avrebbe restituito la salute spirituale all’ardente comunità organica. Come disse uno dei partecipanti al convegno, si trattava di una lotta fra il sangue giapponese e l’intelletto occidentale.
Per gli asiatici di allora, e per molti ancora oggi, Occidente significa anche colonialismo. Fin dalla metà dell’Ottocento, quando la Cina venne umiliata nelle guerre dell’oppio, i giapponesi colti avevano capito che la sopravvivenza nazionale dipendeva dallo studio e l’emulazione delle idee e delle tecnologie occidentali. Nessuna grande nazione ha mai scommesso su una trasformazione così radicale come fece il Giappone fra il 1850 e il 1920. La parola d’ordine del periodo Meiji (1868-1912) fu "Bunmei Kaika", Civiltà e Illuminismo, ovvero civiltà occidentale e illuminismo. Tutto ciò che era occidentale, dalle scienze naturali al realismo letterario, fu voracemente assorbito dagli intellettuali giapponesi. Moda europea, costituzione prussiana, strategia navale britannica, filosofia tedesca, cinema nordamericano, architettura francese, e molto altro ancora, venne accolto e adattato. Modernità, all’epoca, si riferiva alle "cose europee", ma anche agli sforzi giapponesi per appropriarsene.
La trasformazione ebbe effetti dirompenti. Il Giappone non subì colonizzazione, e nel 1905 era già una potenza capace di sconfiggere la Russia in una guerra paradigmaticamente moderna. Tolstoj disse che la vittoria giapponese segnava il trionfo del materialismo occidentale sull’anima asiatica della Russia. Ma c’erano anche lati negativi. La rivoluzione industriale giapponese, di poco posteriore a quella tedesca, ebbe effetti simili. Masse di popolazione rurale impoverita emigrarono verso i centri urbani, dove le condizioni di vita potevano essere disumane. L’esercito diventò un brutale rifugio per i giovani, mentre le loto sorelle venivano spesso vendute ai bordelli delle grandi città. Ma, problemi economici a pare, l’ostilità di molti intellettuali giapponesi verso l’occidentalizzazione indiscriminata della seconda metà dell’Ottocento aveva un’altra spiegazione. Era come se il Giappone risentisse di un’indigestione intellettuale. La civiltà occidentale era stata ingerita troppo in fretta. Fu in parte per questo che il gruppo di intellettuali convenuti a Kyoto discusse della necessità di ribaltare la storia, di sconfiggere l’Occidente d essere moderni pur ritornando a un passato spirituale idealizzato.
Nulla di tutto ciò meriterebbe altro che un interesse storico, se tali ideali avessero perso la loro forza di ispirazione. Ma non è andata così. La repulsione verso il mondo occidentale simboleggiato dagli Stati Uniti è tuttora molto forte, sebbene in Giappone meno che altrove. Tale ripugnanza, che oggi spinge i radicali musulmani verso un’ideologia islamica politicizzata ove gli Stati Uniti assumono le vesti del diavolo, è condiviso dagli ultranazionalisti in Cina e in altre regioni del mondo non occidentale. Non solo, si propaga a che nel pensiero dei movimenti anticapitalisti all’interno dell’Occidente stesso. Sarebbe fuorviante i considerarlo di destra, sia di sinistra. Nel Giappone degli anni trenta, infatti, tanto i programmi degli intellettuali marxisti quanto i proclami dei circoli sciovinisti di estrema destra prevedevano la lotta contro la modernità. Una tendenza riscontrabile anche oggi.»
La tesi di Buruma e Margalit è che chi odia la modernità, odia l’Occidente; ma chi odia l’Occidente, non lo odia per quello che esso effettivamente è, ma per quella deformazione ideologica che di esso fa un qualcosa di diabolico, il male assoluto. E questo vale sia per coloro che lo odiano dall’esterno — ieri i nazionalisti giapponesi, oggi i fondamentalisti islamici — sia per quanti lo odiano dall’interno, ieri i fautori dell’Ordine Nuovo nell’Europa nazista, oggi i contestatori neomarxisti e anticapitalisti, nelle loro diverse galassie e varie sfumature.
Gira e rigira, questo tipo di "studiosi" e di "filosofi" vanno sempre a parare lì: nella impossibilità di contestare la modernità, nella criminalizzazione del dissenso: rifiutare la modernità — e, con essa, guarda caso, l’egemonia planetaria statunitense — equivale a un ritorno verso la barbarie, o nelle forme dell’integralismo religioso, o in quelle dei totalitarismi brutali del XX secolo, oppure le due cose insieme. Il corollario non detto, o appena suggerito, di questa impostazione molto politically correct è che non si può contestare neppure la politica di Israele, che rappresenta il bastione avanzato dell’Occidente verso il mondo islamico, l’ultima democrazia di fronte alle dittature arabe; né, di conseguenza, la finanza ebreo-americana, che tiene i cordini della borsa (nel senso letterale del termine) a livello mondiale, perché ciò equivarrebbe, oltre che al delitto di antisemitismo, anche al rifiuto, incoerente e velleitario, di quelle fonti di finanziamento senza le quali noi tutti precipiteremmo nel baratro della barbarie, dovremmo rinunciare alle nostre libertà civili, ai nostri tre o quattro pasti caldi al giorno, al nostro insostituibile tenore di vita.
No, cari Buruma e Margalit: così non va; questa musica non la vogliamo più sentire. Tutti i vostri ragionamenti si fondano su una serie di sofismi e di veri e propri trabocchetti linguisti e concettuali e sono funzionali al mantenimento di un sistema mondiale iniquo e profondamente sbagliato, dissociarsi dal quale è il minimo che si possa fare, e, rispetto al quale, immaginare un futuro diverso non è per niente un "reato" o un salto nel buio, ma un dovere di speranza per tutti gli uomini pensanti e di onesto sentire.
Punto primo: la modernità non è l’Occidente, ma la fase degenerativa dell’Occidente. La modernità è figlia dell’illuminismo, e l’illuminismo è il travisamento demoniaco di antiche virtù cristiane, divenute schegge impazzite. Sarebbe come dire che una persona e il cancro che la sta divorando, sono la stessa cosa. I caratteri essenziali della modernità sono la secolarizzazione, l’irreligiosità, lo strapotere della tecnica, l’individualismo di massa, l’edonismo esasperato, l’etica dei "diritti", il consumismo e l’oppressione del capitale finanziario ai danni del lavoro, travestita da "libero mercato". Ebbene, tutto questo complesso di attitudini e dinamiche non è affatto il "destino" dell’Occidente, ma uno degli scenari possibili; quello che attualmente va per la maggiore e che gode del sostegno dell’intellighenzia e della classe politica, ma non quello che favorisce la stragrande maggioranza della popolazione, non solo in Occidente, ma nel mondo, tanto in senso materiale che spirituale.
Punto secondo: l’Occidente è una categoria artificiale, fasulla, che deriva dall’assemblaggio arbitrario di due componenti completamente diverse: la civiltà europea e quella americana. Ora, se la modernità è la metastasi della civiltà europea, la civiltà americana è la metastasi della metastasi: il concentrato di ciò che di peggio la modernità ha prodotto, e di ciò che è più lontano dall’autentico spirito della civiltà europea. Certo, la civiltà americana deriva da quella europea; ma, rispetto ad essa, è degenerata, e ciò è accaduto fin dall’inizio: gli Stati Uniti sono nati ad opera della Massoneria, dell’illuminismo, dello spirito irreligioso travestito (inizialmente) da fondamentalismo puritano, della democrazia intesa come il totalitarismo della maggioranza. Tanto è vero che gli Stati Uniti, la prima democrazia al mondo, si sono anche resi responsabili del primo genocidio della storia moderna: quello dei pellirosse; laddove la Spagna cattolica aveva, sì, sfruttato e maltrattato gli Indios, ma non aveva giammai tentato di sterminarli, checché ne dica la "leggenda nera" fatta circolare a bella posta dagli Anglosassoni, e tuttora in voga anche nelle nostre scuole e presso i nostri "intellettuali".
Punto terzo: la civiltà europea, della quale siamo figli, non è la stessa cosa della civiltà moderna, ma è quella cristiana nata alla fine del mondo antico e consolidatasi nel corso del Medioevo; essa era ancor viva fino a meno di un secolo fa, quando la modernità l’ha definitivamente soverchiata e sradicata dai suoi ultimi rifugi: le campagne, le piccole città di provincia, la piccola borghesia laboriosa e conservatrice, le parrocchie, la Chiesa cattolica (nella sua forma pre-conciliare). Per noi Europei, dunque, è essenziale ritrovare le nostre radici e rivitalizzare la nostra civiltà: quella cristiana e pre-moderna, ricollegandoci alla linfa vitale dei nostri antenati: i grandi Padri della teologia cattolica, e non i sedicenti "teologi" attuali, relativisti e confusionari, dispensatori di dubbi e distruttori della Tradizione; i grandi santi e le mistiche: i quali esistono anche oggi, si badi, pur nel clamore e nell’opera di lavaggio del cervello operata dai meccanismi della modernità; i grandi artisti e scienziati che hanno stupito il mondo intero con l’universalità del loro genio, e non certo i loro attuali rampolli degenerati, fautori di un’arte brutta e di una scienza diabolica; le sane famiglie fondate sul matrimonio fra uomo e donna e aperte alla procreazione, in luogo delle famiglie "arcobaleno" e dalla omosessualità dilagante, dell’aborto sistematico e legalizzato, dell’utero in affitto, della precarietà delle relazioni e del crollo morale e demografico che caratterizzano la vita sessuale e affettiva moderna; l’etica del risparmio, del lavoro, del sacrificio e della responsabilità, in luogo dell’edonismo a tutto campo, della proliferazione di sempre nuovi "diritti" stabiliti per legge, che i si accavallano, si incrociano e si combattono l’uno con l’altro, distruggendo quel che resta dei rapporti familiari e sociali.
Vi sono Paesi — non sulla Luna o su Marte, ma qui, nel cuore dell’Europa: la Francia, ad esempio — nei quali un bambino che sia stato fotografato dai genitori, e la cui immagine sia comparsa su un social network, un domani, divenuto maggiorenne, potrà querelare i suoi genitori ed estorcere loro una somma di trentacinquemila euro, a titolo di risarcimento per la violazione passata della sua privacy: un comodo sistema per spillare quattrini e farsi mantenere senza dover lavorare. E vi sono mogli, anche qui da noi, le quali, dopo il divorzio, hanno già trovato il modo di viver senza più lavorare, semplicemente facendosi mantenere a vita dall’ex marito, il tutto a norma di legge e con tanto di sentenza del giudice. Ma quale futuro è riservato a una società dove le questioni familiari si decidono a colpi di sentenza del magistrato, e dove il denaro diventa lo strumento per una rivalsa contro i propri "cari", nonché un comodo mezzo per sbarcare il lunario alle spalle altrui? A una società dove tutti diffidano di tutti, tutti sospettano di tutti, e dove i parlamenti, invece di occuparsi di cose serie, propongono (come sta avvenendo in Italia in questi giorni) che, per sciogliere un matrimonio, bastino le fotografie prodotte da una agenzia di investigazioni che ritraggono il coniuge "infedele" insieme a un’altra persona, senz’altre testimonianze o formalità, come se non avesse alcun significato lo stabilire chi, dei due, abbia tradito per primo, e cosa abbia fatto l’altro coniuge in fatto di tradimenti sessuali, oltre a far spiare e pedinare il marito o la moglie, per bruciarlo sul tempo e addossargli la responsabilità del divorzio, con tutti i vantaggi economici stabiliti dalla legge per chi arriva primo?
Se queste sono le meraviglie della modernità, non avevano poi tutti i torti, dal loro legittimo punto di vista, i filosofi giapponesi, a Kyoto, nel luglio del 1942, allorché — qualche mese dopo Pearl Harbor — ponevano all’ordine del giorno un nuovo sistema di civiltà, con il quale sostituire la modernità, prima che la modernità potesse trascinare — cosa che sta effettivamente accadendo — il mondo intero nella sua rovina.
Quanto a noi Europei, che non abbiamo alcuna nostalgia del marxismo, né di alcun altro integralismo o totalitarismo, possediamo noi pure un immenso patrimonio di civiltà, che attende solo di essere valorizzato e posto al servizio del futuro: quello della nostra antica e nobile tradizione, spirituale e cristiana, con il rispetto della persona quale base fondamentale, e poi il culto della famiglia, la dignità del lavoro, il senso dell’amicizia e della bellezza, l’ammirazione per la cultura. Altro che McDonald’s e Cola Cola: abbiamo ben altro, noi Europei, da difendere: ben altri valori, ben altre cose, di quelli che stanno tanto a cuore agli Americani. Le nostre strade si dividono per sempre. A loro lasciamo pure una medicina senz’anima (a loro e ai nostri ex comunisti ed ex difensori dei "deboli" contro lo sfruttamento dei ricchi, vedi il signor Vendola che compra un bambino da una donna americana di origini indonesiane, e, con l’aiuto di medici compiacenti, le fa fare un figlio per procura); a loro lasciamo di ridurre ogni cosa a denaro, il gigantismo architettonico e urbanistico, l’edonismo e l’individualismo sfrenati, la volgarità e la brutalità del nuovo ricco che pretende di acquistare qualsiasi cosa a suon di contanti. A noi riserviamo quel che di meglio la nostra civiltà ha saputo esprimere nel corso dei secoli, di cui andiamo giustamente fieri e la cui eredità intendiamo devotamente raccogliere: la teologia di san Tommaso d’Aquino, la poesia di Dante, la pittura di Giotto, la musica di Bach, la santità di Francesco d’Assisi, la filosofia di Kierkegaard, l’umanità di Teresa di Calcutta.
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