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Il concetto cristiano della “pace” è in perfetta antitesi con quello laico

Gesù e venuto a predicare la pace fra gli uomini? Potrebbe sembrare una domanda strana, quasi provocatoria: ma certo, che discorsi!; chi non lo sa? Pure, a riflettervi anche solo un momento, si deve ammettere che la risposta non è così banale e scontata, come sembra. Gesù stesso, a un certo punto, ebbe a dire di sé e della propria missione: «Non crediate che io sia venuto a portare la pace sulla terra; non sono venuto a portare la pace, ma una spada. Sono venuto infatti a separare il figlio dal padre, la figlia dalla madre, la nuora dalla suocera, e i nemici dell’uomo saranno quelli della sua casa» (Matteo, 10, 34-36). Sono parole che si possono variamente interpretare; certo non devono esse intese nel senso letterale, a meno che la "spada" di cui parla Gesù sia da intendersi non già come quella dei suoi seguaci, cosa certamente da escludere, ma piuttosto dei loro persecutori, dato che egli ha ammonito i suoi discepoli con forza, e ripetutamente, che sarebbero stati perseguitati a causa del Suo nome.

Ad ogni modo, una distinzione necessaria, a nostro avviso, deve essere operata fra il concetto della "pace" in senso propriamente cristiano, e quello di carattere profano: perché la "pace", come la intende il mondo, non è la pace di Cristo, anzi, si tratta di due cose completamente diverse e, per molti aspetti, addirittura antitetiche. Ed è una riflessione ci veniva fatta mentre leggevamo una pagina di don Luigi Villa (3 febbraio 1918-18 novembre 2012), un sacerdote nativo di Lecco, che è stato condannato all’oblio dopo la morte (avvenuta quattro anni or sono), mentre in vita aveva subito una vera e propria persecuzione da parte delle autorità superiori, a causa delle sue scomodissime inchieste miranti a smascherare le infiltrazioni massoniche all’interno della Chiesa, particolarmente nelle sue più alte sfere; inchieste che erano partite da una esortazione personale di san Pio da Pietrelcina, fattagli nel 1952 e rinnovata nel 1963, e che ebbero, a quanto pare, l’approvazione ufficiosa ed il tacito incoraggiamento di papa Pio XII.

Sia come sia, non vogliamo soffermarci qui a parlare della vita e dell’opera svolta da don Villa per denunciare la presenza della Massoneria all’interno della Chiesa cattolica, presenza mirante a indebolirla, svuotarla e distruggerla gradualmente per mano dei suoi stessi vescovi e sacerdoti (ci riproponiamo di farlo in apposita sede); desideriamo invece soffermarci su uno spunto offertoci da una sua meditazione a proposito della "pace" cristiana.

Scriveva, dunque, don Villa in un ampio saggio — che si può considerare, in un certo senso, il suo testamento spirituale – intitolato «Il problema della pace» e pubblicato, a puntate, sulla rivista da lui fondata, «Chiesa viva», di cui riportiamo l’inizio della seconda (n. 339, maggio 2002, pp. 2-3):

«Mentre gli altri tre evangelisti parlano di un kerigma di pace per tutti gli uomini, anche non cristiani, il quarto evangelista invece parla della "pace" durante il mistero della Passione e della Risurrezione in quanto concerne i discepoli di Gesù. È una rivelazione di Gesù ai suoi discepoli e, quindi, è Dio che rivela, qui, la pace" che nasce nella Chiesa.

Questo avviene nel discorso dopo la Cena, che si conclude con un augurio di pace: "Io vi lascio la mia pace! Io vi dono la mia pace! Io non ve la dono come la dona il mondo!"

Poi, la sera della Risurrezione, Gesù si presenta ai suoi discepoli riuniti, e per prima cosa dice: "Pace a voi!", poi, per la seconda volta, dice ancora: "Pace a voi! Così come il Padre ha mandato me, io mando voi!". Otto giorni dopo, presente anche Tommaso, Gesù appare un’altra volta e dice: "Pace a voi!"

Fanno riflettere queste parole di "pace" dette da Gesù! Furono le sue ultime parole prima della Passione, e furono le sue prime dopo la Passione. Non sono semplici parole di saluto, secondo l’uso di ogni persona educata, ma sono parole di Gesù-Dio che vengono animate di una vita nuova ed hanno una risonanza straordinaria. Lo fanno comprendere le sue stesse parole che indicano una sua intenzione del tutto particolare: "Io vi dono una pace; io ve la dono non come ve la dà il mondo!"

Il contesto di queste parole, infatti, ci porta a riflettere che furono dette dopo il discorso dell’ultima Cena, dopo che Gesù aveva parlato loro delle "persecuzioni" che avrebbero avuto per causa sua, quasi che esse costituissero una loro condizione abituale. "Voi avrete tribolazioni nel mondo". "Viene l’ora che chiunque vi ucciderà, crederà di rendere ossequio a Dio". Con questo, Gesù intendeva dire che le persecuzioni che subiranno non saranno che la continuazione delle persecuzioni che Lui stesso ha subito: "Se il mondo vi odia, sappiate bene che, prima di voi, ha odiato me. Se hanno perseguitato me, perseguiteranno anche voi". Come ad annunciare il mistero della sua morte e di quella dei suoi discepoli! Un solo, medesimo mistero.

Per questo, Gesù moltiplica il suo incoraggiamento: "Non rimanga turbato il vostro cuore…". "Queste cose vi ho detto perché non abbiate a scandalizzarvi…". Vi ho detto queste cose, perché, quando ne giungerà l’ora, vi ricordiate che ve ne ho parlato". Coraggio, dunque, perché, nonostante la sua Passione e morte, anzi, proprio per esse, Gesù ha vinto il mondo, per cui la sua "pace" sarà il frutto sicuro della partecipazione alla vittoria del Maestro con la Risurrezione. "La pace a voi!". Dopo il cammino della prova, ci sarà quella "pace", che più nessuno ci potrà togliere!

Questo destino della Chiesa di Cristo appare, non in astratto, anche nell’Apocalisse dello stesso autore del Quarto Vangelo, san Giovanni, in cui si parla chiaramente di un mondo persecutore e della Chiesa perseguitata. I suoi membri vengono martirizzati, messi a morte, ma la Chiesa continua a sopravvivere, a risuscitare, ad avere dimora in mezzo al mondo, insieme al Regno di Dio. Ovunque, è sempre il Cristo che muore, ma che pure risuscita. E anche la Donna, attaccata dal Dragone, è pur sempre la Chiesa. E anche i 144.000 che accompagnano l’Agnello sul monte Sion, usciti dalle persecuzioni e dalle umiliazioni, sono anch’essi la Chiesa. Come pure i vincitori della Bestia, che cantano il canto di Mosè, all’uscita del paese della prova, e "i campi dei Santi e la città diletta", assalita dalle forze congiunte dell’Inferno e della terra e che Dio ha preservata con un atto perentorio. Alla fine, cioè, la città assediata si trasfigura nella Nuova Gerusalemme, e "la morte non ci sarà più, né ci saranno più dolori e sofferenze, perché tutto quello che prima c’era, sarà finito" (Apoc., 21, 4). La pace di Cristo, quindi, sarà alla fine dei tempi; ossia, la Sua pace sarà dopo la risurrezione. Il Suo prezzo, però, è sempre la Sua Croce. Perciò, anche il cammino della Chiesa di Cristo è e sarà sempre la "via Crucis"! L’universalità del Vangelo si riattacca alla Croce. Quando io sarò elevato da terra, attirerò tutto a me" Apoc. 1, 8). La "pace" del mondo sarà, quindi, nel Cristo risuscitato. Il ruolo del cristiano, perciò, sta nel testimoniare, soffrire, morire. Ma la sua vittoria è già sicura; la pace è già data da Lui! "Io non ve la dono come il mondo…", il quale non la dà, ma solo la promette, mentre Gesù la dona realmente ed è una pace che non inganna.

Egli giudica e divide tra il suo Regno e quello del mondo. Noi sappiamo dal discorso di "missione", di San Matteo, che la pace di Gesù è ben differente da quella del mondo. "Non pensiate che io sia venuto a portare la pace sulla terra: io non sono venuto a portare la pace, ma la spada". Gesù, quindi, pensava già alle persecuzioni che gli Apostoli e i suoi successori avrebbero dovuto subire dai suoi nemici, mondo e demonio, come pure le divisioni, senza farsi alcuna illusione. "Chi non prende la sua croce per venire al mio seguito, non è degno di me". Ossia: la Chiesa deve testimoniare, soffrire le persecuzioni, sopportare, attendere, perseverare, accettare di essere umiliata, messa a morte; prender parte, quindi, al medesimo destino che fu di Gesù, l’Agnello, il Servitore, il Servo di Dio. E sarà a questo prezzo, poi, che Dio mediatore donerà la sua pace a tutta l’umanità!»

Quelle di don Luigi Villa sono riflessioni che ci sembrano sostanzialmente condivisibili e che ci ricordano, ancora una volta, quanto sia equivoco e fuorviante prendere certi concetti della cultura laica, accostarli ai concetti cristiani traducibili con la stessa parola, e trarne la conclusione che, dunque, non solo non vi è alcuna difficoltà a portare avanti un discorso cristiano che sia parallelo a quello del mondo profano, ma, addirittura, che i cristiani debbano, in un certo senso, "fidarsi del mondo", solamente perché le parole d’ordine paiono le stesse. Il mondo moderno, invece, non è semplicemente post-cristiano; è deliberatamente anti-cristiano. Può darsi che molte persone, forse la maggior parte, non se ne rendano conto; ma certo lo sanno coloro i quali esercitano un controllo complessivo sull’informazione, sulla stampa, sulle reti radiofoniche e televisive, sulla cultura accademica e sulle grandi istituzioni internazionali, a cominciare dalle Nazioni Unite. Sarebbe veramente ingenuo, quindi, e anche molto pericoloso, per un cristiano, sottovalutare questo fatto, o scordarlo anche solo per un momento: non si tratta di coltivare una "sindrome da accerchiamento", quanto, piuttosto, considerare che la cultura moderna è figlia dell’illuminismo e della Massoneria, e che il suo obiettivo è sempre stato quello di distruggere il cristianesimo e di sostituirlo con una nuova forma di religiosità vagamente panteista, incentrata sostanzialmente sulla natura e sull’uomo, non certo su un Dio trascendente e, soprattutto, su un Dio redentore: l’uomo, infatti, per la cultura moderna, non ha alcun bisogno di essere redento, semmai può e deve redimersi da solo. E, più in generale, basta tenere a mente le ammonizioni rivolte da Gesù ai suoi discepoli circa il fatto che il mondo li avrebbe odiati, dato che, prima di loro, aveva odiato Lui. La verità è che il cristiano dà, e darà sempre, fastidio alle logiche del mondo — logiche di potere, di lussuria e di sopraffazione — e, quindi, dovrebbe sempre chiedersi che cosa non vada, quando il mondo gli prodiga sorrisi e carezze.

Ma vediamo più nello specifico la questione che a noi qui interessa: quella della pace. Per la cultura profana, e specialmente per la cultura moderna, la "pace" è il risultato di una azione pienamente e interamente umana: sono gli uomini che possono e vogliono instaurarla, dopo aver rimosso le cause di conflitti, così all’interno come all’esterno dei gruppi sociali. La "pace" del mondo, quindi, è un obiettivo immanentistico, edificabile senza residui, che avrà una completa realizzazione entro un determinato lasso di tempo. La pace, in tale prospettiva, proviene dalla rimozione degli elementi di conflitto, di tensione, d’ingiustizia: quando ciò avverrà, si avrà automaticamente il regno della pace, come si addice a una concezione decisamente ottimistica dell’uomo razionale. La pace, infatti, è razionale, la guerra è irrazionale: quando gli uomini capiranno che la guerra non è nel loro interesse, che provoca più problemi di quanti ne possa mai risolvere, allora si avrà la pace.

Per il cristiano, le cose stanno in tutt’altro modo. La pace non è un fatto, ma un anelito; l’uomo tende alla pace, perché riconosce in essa la condizione necessaria alla realizzazione del bene. L’uomo, però, non è capace di realizzare alcun bene con le sue sole forze: quando si prova a fare una cosa del genere, non solo fallisce, ma semina lutti e sofferenze a piene mani. Nessuna opera umana può essere portata a buon fine, allorché scaturisce da un atteggiamento di orgoglio e di autosufficienza; solo quando si affidano all’ispirazione e all’aiuto di Dio, gli uomini possono realizzare il bene; così come possono conservarlo solo restando strettamente uniti a Lui. Non a un Dio qualsiasi, però, ma al Dio predicato da Gesù Cristo, Dio egli stesso: il Dio che si è fatto uomo, che è morto sulla croce e che è risorto per riaprire all’umanità la via del Cielo. Anche qui si vede che il relativismo è penetrato largamente nella cultura cattolica e nella Chiesa stessa, e ha seminato pericolose confusioni, quasi che un Dio valga l’altro, e tutte le strade portino ugualmente alla verità, alla redenzione e alla salvezza. Per timore di apparire esclusivisti e fanatici, i cristiani son diventati timidi, quasi vergognosi di se stessi; stentano, talvolta, a proclamare il messaggio di Gesù, o lo relativizzano. In un ceto senso, tentano di passare inosservati: in una società laicista, sembra loro il mezzo migliore per vivere tranquilli. Hanno dimenticato una cosa, però, quella essenziale: Cristo non ha promesso la tranquillità, ma ha portato la pace: una pace che passa per la Croce. È un paradosso, certo: il paradosso della fede, visto da alcune grandi anime, come Pascal e Kierkegaard…

Fonte dell'immagine in evidenza: Foto di Chad Greiter su Unsplash

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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