
L’uomo moderno, rifiutando la Verità, si è condannato con la sua stessa intelligenza
18 Febbraio 2016
La cultura moderna non crede più al Diavolo; e la Chiesa cattolica?
19 Febbraio 2016Se la ""figura" della coscienza infelice sia , o non sia, l’elemento centrale della filosofia di Hegel, la chiave di volta di tutto il suo sistema idealistico, è cosa che riguarda gli specialisti del pensiero dell’autore della «Fenomenologia dello spirito»; quel che è certo è che tale nozione, attraverso Feuerbach e la "sinistra hegeliana", ha fatto breccia nel quadro complessivo della cultura europea e occidentale e ne costituisce, ormai, un fattore definitivamente accettato e organicamente inserito da quasi tutti gli intellettuali moderni nella loro mappa concettuale.
Prima di domandarci se ciò sia giusto o sbagliato, vediamo brevissimamente di che cosa si tratta. Secondo Hegel, la coscienza si sdoppia in una coscienza mutevole e in una immutabile: la prima appartiene all’uomo, la seconda viene proiettata verso un essere trascendente, Dio. Le cose di quaggiù appaiono all’uomo come mutevoli, fugaci, inessenziali; egli pertanto rivolge tutta la sua speranza verso l’al di là, che vede come il regno di ciò che è assoluto ed eterno. Ma l’al di là, per definizione, è irraggiungibile; l’uomo si protende verso di esso, ma non può mai raggiungerlo. La coscienza è quindi infelice, perché non riesce ad attingere il trascendente, l’immutabile, pur aspirandovi ardentemente: essa è scissa, lacerata in se stessa, impossibilitata a trovare una qualche forma di mediazione fra l’al di qua e l’al di là, fra la dimensione di ciò che è caduco e quella di ciò che è eterno. Si tratta di un vicolo cieco, di un punto morto; di fatto, non esiste alcuna possibilità di giungere a una soluzione, a una sintesi fra le due istanze: all’uomo non resta che rifugiarsi nella "devozione", la quale, però, in pratica, corrisponde ad una forma di estraniamento e di alienazione dell’uomo da se stesso, dal dato del "qui" ed "ora". Dio, la meta dell’aspirazione al trascendente, è una presenza perennemente elusiva, inafferrabile: quel che l’uomo riesce a raggiungere è, nel migliore dei casi, un "sepolcro": espressione con la quale, senza dubbio, Hegel ha voluto riferirsi alla Crociate, dirette alla "riconquista" e alla "liberazione" del Santo Sepolcro di Gesù Cristo, a Gerusalemme (dimostrando, però, a nostro avviso, di aver compreso poco o nulla dell’autentico sentimento religioso medievale, Crociate comprese).
Come abbiamo accennato, la "figura" della coscienza infelice ha avuto un successo strepitoso e definitivo, entrando a pieno titolo nell’immaginario collettivo dell’intellighenzia occidentale: secondo il "titolo" che la cultura dominante attribuisce a se stessa, beninteso, e non secondo una valutazione oggettiva e filosoficamente argomentata. In pratica, a partire da Hegel, e soprattutto da Feuerbach e da Marx, suoi legittimi successori, si è dato come definitivamente acquisito il concetto che il cristianesimo ha introdotto il tumore della coscienza infelice — perché come un cancro essa viene presentata, su questo c’è poco da discutere — e che esso stesso, evidentemente, è il veicolo di un pensiero schizofrenico, malato, lacerato in se stesso, altamente dannoso per l’equilibrio interiore degli uomini e per la loro capacità di porsi in una relazione equilibrata e costruttiva con il mondo esterno, con la realtà sociale, con i loro simili, oltre che con la loro stessa coscienza. Cose, queste, che sarebbe stato necessario cercar di dimostrare, o almeno discutere, invece di "porle" come perfettamente chiare ed auto-evidenti; mentre non sono né chiare, né auto-evidenti.
Al concetto hegeliano della coscienza infelice, infatti, si possono porre almeno due ordini di obiezioni: storico e psicologico. Storico: come mai la coscienza infelice fa la sua comparsa alle soglie della modernità, ma non sembra affatto caratterizzare la condizione dell’uomo medievale (semmai, dell’uomo tardo-antico; ossia dell’uomo della civiltà anteriore a quella cristiana)? Psicologico: siamo proprio sicuri che la tensione dialettica fra la dimensione mutevole e quella immutabile rappresenti, di per sé, un male, o, in ogni caso, che conduca ad uno stato di infelicità esistenziale? E se le cose stessero in maniera del tutto diversa?
L’obiezione storica nasce dal fatto che, anteriormente alla generazione di Francesco Petrarca («quel doppio uomo che è in me», dice, di se stesso, nella lettera in cui descrive l’ascensione al Monte Ventoso, il primo poeta della modernità), non appare che la coscienza infelice fosse un elemento caratterizzante della condizione spirituale dell’uomo europeo. Non vi è traccia di coscienza infelice in Dante, né in Giotto, né in Tommaso d’Aquino, né in Francesco d’Assisi, né in Federico II di Svevia, eccetera. Ve ne sono tracce, semmai, in sant’Agostino: ma sant’Agostino appartiene alla cultura della tarda antichità, quando il cristianesimo non si è ancora del tutto stabilito e quando vigono circostanze storiche assolutamente eccezionali: il crollo del mondo antico, la caduta dell’Impero romano d’Occidente e le migrazioni dei popoli germanici, tutti eventi che ebbero l’impatto, per le generazioni che li vissero, di qualcosa di simile alla fine del mondo. Un altro esempio di coscienza infelice ce lo offrono anche, un secolo prima di Agostino, gli scritti di Arnobio, un apologista cristiano vissuto a cavallo fra III e IV secolo, del quale diremo fra poco.
L’obiezione psicologica nasce dal fatto che la tensione verso la trascendenza, verso l’assoluto, produce infelicità se la si guarda dal punto di vista del finito, perché non riesce mai a raggiungere la meta del proprio desiderio, ma non la produce affatto se la si considera dal punto di vista dell’incontro fra l’uomo e Dio, nel quale il primo trova, e sia pure in maniera provvisoria e fuggevole, il supremo appagamento, anticipo e caparra della beatitudine ultraterrena. Tuttavia, per adottare un tale punto di vista, la premessa necessaria è, quanto meno, non escludere che un tale appagamento sia possibile; se, invece, come fanno Hegel, Feuerbach e Marx, si esclude a priori che esista una dimensione trascendente, distinta da quella immanente; e se si nega a priori che l’essere umano possieda, per così dire, una doppia cittadinanza, cioè che egli sia cittadino provvisorio, o piuttosto viandante e pellegrino, della città terrena, ma che sia anche cittadino, o aspirante cittadino, della città celeste, la quale effettivamente esiste, e verso la quale la vita umana è effettivamente diretta come al suo compimento naturale e necessario, allora è chiaro che lo "sdoppiamento" in questione non può che sboccare in una coscienza infelice. Se non che, ragionare in questo modo equivale a porre delle premesse tali, dalle quali non può non scaturire la suddetta conclusione. Il che non è fare seriamente della filosofia, ossia ricercare spassionatamente il vero, ma fare delle esercitazioni retoriche e dei giochi sofistici, perché si finisce per trovare, proprio come nei giochi di prestigio, esattamente quel che si voleva trovare: ma senza prendersi il disturbo, né esporsi al rischio, di confrontarsi con la possibilità di trovare qualcosa di diverso.
Abbiamo detto che già Arnobio esprime, nei suoi scritti, qualche cosa di molto simile alla hegeliana (e, a ben guardare, leopardiana) coscienza infelice. Molto si è detto del cristianesimo di Arnobio, che, da alcuni, è stato perfino, se non negato, messo seriamente sotto accusa, evidenziando il persistere, in lui, d’una concezione filosofica neoplatonica, gnostica e stoica, insomma d’una visione del reale ancora in gran parte pagana, o paganeggiante. Il punto è, a nostro avviso, che, nella visione antropologica (e cosmica) di Arnobio, trova espressione anche una crisi storica di enorme portata, quella che vede il travaglio e la fine del mondo antico e il lento, incerto e confuso formarsi di un mondo nuovo, che egli non fece in tempo a vedere, se non in minima parte. Inoltre, non si deve sottovalutare il fatto che solo nei pensatori più grandi e nelle personalità eccezionali trova piena espressione la concezione cristiana della vita; nelle personalità meno dotate, come è il caso di Arnobio, il cristianesimo non diventa il fattore unificante e armonizzante degli elementi psicologici, filosofici e spirituali, ma un qualcosa di non totalmente assimilato, né completamente armonizzato, come una veste che è troppo bella ed elegante per consentire a chiunque di fare una degna figura, ma che, anzi, in quanti possiedono un portamento sgraziato, evidenzia i difetti preesistenti.
Così, dunque, scriveva Anobio nel suo «Adversus nationes», II, 37, 43 (in: Luciano Perelli, «Antologia della letteratura latina», Paravia, Torino, 1973, pp. 630-31):
«Che se (le anime) fossero, come si dice, nate da Dio, e se dal principio primo fosse generata la facoltà dell’anima, a loro create dalla virtù perfettissima, nulla mancherebbe alla perfezione, avrebbero tutte uno stesso intelletto e penserebbero allo stesso modo, abiterebbero sempre alla corte del loro re, e non accadrebbe che, lasciata la sede della loro beatitudine, in cui conoscevano e possedevano eccelse dottrine, stoltamente si dirigano verso questi luoghi terreni per vivere avvolte da corpi tenebrosi, fra il muco e il sangue, fra questi otri di sterco e questi sozzi vasi di orina. Ma bisognava che anche queste parti fossero abitate, e perciò un dio onnipotente mandò qua le anime come in una colonia. E in che cosa gli uomini giovano al mondo o per quale motivo sono necessari, perché non si debba credere che inutilmente vivono in questa sede e sono inquilini di un corpo terreno? Contribuiscono in qualche modo a completare e a integrare questa mole, e, se non fossero stati aggiunti, l’insieme dell’universo sarebbe imperfetto e monco? E che dunque, se non ci fossero gli uomini, il mondo cesserà di funzionare, le stelle non compiranno il loro corso, non vi saranno le estati e gli inverni, il soffio dei venti tacerà, non cadranno in terra dalle nubi condensate e sospese le piogge destinate a mitigare l’aridità? Al contrario, necessariamente tutte le cose proseguiranno per il loro corso e non si scosteranno dall’ordine iniziale ed abituale, anche se nel mondo non si udisse più il nome di un uomo e l’orbe terrestre tacesse nel silenzio di un deserto privo di abitanti. Come dunque si può superbamente proclamare che doveva essere aggiunto un abitante a queste terre, quando è chiaro che da parte dell’uomo nulla ne viene alla perfezione del mondo, e che tutte le sue azioni sempre mirano al vantaggio privato e non si scostano dal limite della propria utilità? […]
Che cosa dite, o prole e progenie della propria divinità? Dunque quelle anime sapienti uscite dai principi primi conoscono queste forme di turpitudini, di delitti e di malvagità, e per esercitare, per sostenere, per praticare questi mali hanno ricevuto l’ordine di partire e di venire ad abitare queste regioni e di rivestirsi dell’involucro del corpo umano? E vi è qualche mortale che abbia in testa un po’ di ragione, il quale ritenga il mondo ordinato per queste, e non piuttosto destinato come sede e domicilio dove esse ogni giorno compiano nefandezze, e perpetrino ogni sorta di malvagie azioni: insidie, frodi, inganni, cupidigie, rapine, violenze, delitti, impudenze, oscenità, turpitudini, vergogne, e tutti gli altri mali, che in tutto il mondo gli uomini commettono con perfida mente, escogitando la rovina l’uno dell’altro?»
L’uomo, dunque, per Arnobio, possiede un corpo tenebroso, che nasce e vive fra il muco e il sangue; che è solo un otre di sterco e un sozzo vaso di orina. In questo aspro, desolato e, si direbbe, compiaciuto pessimismo antropologico, non si percepisce l’elemento essenziale della concezione cristiana: la possibilità di riscatto dell’uomo dalla propria miseria, mediante la grazia divina; né si vede come gli esseri umani non siano posti dal caso sul pianeta che fa loro da dimora, ma come essi, la loro esistenza, siano parte di un sapiente e amorevole progetto divino. Pertanto si può dire che in queste riflessioni di Arnobio vi sia la coscienza cristiana della fragilità dell’uomo, della sua miseria in quanto creatura finita, ma che manchi del tutto la luce possente della rivelazione della grazia, capace di trasfigurare questa creatura debole e tendenzialmente egoista in qualche cosa di grande, addirittura di simile a Dio. E che in Arnobio vi sia, pertanto, un’autentica coscienza infelice.
Queste considerazioni ci aiutano, adesso, ritornando al problema della cultura moderna, a collocare in una nuova prospettiva la nozione hegeliana, ma — come si è visto — non solo hegeliana, della coscienza infelice. Quello che appare spaccatura, lacerazione, e quindi infelicità, se si guarda all’uomo solo dalla prospettiva del finito, si rivela come il principio del suo riscatto e della sua redenzione, dal punto di vista dell’eterno. Hegel avrebbe detto che il singolo uomo non può porsi dal punto di vista dell’eterno, il che è certamente vero; ma quel che non può fare da solo, diventa possibile se egli si pone in accordo con la volontà divina. Certo, un filosofo che nega la trascendenza del divino — perché a questo, in definitiva, conduce l’idealismo hegeliano; che scrive una «Vita di Gesù», che si conclude con la chiusura del sepolcro di Cristo (e dàlli coi sepolcri: a quanto pare, un’idea fissa del pensatore tedesco); e che dichiara la superiorità della filosofia, cioè della sua filosofia, sulla religione, in quanto la prima esprimerebbe gli stessi contenuti della seconda, ma ad un livello incommensurabilmente più alto, non potrà mai giungere a un tale pensiero. Ci vorrebbe troppa umiltà, per questo: non solo come uomo, ma proprio come filosofo…
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