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15 Febbraio 2016Sulla figura del venerabile Pietro Domenico Trabattoni (1848-1930), che fu, per circa mezzo secolo, il parroco di un paese del Lodigiano, Maleo, e che profuse immense energie per la crescita morale e materiale dei suoi abitanti, in gran parte contadini di modestissime condizioni socio-economiche, esistono diversi studi e biografie; senza contare il fatto che, essendo in itinere il processo di beatificazione, altri materiali sono allo studio e certamente aiuteranno a comprendere sempre meglio la sua opera e il contesto sociale e culturale in cui si svolse.
Non tocca a noi, pertanto, dare giudizi o patenti di santità, e tanto meno negarli; quel che vogliamo fare, in questa sede, è svolgere una breve riflessione sul reciproco rapporto in cui stanno, e devono stare, le attività propriamente religiose di un sacerdote, il culto, la santificazione delle anime, e quelle di tipo sociale, quali l’organizzazione sindacale, la promozione di iniziative miranti ad un miglioramento delle condizioni materiali dei suoi parrocchiani, della loro istruzione, del livello di vita, della piena consapevolezza dei diritti e dei doveri del buon cittadino. E abbiamo scelto di prendere le mosse dalla figura di Pietro Trabattoni, sia perché egli fu un sacerdote estremamente impegnato nella promozione sociale dei suoi parrocchiani, sia, soprattutto, perché alcuni hanno voluto vedere in lui, e portare ad esempio, la figura del perfetto sacerdote, tanto coinvolto nell’opera pastorale vera e propria, quanto in quella rivolta alla sfera sociale, sindacale, mutualistica e, anche, apertamente politica.
Di conseguenza, nel nostro ragionamento avremo quale punto di riferimento non tanto la figura di Trabattoni in se stessa, ma ciò che di essa hanno voluto fare i cattolici "progressisti", socialmente e politicamente "impegnati" (in quale direzione, lo sanno tutti: perciò tanto varrebbe che loro stessi si qualificassero, come solo talvolta fanno, "cattolici di sinistra", tanto per sgombrare il campo da ogni inutile ambiguità): vale a dire un simbolo e una bandiera di ciò che dovrebbe essere, e che dovrebbe fare, un "vero" prete moderno. Laddove l’aggettivo "moderno" sta a indicare che il prete, secondo loro, nella società attuale, non potrebbe più essere in alcun modo un buon prete, qualora si "limitasse" a fare quel che i preti hanno sempre fatto prima dell’avvento della modernità: curare la salute delle anime e testimoniare il Vangelo, conservando la sua identità di prete e senza voler surrogare altre figure sociali, per quanto attualmente manchevoli o difettose, quali quella dell’agitatore politico, dell’organizzatore sindacale, eccetera, ma, soprattutto, senza far sua la prospettiva "orizzontale", immanentistica, venata — o piuttosto inquinata — di lotta di classe, insomma in concorrenza con ideologie laiche, materialiste e ateistiche, come il socialismo e il comunismo.
D’altra parte — anche qui è opportuno sgombrare il terreno da possibili malintesi — è evidente che un prete secolare vive nel mondo; che la sua vocazione religiosa è diversa da quella di un monaco o di una monaca di clausura (diversa, si badi, non certo superiore); e che, essendo immerso nel mondo, e i suoi parrocchiani con lui, non può certo disinteressarsi delle loro condizioni materiali di vita, così come non potrebbe farlo per le loro condizioni morali e spirituali: così è sempre stato, ed è giusto che sia. Il santo curato d’Ars, Jean-Marie Vianney — tanto per fare un esempio noto a tutti — non si "limitava" a celebrare le funzioni, a catechizzare i bambini, a confessare le anime, per ore ed ore, fin dalle primissime ore del mattino; ma fin da subito, appena giunto nella sua minuscola parrocchia, in quell’angolino di Francia apparentemente dimenticato da Dio e dagli uomini, si interessò e si impegnò per il miglioramento delle condizioni di vita dei suoi parrocchiani. Solo che lo fece — e questo, forse, è appunto quel che piace poco, o apertamente dispiace, a certi cattolici di sinistra — non già in un’ottica modernista, ma antimodernista; non adottando il punto di vista del mondo moderno, ma proponendo, in tutta la sua austera purezza, l’ideale eterno del Vangelo; e insomma non facendo assolutamente nulla che potesse suonare come un riconoscimento, e sia pure implicito, nei confronti della deriva della società verso i falsi miti e gli idoli blasfemi della modernità (il progresso, il denaro, il successo), ma affrontando a muso duro i vizi, e chiamandoli con il loro nome, senza false indulgenze o ipocriti compromessi. Celebre, in questo senso, è stata la sua battaglia contro il vizio del bere e contro il ballo: e tanto ha fatto e tanto si è prodigato, che alla fine le numerose osterie del paese han dovuto chiudere, una dopo l’altra, e le persone, invece di andare a spendere i loro pochi soldi per abbrutirsi con il vino, hanno ritrovato la sobrietà; mentre i giovani e le giovani hanno compreso i rischi insiti nella promiscuità e nella sensualità della danza e se ne sono astenuti, in vista di un ideale superiore di purezza nel rapporto fra l’uomo e la donna, e anche nei confronti di se stessi.
Certo, sono battaglie che, oggi, nessun prete avrebbe il coraggio di intraprendere; e, qualora lo facesse, immediatamente verrebbe bollato come retrogrado e oscurantista, e, senza dubbio, ripreso dai suoi stessi superiori, a cominciare dal suo vescovo, e richiamato ad un atteggiamento di maggiore docilità, comprensione e accomodamento verso le abitudini della società moderna. Tacciono, del resto, davanti a scandali ben peggiori del bere o del ballo, i preti e i vescovi dei nostri giorni; hanno praticamente smesso di parlare dell’aborto, per dirne una; e, semmai, li vediamo impegnati a discettare se e in che misura si possa concedere una equiparazione delle unioni civili al matrimonio religioso; se si possa riaccogliere nella Chiesa i divorziati; se non sia il caso di concedere una qualche forma di riconoscimento anche alle cosiddette unioni omosessuali. Sarà per questo che i cattolici progressisti e di sinistra non parlano mai di Jean-Marie Vianney, come non parlano mai di san Pio da Pietrelcina e, soprattutto (per carità!) mai e poi mai di san Pio X, che ebbe l’ardire di porre la scomunica per i preti e i fedeli modernisti? Sarà per questo che, parlando di pedagogia e di metodi educativi, hanno sempre in bocca don Lorenzo Milani, e citano in continuazione, come fosse un secondo Vangelo, la «Lettera a una professoressa», questo libello gonfio di rancore sociale e odio di classe, quasi che compendiasse il non plus ultra della carità evangelica; ma si guardano bene dal citare san Giovanni Bosco, che, in quanto a ragazzi, e a ragazzi difficili, è stato semplicemente un gigante, di una stoffa con cui si sarebbero potuti fare cento don Milani? Forse perché don Milani si ribellava al suo vescovo, contestava a destra e a manca, schiumava livore contro i suoi confratelli cappellani militari, mentre don Bosco agiva in perfetto spirito di carità, ma anche di umiltà, fedeltà e obbedienza ai superiori, al Papa e alla Chiesa tutta? Perché questo è il problema: i cattolici di sinistra credono più a Marx che a Cristo, ma non hanno il fegato di ammetterlo neppure a se stessi; e allora si fabbricano un Gesù Cristo tutto loro, con la barba di Che Guevara e il piglio di Karl Marx; un Gesù Cristo politico e rivoluzionario, venuto sulla Terra per raddrizzare i torti e sconfiggere l’odiata borghesia. E in base a questa contraffazione sacrilega, si permettono di distribuire patenti di "autentica fede" cristiana, "misurandola", ovviamente, in base ai risultati materiali, osservabili e numerabili.
Ma vediamo come ci viene presentata la figura di Pietro Trabattoni nel libro di Annibale Zambarbieri «Parrocchia e mondo contadino tra Ottocento e Novecento. Maleo e il parroco Trabattoni», Lodi, Centro di Cultura Paolo VI, 1980, pp. 65-67); libro che, diciamolo subito, ha l’impostazione di una monografia sociologica, e nel quale il fatto religioso appare come del tutto secondario, se non addirittura irrilevante ai fini di delineare la vita di una parrocchia rurale nella svolta fra XIX e XX secolo:
«Le strutture e la pratica della pietà popolare, la sociabilità favorita dalle confraternite e dal coinvolgimento in riti e cerimonie comuni, la catechizzazione e il radicarsi delle convinzioni religiose, ed anche, per contrappunto, la possibile, incipiente erosione di ataviche credenze, non esauriscono il panorama della parrocchia rurale lombarda tra ‘800 e ‘900. In questo periodo, l’istituto parrocchiale assume nuovi compiti che, nella sensibilità di parroci e di fedeli, non vengono considerati come alternativi o contrastanti rispetto alla devozione, ma piuttosto come esplicitazioni nuove di questa; uno sbocco diverso sì, ma di un’identica corrente che cerca di raggiungere i campi aperti dalla fase di sviluppo nell’economia e nei rapporti sociali. Né parroci né contadini sanno forse valutarne la portata complessiva, ma comunque giungono confusamente a percepirla. Tale trasformazione avviene anche nella piccola comunità rurale di Maleo; in particolare, è il suo parroco ad intuire il momento evolutivo e ad intervenire di conseguenza. […] è avvenuto qualcosa di importante: il destino della parrocchia rurale comincia ad esser visto sullo sfondo di un’economia complessa, dell’impiego della filanda, della protesta contadina, degli scioperi, dei contratti di lavoro e dell’emigrazione. Accanto al’insegnamento della dottrina cristiana, si sente l’urgenza della formazione di propagandisti sociali, dello studio della "Rerum Novarum", dell’esame delle proposte di patto colonico. Il parroco ne è conscio. Ci sono state conservate due frasi del Trabattoni che esprimono bene, magari con un certo gusto del paradossale, tale consapevolezza: "Le funzioni in chiesa sono necessarie; non meno però sono necessari i nostri propagandisti sulle piazze". "Mi preparo alle sedute con i propagandisti, con gli attivisti, con i candidati alle elezioni politiche ed amministrative, come mi preparo alla S. Messa" ("Disquisitio", p. 1). In altri termini: i doveri cultuali sono posti sullo stesso piano delle attività di promozione sociale.
Si vorrebbe penetrare nelle pieghe di tali convinzioni. Senza dubbio, rimane costante nel parroco quell’ispirazione religiosa che intendeva la carità soprattutto come beneficenza, praticata in un quadro di solidificate differenze sociali […]. Si tratta di un filo che percorreva non sono gli indirizzi pastorali del Trabattoni, ma che legava e connotava istituzioni e orizzonti mentali di gran parte del mondo cattolico. Scrivendo al sindaco del paese, il parroco di Maleo, al momento della sua elezione, affermò di voler collaborare con l’autorità civile sul terreno "della pubblica moralità e della beneficenza" (lettera del 10 giugno 1884). Molti anni dopo, il 12 marzo 1918, rivolgendosi al commissario governativo, ribadiva di sentirsi ministro di quella religione "il cui primo precetto è di sollevare gli indigenti".[…]
In un momento in cui si disquisiva in sedi prestigiose sull’essenza del cristianesimo, il parroco rurale, probabilmente ignaro di tali discussioni, sosteneva [nell’anniversario dell’istituzione della Società S. Vincenzo de’ Paoli) che "anima ed essenza del cattolicesimo" era da considerarsi la carità. Non solo, ma la risposta veramente efficace ai sofismi e alle negazioni degli illuministi e degli atei, consisteva per lui nelle opere di assistenza ai poveri. L’esempio dell’Ozanam gli appariva, in proposito, illuminante […].
Il cristianesimo "offeso" nella sua credibilità, nei suoi presupposti teorici e storici, andava dunque difeso, per il Trabattoni, certo con l’istruzione catechistica, con l’irrobustimento della pratica religiosa, ma soprattutto con l’esercizio della carità. La capacità di guarire, o alleviare, le piaghe della società diventava la misura dell’autenticità della fede cristiana.»
In questo brano di prosa abbiamo un classico esempio della mentalità cattolica progressista, e ci riferiamo più all’Autore che al Trabattoni. Non è nostro compito, né possediamo le necessarie competenze, per giudicare un uomo e un sacerdote il cui processo di canonizzazione è tuttora in corso; ci limitiamo ad osservare che quelle due frasi: «Le funzioni in chiesa sono necessarie; non meno però sono necessari i nostri propagandisti sulle piazze» e «Mi preparo alle sedute con i propagandisti, con gli attivisti, con i candidati alle elezioni politiche ed amministrative, come mi preparo alla S. Messa», se autentiche, sono indegne di un sacerdote e mostrano fino a che punto la smania modernista può contaminare il ministero sacerdotale (è vero che attivismo sociale e modernismo sono due cose diverse; ma, in pratica, vediamo che spesso convergono e hanno quali protagoniste le stesse persone: valga per tutti il caso di Romolo Murri). Diciamo meglio: non l’attivismo sociale in se stesso, ma lo spirito con il quale viene esercitato. Non c’è nulla di male, infatti, al contrario, nel desiderare per i propri parrocchiani un più alto livello di istruzione; dei salari più consoni e un più decente livello di vita; o, infine, un maggiore senso di partecipazione alla vita comune e, quindi, anche un esercizio più attivo dei diritti civili.
Quello che non va bene, da un punto di vista cristiano, e tanto più dal punto di vista di un sacerdote, è il coinvolgimento nell’attività sociale, o, addirittura, nell’attività politica — cosa, quest’ultima, secondo noi sempre sconsigliabile: e il caso di don Sturzo ce ne dà la conferma; perché un buon prete non sarà mai un buon politico, o, se sarà un buon politico, non sarà un buon prete — nella prospettiva immanentistica propria del mondo profano, cioè mirando essenzialmente al risultato materiale, e finendo per trascurare del tutto la dimensione spirituale, sia per sé che per gli altri fedeli. Occorre sempre ricordare l’aureo motto: «Salus animarum, in Ecclesia, suprema lex». Un prete che si consideri soddisfatto qualora i suoi parrocchiani abbiano migliorato la loro situazione economica e sociale, ma si siano allontanati da Dio, sarà, a sua volta, un prete che si è allontanato da Dio e dai suoi sacri doveri verso le anime che gli furono affidate, e delle quali deve rispondere, davanti alla sua coscienza, davanti alla Chiesa e davanti a Dio medesimo. E quelli che opinano in altro modo, vuol dire che hanno scambiato il Vangelo per il «Manifesto del partito comunista», cioè non hanno capito nulla del cristianesimo.
Là dove l’Autore del brano sopra riportato tradisce la sua prospettiva di cattolico di sinistra, è quando afferma che «Il cristianesimo "offeso" nella sua credibilità, nei suoi presupposti teorici e storici, andava dunque difeso, per il Trabattoni, certo con l’istruzione catechistica, con l’irrobustimento della pratica religiosa, ma soprattutto con l’esercizio della carità. La capacità di guarire, o alleviare, le piaghe della società diventava la misura dell’autenticità della fede cristiana». Ma questa è, puramente e semplicemente, apostasia. Primo, qui si dà per scontato che "l’esercizio della carità" consista nell’organizzare i fedeli in senso sindacale, politico, ideologico: il che non è vero affatto. Madre Teresa di Calcutta non faceva opera di carità, quando raccoglieva i moribondi abbandonati sui marciapiedi di Calcutta, e li portava a morire dignitosamente, riconciliarti con Dio e con il prossimo e infiammati dalla speranza nell’altra vita? Ne faceva, eccome, quanto diecimila Trabattoni: con tutto il rispetto del caso. Punto secondo: il criterio per "misurare" (bella, questa espressione! sa tanto di positivismo) l’autenticità della fede cristiana, consisterebbe dunque nel saper "guarire", o almeno "alleviare", le piaghe della società? Straordinario: non lo avremmo mai immaginato. Noi, modestamente, pensavamo che tale criterio consistesse nell’amore verso Dio e verso il prossimo. Le "piaghe della società", le quali, fra l’altro, non sono — come qui si dà per scontato — solo quelle economiche e materiali, ma anche, e soprattutto, quelle morali e spirituali, non avevamo mai saputo che fosse compito del sacerdote cattolico "guarirle" o "alleviarle", cioè incidere su di esse in maniera tale, da vedere e poter quantificare un effettivo risultato di segno positivo. Non avevamo mai saputo che l’autenticità della fede cristiana si misuri dal fatto che il cristiano sappia "guarire" o "alleviare" le piaghe sociali, ma, semplicemente, pensavamo che si misuri dal fatto che egli sappia amare Dio e il prossimo. Se, poi, ottiene un risultati visibile, tanto meglio: ma il successo non è certo la misura della sua fede. Basti pensare ai martiri del Giappone, i quali affrontarono la morte per diffondere il Vangelo in un Paese che non lo ha accolto, e dove le conversioni si contarono sulla punta delle dita. Questo significa che il bravo missionario è colui che battezza migliaia di persone, mentre è un mediocre missionario colui che, pur donando tutto se stesso, con amore incondizionato, non riesce a portare verso Dio neppure un’anima? Oppure, restando sul terreno sociale, tanto caro ai cattolici progressisti, questo significa che è un buon prete colui che organizza leghe contadine e casse di mutuo soccorso, che consiglia gli scioperanti, che sostiene i candidati cattolici nelle elezioni politiche, mentre non lo è quello che si "limita" a prendesi cura delle anime, che passa ore e ore nel confessionale, che accorre nelle case dove ci sono dei malati, dei sofferenti, che consiglia, che conforta, che prega insieme alle sue pecorelle, perché tutto questo sarebbe solo "misticismo" e non produce risultati verificabili e misurabili?
Da come parlano, da come ragionano, li si può riconoscere. Del resto, i cattolici di sinistra non esistono, la stesa espressione è una contraddizione in termini. O si è cristiani, o non lo si è; o si accoglie il Vangelo, o lo si rifiuta. Non lo si può accogliere in maniera strumentale, forzandone il significato "a sinistra"; per poi brandirlo, magari, come un clava, contro gli "altri" cristiani…
Fonte dell'immagine in evidenza: Foto di Chad Greiter su Unsplash