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La natura è bella, ma è “vera” solo in quanto rimanda alla dimensione spirituale

Nella filosofia di George Berkeley (1685-1753), un pensatore del quale ci siamo più volte occupati (cfr. «Introduzione alla filosofia di George Berkeley»; «Dietro il progetto delle Bermuda la battaglia di Berkeley contro i liberi pensatori»; «Vi è continuità o rottura nel pensiero di George Berkeley?» pubblicati sul sito di Arianna Editrice, rispettivamente, il 10/05/2007, il 22/12/2010 e il 15/09/2014, e ripubblicati recentemente su «Il Corriere delle Regioni»), il nodo centrale è la convinzione che tutta la realtà empirica si riduca a percezione del soggetto; anche se Berkeley supera il pericolo di un empirismo immanentistico e chiuso in se stesso, cioè solipsistico, mediante il ricorso allo Spirito assoluto, Dio, il quale, pensando le cose nelle nostre menti, conferisce ad esse un significato che va ben oltre la dimensione del soggettivismo, ed esercita una presenza attiva nel mondo.

Il motto fondamentale di Berkeley è: "Esse est percipi", "essere è l’essere percepito": nulla esiste, nella nostra coscienza, se non ciò che percepiamo con i sensi e rielaboriamo con la mente; nulla possiamo dire che esista "fuori" di noi, indipendentemente da noi (tranne Dio), nessun mondo "materiale", perché l’unico mondo che esiste, per noi, è quello del quale facciamo esperienza, ossia che percepiamo per mezzo dei nostri organi di senso e rielaboriamo intellettualmente; e di un mondo esterno sussistente in sé e per sé nulla possiamo dire, se non che noi non abbiamo, né mai avremo, alcuno strumento per accertarne l’esistenza effettiva. Questo immaterialismo spiritualista pone, naturalmente, il problema del valore di realtà che dobbiamo attribuire alle nostre "idee", tenendo presente che, nella filosofia inglese del XVIII secolo, "idea" significa, semplicemente, "contenuto mentale", e non già concetto originario ed auto-sussistente.

In altre parole: come si fa a distinguere le idee reali da quelle puramente fantastiche, prodotte dall’immaginazione, a cominciare da quelle che vediamo in sogno, e alle quali abbiamo l’impressione di partecipare anche come parte attiva?

Su tale problema, ci piace riportare una pagina di Aldo Agazzi (1906-2000), uno dei più autorevoli pedagogisti d’ispirazione cristiana del secolo testé trascorso (in: A. Agazzi, «Problemi e maestri del pensiero filosofico», Brescia, la Scuola Editrice, 1957, vol. 3, 210-211):

«Nulla esiste, dunque, là dove non ci sia uno spirito che, col suo pensiero, suscito l’una o l’altra cosa [cioè il percepire o l’essere percepito, il modo attivo e il modo passivo dell’essere spirituale]?

Quando io esco da questa camera cessano d’esistere questi mobili, questi quadri? Sono io solo a farli essere? Quegli alberi che erano già in fondo al parco, non ci sono più, là in fondo, da soli, senza di me, ora che io sono qui? Ora che essi sono lontani dal mio pensiero?

Badiamo all’illusione. Quando io dico: non ci sono più, da soli, fuori dal mio pensiero quegli alberi laggiù nel parco; sono io, in realtà, che li PENSO laggiù da soli nel parco. È semplicemente un "formare nella nostra mente certe idee che chiamiamo alberi, omettendo, nello stesso tempo, di formare l’idea di qualcuno che li percepisce", sicché quegli alberi che mi sembrano fuori e "lontani" dal pensiero li esprimo proprio nel mio pensiero come tali ed a sé. Così si dia: di qualunque realtà che io immagini esistente indipendente da me: con lo stesso pensarla per conto proprio la creo come idea a sé nella mia mente.

Non esistono cose a sé, fuori del pensiero: esso, pensandole, le fa essere come propri prodotti e contenuti, ossia come proprie IDEE. Non si va oltre la propria esperienza.

Tuttavia ognuno intuisce nelle proprie rappresentazioni due diversi tipi di idee: le IDEE IMMAGINARIE, quelle che noi possiamo produrre ed evocare a volontà, SENZA L’IMPRESSIONE DI PRESENZA D’UN OGGETTO REALE, nei confronti delle quali siamo attivi e produttori effettivi; e quelle di sensazione, verso le quali ci sentiamo PASSIVI, perché ci sono date come IDEE REALI (le così dette cose). Sono nella mia mente, e sono perciò idee, tanto un PANE REALE quanto un PANE IMMAGINARIO; ma essi non sono della stessa natura. La loro essenziale differenza è fatta anche più evidente dal fatto che, mentre le idee immaginarie dipendono da me e perfino dal mio capriccio, LE IDEE REALI NON POSSO PRODURLE A MIA VOLONTÀ E NON DIPENDONO DA ME; esse "devono perciò esistere in qualche altra mente, la quale vuole che mi siano mostrate": ed esse sono tali in numero, ordine e perfezione, che lo Spirito che le produce non può essere che lo Spirito divino, Dio. E Dio, come produttore di idee, perché nulla è se non in quanto percepito, o in quanto attività percipiente, è necessariamente spirituale.

Noi produciamo soltanto idee fantastiche; le idee reali sono prodotte dallo Spirito creatore: la nostra percezione fa esistere i corpi come contenuti del nostro pensiero; quella divina fa essere i corpi come realtà. Anch’essi sono, però, per forza SPIRITUALI. Da Dio viene così il "corpo" che muove la facoltà nostra spirituale, e le nostre idee sono vere quando corrispondono e s’accordano con quelle divine: rappresentazioni e cose coincidono.

Il mondo era fatto il prodotto continuo del pensiero di Dio. In questa concezione, se Dio cessasse di pensare il mondo o di pensarlo qual è, il mondo cesserebbe di esistere, o diventerebbe subito un altro e diverso mondo. Il pensiero divino regola, anzi costruisce, continuamente, la natura.

Il sistema del Berkerley fissava quindi i seguenti punti:

– nulla è affermabile fuor della nostra esperienza, anzi della nostra attiva produzione percettiva; ESSERE È ESSERE PERCEPITO, ESSE = PERCIPI;

– le idee sono passive, solo lo spirito è attivo e produttivo: L’INTELLETTO QUINDI NON È UNA TABULA RASA, È UN’ATTIVITÀ ORIGINARIA, CREATRICE DELLA PROPRIA ESPERIENZA;

– tanto le nostre idee, quanto le idee reali (cose) son prodotti SPIRITUALI, le prime del nostro spirito, le seconde dello spirito divino, che ha prodotto anche noi stessi, spiriti produttivi di idee fantastiche, corrispondenti alle sue idee: il mondo è cioè; in ogni modo, solo spiritualità, NON ESISTE MATERIA; il materialismo, fondamento dell’ateismo, è un’illusione banale, una concezione acritica;

– se ESSERE È ESSERE PENSATI, e COME SI È PENSATI tutto quanto è nel mondo, anche minimo è, ed è quale, solo perché così lo pensa-produce Dio: nulla allora di più possibile del miracolo. Basta che Dio muti il coso del suo pensiero, perché sia mutato il corso del mondo; che è miracolo? Un’idea divina; nel mondo, quindi, tutto è continuo miracolo.

Il Berkeley aveva originariamente abbattuto i motivi della miscredenza materialistica e dell’esclusione del finalismo e dell’intervento divino dal meccanicistico mondo della scienza causalistica.

E questo in forza del suo IDEALISMO.

Se non che il suo idealismo, di fatto, dopo aver concluso, con l’ESSE EST PERCIPI, che ogni esistenza non è che una produzione del pensiero, aveva ricostituito, con la differenza tra IDEE FANTASTICHE ed IDEE REALI, la posizione del realismo, ossia la concezione di un mondo a sé, indipendente da noi, quello delle idee reali-cose. Le cose sono spirituali, ma son DATE allo spirito umano: esiste un Dio trascendente e un mondo a sé contro a noi. Le idee reali non le creiamo noi.

Il suo era dunque un IDEALISMO REALISTICO. Il punto più fermo della sua speculazione era, se mai, questo: ogni e qualsiasi realtà è di natura spirituale; egli aveva cioè affermato un REALISMO SPIRITUALISTICO, che s’incontrava insieme con male branche (mondo-idee divine, con cui Dio muove lo spirito, e mondo eterno miracolo) e col Leibniz (tutto è spirituale).»

Secondo Aldo Agazzi, dunque, l’idealismo di Berkeley non sarebbe un idealismo perfetto, perché riconosce l’esistenza di un mondo esterno all’io, sul quale l’io non può agire, ma rispetto al quale, anzi, è passivo: quello delle idee reali, che esistono in se stesse, fuori dello spirito che le pensa. Però, a ben guardare, tali idee non esistono veramente in se stesse, ma solo nella mente dello spirito che le pensa: che è lo spirito infinito, cioè Dio. Ora, ammettere che Dio sia esterno alla mente umana, non ci sembra che sia una nozione tale da inficiare la coerenza e la coesione di un sistema filosofico idealista: perché quelle forme di idealismo che negano la distinzione fra l’io e Dio, in sostanza, cadono inevitabilmente nel panteismo, che è una forma ibrida — quella sì — di concezione filosofica, un ircocervo, poiché pone Dio come il mondo, ma anche il Mondo come dio, sicché non si riesce a capire se questo Dio-mondo, o, se si preferisce (a seconda dei gusti, evidentemente), questo Mondo-dio, sia di natura materiale oppure spirituale. E a questo tipo di ambiguità appartiene anche l’idealismo di Hegel e di tutti gli hegeliani; con l’aggravante che, in esso, non si riesce neppure a distinguere i limiti dell’io da quelli di Dio, sicché io e Dio finiscono per diventare una cosa sola, lo Spirito (ma di chi? di che cosa?); e non basta, evidentemente, parlare di Spirito Assoluto per risolvere la questione, perché questo è un giocare con le parole.

Ora, tornando a Berkeley: se riconoscere che vi sono idee non create da noi, equivale a definire il suo idealismo come un realismo spiritualistico, la cosa va benissimo e non implica alcuna contraddizione; l’importante è prendere atto che si tratta di un immaterialismo, perché la cosa più importante, nel sistema di Berkeley, è la inessenzialità della materia. Nel modo di pensare comune, si tende a far coincidere il significato di "realismo" con quello di "materialismo"; ma ciò, evidentemente, è sbagliato. Si può credere nella realtà del mondo, senza per questo credere nella sua natura materiale: in questo senso, è esatto affermare che quello di Berkeley, più che un "idealismo" (tutto è idea, tutto l’essere proviene dal pensiero), e più ancora che un "realismo" (esiste una realtà indipendentemente dal nostro pensiero e dalla nostra coscienza), è un "empirismo" assoluto (tutto ciò che conosciamo proviene dall’ esperienza dei sensi). Il pensiero di Berkeley è un pensiero cristiano; e il cristianesimo vede il mondo, lo riconosce, lo accoglie (realismo), ma non obbliga nessuno a pensarlo come sussistente in se stesso, ossia come materiale: al contrario, questo sarebbe naturalismo. Ma il cristianesimo non è "naturalista", perché vede, riconosce e accoglie la natura, ma, nello stesso tempo, le pone dei limiti: non tutto, in essa, è vero e buono; la natura originaria era perfetta, ma la natura attuale è una natura imperfetta, perché decaduta dopo il fatto del Peccato.

La particolarità dell’empirismo di Berkeley, rispetto a quello di Locke e di Hume, e che lo differenzia nettamente da essi, è la negazione che l’intelletto, anteriormente all’esperienza, sia una "tabula rasa", una pagina bianca: perché, per esso, le idee non sono attive, ma passive, mentre è solo lo spirito ad essere attivo. Ed è la negazione della anteriorità dell’esperienza rispetto alla coscienza a collocare Berkeley in una galassia concettuale lontanissima da quella di Locke e di Hume: per costoro, tutto quel che l’uomo conosce, lo conosce grazie all’esperienza dei sensi; per Berkeley, l’uomo conosce attraverso i sensi, ma c’è qualcosa, in lui, che non proviene dai sensi: il fatto del pensare e dell’organizzare il proprio pensiero, che è attività spirituale originaria, simile, in certo qual modo, a quella di Dio. La differenza fra il conoscere dell’uomo e il conoscere di Dio è che l’uomo può pensare, e perciò "creare", solo alcune cose, quelle fantastiche; Dio, invece, crea tutto ciò che pensa, e quindi crea anche noi e la nostra conoscenza, con il fatto di pensarci e con il fatto di pensare, in noi, il "mondo" che percepiamo attraverso i sensi. Ma i sensi, per noi, sono solo lo strumento "esteriore" del conoscere; lo strumento effettivo è il pensiero di Dio, che, suscitando in noi tutto ciò che vediamo, udiamo, tocchiamo ecc., produce un miracolo continuo e incessante, che è, esso stesso, un miracolo inesauribile di bellezza, di sapienza e di armonia.

Berkeley è un pensatore che si stupisce davanti alla bellezza e alla varietà del mondo; dalle pagine delle sue opere, e particolarmente dai «Dialoghi di Hylas e Philonous» e dall’«Alcifrone», spira un’atmosfera d’incanto, come se il mondo si rivelasse per la prima volta, in tutta la sua freschezza, uscendo intatto e meraviglioso dalle mani sapienti del suo Creatore. Questa è una caratteristica estremamente rara, ed è la prova del fatto che l’immaterialismo di Berkeley non equivale, in nessun modo, a un disdegno o a un disprezzo nei confronti della natura. La natura è bella; e la materia, per quel che appare ai nostri sensi, ne è l’espressione: però essa è illusoria, non ha consistenza, né valore in se stessa, ma è segno di qualcos’altro — della presenza di Dio. In questo senso, Berkeley è l’ultimo filosofo medievale; così come Bach, suo contemporaneo, è l’ultimo musicista medievale…

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Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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