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23 Gennaio 2016La campagna austro-tedesca del 1916 contro la Romania è stata un autentico capolavoro strategico; una delle pagine più brillanti di storia militare nella Prima guerra mondiale, ossia in quel grande carnaio ove, per quattro anni e mezzo, la casta militare europea, nel suo insieme, diede mostra di una incredibile ottusità e di una assoluta incapacità di apprendere qualcosa dall’esperienza concreta di ciò che stava accadendo sui campi di battaglia. Una guerra è sempre un fenomeno umanamente doloroso; una guerra che è costata circa 10 milioni di morti, rappresenta una tragedia senza precedenti; ma peggio di qualsiasi cosa, compreso il numero altissimo delle perdite, è lo spettacolo desolante degli Stati maggiori che, in un arco di tempo così lungo, non seppero quasi mai far di meglio che scaraventare frontalmente masse di fanti contro l’insuperabile binomio filo spinato-mitragliatrice, esponendole insensatamente al macello. Nemmeno la potenza spaventosa delle artiglierie medie e pesanti riuscì ad offrire alle fanterie una protezione adeguata, perché i rifugi interrati consentivano ai difensori di attendere che il fuoco nemico venisse sospeso o portato in avanti per non colpire gli attaccanti, e quindi di tornare in posizione al momento fatale del contatto fisico; e i reticolati si rivelarono quasi impossibili da distruggere perfino per gli obici e le bombarde. Così, per più di quattro anni e mezzo, tanti generali come Cadorna non seppero fare altro che proseguire con gli assalti frontali, anche dopo che si era mostrata tutta la loro sanguinosa inutilità; e né i gas asfissianti, né i primi carri armati, né, tanto meno, l’arma aerea, si rivelarono capaci di modificare sostanzialmente tale situazione di stallo. Rimasero spazi di manovra per la guerra di movimento solo sul fronte orientale, dove la sproporzione tecnologica e soprattutto la scarsità di armi e munizioni nell’esercito russo crearono le condizioni per superare la terribile potenza delle armi difensive rispetto a quelle offensive; cui si aggiunse, negli ultimi mesi di guerra, il diffondersi dello spirito rivoluzionario, che provocò una sorta di sciopero in massa delle truppe. Operazioni come la conquista delle isole di Ösel, Dagö e Mohn, o come il forzamento della Dvina Occidentale, all’altezza di Riga, sarebbero state impossibili sul fronte occidentale, perché, dove esisteva un rapporto equilibrato fra gli eserciti, nulla si mostrò sufficiente a superare il binomio filo spinato-mitragliatrice. Nel novembre del 1918 gli Imperi centrali dovettero deporre le armi per sfinimento, nel senso letterale del termine, e per l’immenso divario numerico realizzatosi sul fronte occidentale dopo l’intervento statunitense; non certo per una superiorità strategica alleata.
La campagna di Romania del 1916 rappresenta, in tanto grigiore dell’arte militare, un episodio veramente brillante, se è lecito usare questo aggettivo riferendosi a quella triste realtà che è la guerra. Quando il governo di Bratianu dichiarò la guerra all’Austria-Ungheria, il 27 agosto, e l’esercito romeno varcò la frontiera, la situazione strategica complessiva degli Imperi centrali era quanto mai critica. Sul fronte occidentale, il più importante, il calcolo di von Falkenhayn di logorare l’esercito francese nella immane fornace di Verdun si era rivelato errato, e nessuna svolta significativa si era verificata a favore della Germania; sul fronte italiano, vi era stata la conquista di Gorizia da parte dell’esercito italiano (Sesta battaglia dell’Isonzo, 4-17 agosto 1916), che aveva, sì, provocato grandi aspettative da parte degli Alleati, ma che non aveva condotto al sospirato sfondamento risolutivo; sul fronte orientale, il generale russo Brusilov aveva realizzato un brillante sfondamento delle linee austriache in Volinia, Galizia e Bucovina, catturando una enorme quantità di prigionieri e di cannoni, ma, anche qui, l’offensiva si era arenata per mancanza di truppe fresche di rincalzo e di adeguate scorte di munizioni (cfr. il nostro saggio: «La battaglia di Łuck (giugno-ottobre 1916)», pubblicato sul sito di Arianna Editrice il 22/08/2007, oltre che sui siti di Ars Militaris e di It.Cultura.Storia.Militare). Sul fronte della Macedonia, poi, i Bulgari erano costretti sulla difensiva, dopo che a Salonicco gli Alleati avevano formato una testa di ponte (violando la neutralità della Grecia) e che divisioni francesi e serbe avevano lanciato una offensiva per strappare ai Bulgari le posizioni chiave fra la valle del Vardar e il Lago di Prespa; infine, nel Medio Oriente, fallito miseramente il tentativo alleato di penetrare negli Stretti (reimbarco delle truppe a Gallipoli, gennaio 1916), gli eserciti turchi erano stati pesantemente impegnati sul Canale di Suez, in Armenia (dove avevano proceduto al genocidio organizzato della popolazione cristiana) e in Mesopotamia (cfr. i nostri saggi: «La prima offensiva turco-tedesca contro il Canale di Suez (febbraio 1915)» e «La seconda offensiva turco-tedesca contro il Canale di Suez (agosto 1916)», pubblicati sul sito di Arianna Editrice, entrambi il 06/01/2014, e ora ripubblicati su «Il Corriere delle Regioni»). Su tutti i fronti, quindi, le forze degli Imperi centrali, complessivamente assai inferiori a quelle degli Alleati (nel 1914 potevano mettere in campo 3 milioni e mezzo di soldati, senza contare le forze navali, su una popolazione di 118 milioni, mente l’Intesa schierava 5,7 milioni di soldati su una popolazione di 258 milioni; e il rapporto di forze, nel 1916, si era ulteriormente sbilanciato a favore degli alleati), erano prive di riserve per fronteggiare ulteriori impegni o nuove minacce.
Eppure, il binomio Hindenburg-Ludendorff, che prese la direzione suprema dell’esercito tedesco dopo il palesarsi dell’insuccesso di Verdun, seppe far fronte in maniera straordinariamente efficace e tempestiva alla minaccia, tanto più che il generale Falkenhayn, precedente capo di Stato maggiore, e ora comandante della 9a Armata sul fronte transilvano, aveva previsto l’intervento in guerra della Romania e aveva predisposto per tempo una intelligente strategia difensiva. Le condizioni geografiche del teatro di operazioni facilitavano, per gli Imperi centrali, una manovra per linee interne (la stessa che aveva portato, ma su piccola scala, il binomio Hindenburg-Ludendorff allo strepitoso, duplice successo di Tannenberg e dei Laghi Masuri, nel 1914, peraltro su piani già predisposti dal colonnello Hoffmann). La provincia ungherese – abitata però da una popolazione in maggioranza romena, insieme a grossi nuclei magiari e tedeschi -, si incuneava profondamente fra le due province romene della Valacchia, a sud, e della Moldavia, a est: essa era la meta immediata e naturale di una offensiva dell’esercito romeno, rappresentando, per quel Paese, ciò che Trento e Trieste rappresentavano per i piani strategici italiani, ossia una duplice obiettivo, sia militare che politico. Tuttavia la Romania aveva anche una frontiera meridionale da difendere, quella con la Bulgaria, alleata degli Imperi centrali e desiderosa di recuperare la Dobrugia, persa con la Seconda guerra balcanica. Una offensiva romena verso la Bulgaria avrebbe consentito di stabilire un collegamento con l’Armata d’Oriente del generale Sarrail, raggruppata nella zona di Salonicco, ma non sarebbe stata altrettanto popolare nel Paese. Dunque, sapendo dove avrebbero colpito i Romeni, Hindenburg e Ludendorff ebbero la possibilità di preparare le contromosse: ritardare, con un semplice velo di truppe, l’avanzata romena in Transilvania, e predisporre la controffensiva sul Danubio poi, vibrare il colpo contro l’ala sinistra romena, forzando i passi delle Alpi Transilvaniche e congiungendosi con l’esercito di Mackensen, risalente dalla Bulgaria. Le truppe sarebbero state raggranellate un po’ qua e un po’ là, dai settori tranquilli degli altri fronti, sfruttando il tipico vantaggio di una manovra per linee interne: quello di poter spostare le truppe all’insaputa del nemico e gettarle nella lotta nel punto e nel momento voluti, puntando sul fattore sorpresa.
Così sintetizza la campagna romena del 1916 Riccardo Posani, nella sua bella monografia «La Grande Guerra 1914-1918», Firenze, Sadea/Sansoni Editori, 1968, vol.2, pp. 571-575):
«La Romania aveva messo in campo 640.000 uomini suddivisi in quattro armate (1a, 2a, 3a ed l’Armata del nord) ed in una riserva generale. Comandante supremo era il re Ferdinando, che aveva al suo fianco, oltre al capo di Stato maggiore, anche il generale francese Berthelot, in veste di consigliere militare. L’esercito romeno disponeva, però, di poche armi automatiche e di poche artiglierie pesanti. Mentre la 3a Armata venne schierata lungo il Danubio, con un compito di protezione, le altre grandi unità, con l’ala destra appoggiata all’ala sinistra dell’esercito russo, erano schierate con fronte a nord in chiaro atteggiamento offensivo lungo il confine con la Transilvania.
Per gli Imperi centrali la situazione era critica; impegnati duramente su ogni fronte dalle offensive alleate in corso, si trovavano nuovamente a dover affrontare, e in condizioni assai peggiori, la soluta scelta; ma mentre il Falkenhayn, nove mesi prima, aveva deciso per l’attacco contro il nemico più forte [a Verdun, contro i Francesi], il "binomio" [cioè Hindenburg e Ludendorff] scelse, senza esitazioni, il contrario: l’attacco contro il più debole, contro la Romania.
Furono costituite, allora, tre armate sotto il comando dell’arciduca Carlo d’Asburgo, una delle quali (la 1a austro-ungarica sotto il comando del generale Arz von Straussenberg e la 9a austro-germanica comandata dal generale Falkenhayn) schierate in Transilvania, mentre la terza, composta da divisioni tedesche bulgare e turche e comandata dall’ottimo generale tedesco von Mackensen, era schierata a sud del Danubio.
Come si è visto, le tre armate romene del settore settentrionale erano avanzate alla dichiarazione di guerra in Transilvania [il 27 agosto del 1916], praticamente senza incontrare resistenza. Contemporaneamente, alla loro destra, il generale Brussilof aveva ripreso l’offensiva, ma dopo qualche giorno l’azione russa si esauriva.
Il 1° di settembre ‘armata mista di von Mackensen invase la Dobrugia, regione a est del Danubio, occupò le città di Tortukai e di Silistria ed accennò una conversione verso nord. Il Cokando rimeno, allora, preoccupato per la minaccia dal sud verso la ferrovia Bucarest-Cernavoda-Costanza, fu obbligato a togliere alcune divisioni dalla Transilvania. Questa sottrazione, se da un lato contribuì ad arrestare verso la metà di settembre l’avanzata di von Mackensen, dall’altro rallentò la marcia delle armate settentrionali in Transilvania. Ed il 19 settembre, mentre l’armata del generale Arz conteneva le divisioni russe e romene al punto di saldatura dei due eserciti, armata di Falkenhayn avanzò verso sud e fra il 26 ed il 29 inflisse una dura sconfitta alla 1a Armata romena ad Hermanstadt (oggi Sibiu). I romeni, ripiegando, trascinarono con sé anche le trippe della 2a Armata; ai primi di ottobre tutte le conquiste territoriali fatte in Transilvania nei primi giorni di guerra erano perdute.
Il 19 ottobre le forze degli Imperi centrali attaccarono contemporaneamente su tutto il fronte; a nord, tuttavia, le armate del Falkenhayn e di Arz furono fermate dopo qualche progresso sui passi delle Alpi tran silvane e dei Carpazi; a sud, invece, l’armata mista di von Mackensen, dopo una battaglia durata tre giorni, tagliò la ferrovia Bucarest-Costanza, occupando quest’ultima città.
Il "binomio", allora, modificò in parte i piani iniziali; il generale von Mackensen, lasciate poche truppe sul fronte a nord dell’allineamento Cernavoda-Costanza, doveva spostare il grosso dell’armata ad occidente ed attaccare in concomitanza della armata di Falkenhayn, in direzione di Bucarest. Falkenhayn doveva avanzare verso su d attraverso i tre passi di Szurduk, Vulcan e Rother Thurm. L’altra armata, la 1° austro-ungarica, doveva mantenere la pressione contro la 9a Armata russa e l’Armata del nord romena.
Ai primi di novembre Falkenhayn ricevette il rinforzo di cinque nuove divisioni di fanteria tedesche e di due di cavalleria. L’11 novembre, dopo un’azione dimostrativa contro il passo di Rother Thurm, l’armata di Falkenhayn attaccò in forze i passi di Szurduk e Vulcan, li superò, e, dilagando in pianura, batté i romeni a Turgu-Jiu; il 21 novembre l’ala destra di Falkenhayn era a Craiova e le forze romene che difendevano la regione occidentale di Orsova, alle Porte di Ferro, venivano così tagliate fuori. Anche il passo di Rother Thurm cadeva. Frattanto il grosso del’armata mista di von Mackensen, passato il Danubio fra Sistova e Simnitza, prendeva contatto con le truppe di Falkenhayn. Il 4 dicembre le cinque divisioni romene, schierate lungo il fiume Arges a difesa della capitale, erano battute ed il 6 le truppe degli Imperi centrali entravano in Bucarest. Il governo romeno si era trasferito ad Jassy, mentre quel che rimaneva dell’esercito si sganciava penosamente dall’attacco tedesco e ripiegava dietro il Sereth ed il basso corso del Danubio, dopo aver perduto più di duecentomila uomini. Un’armata russa, richiesta dagli Alleati ed accordata dal generale Alexeiev, non aveva fatto in tempo ad intervenire, nel momento critico della battaglia; infatti, dato il precedente atteggiamenti filo-germanico del governo romeno, i russi avevano arrestato le loro ferrovie fino a trenta chilometri dalla frontiera romena. Solo negli ultimi giorni di dicembre e nei primi del gennaio 1917 i russi riuscirono ad entrare in linea a fianco dei romeni, cercando di rallentare l’avanzata germanica verso il Sereth. Lungo questo fiume il fronte si stabilizzò, prolungandolo schieramento russo. In meno di quattro mesi il "binomio H.-L." aveva ottenuto un grandissima vittoria: aveva eliminato l’esercito romeno, aveva salvato l’Austria dal disastro ed aveva assicurati agli Imperi centrali i preziosi prodotti del suolo e del sottosuolo romeni.»
Riassumendo. I Romeni commisero l’imprudenza di concentrare tutti i loro sforzi, e di impegnare le loro truppe migliori, nell’invasione della Transilvania: ma l’obiettivo più popolare per l’opinione pubblica non è, necessariamente, quello più opportuno sul piano strategico. In guerra, come insegna von Clausewitz, l’obiettivo non è territoriale, ma consiste nel colpire e, possibilmente, distruggere l’esercito nemico, riducendo la nazione avversaria all’impotenza. Partendo dalla Transilvania, i Romeni avevano pochissime probabilità di infliggere un colpo mortale all’Austria-Ungheria: i centri vitali della Duplice monarchia — Budapest e Vienna – erano troppo lontani, ed essi non avevano sufficiente mobilità per raggiungerli in poche settimane. Tutt’al più, avrebbero dovuto concentrare i loro sforzi all’estremità settentrionale del fronte, in modo da agire in maniera coordinata con l’esercito russo: ma non lo fecero per diffidenza politica (le ambizioni romene sulla Bucovina erano in concorrenza con quelle russe), senza contare che i piani del tempo di guerra configuravano — come nel caso dell’Italia, del resto — uno scenario completamente opposto, ossia un intervento a fianco degli Imperi centrali e contro la Russia. Infine, era sbagliato anche il momento: la Romania attese troppo a entrare in guerra, perché, a fine agosto, l’offensiva Brusliov si stava già esaurendo, e anche la spinta italiana nella Sesta battaglia dell’Isonzo si era fermata.
Quando von Mackensen avanzò sulla ferrovia Bucarest-Costanza, l’alto comando romeno dovette sottrarre alcune divisioni al settore della Transilvania per parare la minaccia; e, a quel punto, la nuova armata di Falkenhayn ebbe buon gioco nell’attaccare e battere i Romeni e nel forzare i passi di Szurduk e di Vulcan, poi di Rother Thurn. Ciò avvenne giusto in tempo: fu una corsa fortunata contro il sopraggiungere delle nevi invernali, che avrebbero bloccato i passi e stabilizzato il fronte sul crinale delle Alpi transilvaniche. I Tedeschi ebbero una dose di fortuna che premiò la loro audacia e il loro coraggio concettuale: quello di aver lasciata sguarnita la Transilvania, mirando non già a evitare l’invasione, ma a preparare le condizioni per la controffensiva. In altre parole, i Romeni puntarono alla conquista del territorio, i Tedeschi alla vittoria mediante la distruzione del nemico. La loro strategia era migliore. Se si aggiunge che era anche assai migliore la qualità del loro addestramento e del loro armamento, il quadro diventa ancora più chiaro, e l’esito quasi scontato. Le truppe romene erano numerose, ma poco addestrate, e avevano poche armi moderne: pochi cannoni e mitragliatrici. La mentalità dei loro comandanti era ancora ottocentesca. Pure, l’esito non fu così scontato come poteva apparire: più di una volta le sorti della lotta rimasero in bilico. Ancora pochi giorni, e le nevicate avrebbero impedito a von Falkenhayn di dilagare in pianura; e persino dopo che ciò avvenne, non era ancor detta l’ultima parola. I Romeni, consigliati dal generale Berthelot, avevamo ricostituito un fronte sul fiume Arges, a difesa della capitale: ai primi dicembre; fu la manovra avvolgente simultanea, da nord e da sud, a determinare l’esito della lotta per Bucarest, occupata dai tedeschi il 6 dicembre; dopo di che, la ritirata fino al Sireth era inevitabile, così come sarà inevitabile la ritirata italiana fino al Piave dopo lo sfondamento di Caporetto. Sul Sireth il fronte venne ricostituito ai primi di gennaio, anche con l’aiuto russo; e l’esercito romeno, riorganizzato e rifornito di nuove armi, nell’estate del 1917 seppe battersi con valore, riportando alcune vittorie difensive (a Oituz e a Marasesti): ma poi la Rivoluzione bolscevica in Russia provocò l’inevitabile collasso della Romania, che dovette firmare la pace di Bucarest, il 5 aprile 1918, ratificata con il trattato di Bucarest del 7 maggio successivo.
La campagna romena del 1916-17 ha lasciato notevoli tracce nella letteratura. Si può leggere, per la parte tedesca, il toccante «Diario romeno» di Hans Carossa; per la parte romena, «La foresta degli impiccati» di Liviu Rebreanu», e «Scende la tenebra» di Cezar Petrescu (cfr. il nostro saggio: «L’opera narrativa di Cezar Petrescu», pubblicato sul sito di Arianna Editrice il 04/10/2007).
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