
Dobbiamo sbarazzarci del relativismo dei decostruttivisti, prima che ci trascini al fondo
17 Gennaio 2016
Il grande tabù della sinistra che tiene ancora imprigionate cultura e informazione
18 Gennaio 2016Il padre benedettino Thomas Ohm, nato nel 1892 a Westerholt, quartiere di Herten, nel Land della Renania Settentrionale-Vestfalia, e morto nel 1962 a Süchteln, sobborgo della città di Viersen, nella medesima regione, è stato uno di quei teologi tedeschi che, nella loro chiarezza, cultura, eleganza e consequenzialità, nella limpidezza della loro intelligenza e della loro fede, hanno condotto la teologia cattolica ai vertici più alti raggiunti nei tempi moderni, poi, a partire dagli anni ’60, rapidamente abbandonati e mai più eguagliati, anzi, sempre più lasciati indietro e divenuti al presente, si direbbe, irraggiungibili: tali e tante sono ormai le incrostazioni di modernismo spicciolo, di conformismo culturale, di connivenza con i falsi miti della cosiddetta cultura moderna, a cominciare dal decostruzionismo, dal relativismo che sono penetrati, come tumori maligni, nella stessa dottrina cattolica e la stanno conducendo verso una malattia sempre più grave, forse — Dio non voglia — addirittura inguaribile e dall’esito funesto.
Nel suo bellissimo volume «L’amore a Dio nelle religioni non cristiane», libro concepito espressamente ad uso dei missionari cattolici, quando parlare di "missione" non faceva ancora scandalo presso gli alfieri "cattolici" di un malinteso rispetto verso le altre religioni, tutte considerate, oggi, come ugualmente nobili e degne, nonché tutte ugualmente apportatrici di salvezza eterna, libro che fu tradotto dalle Edizioni Paoline – quando questa gloriosa e nobilissima casa editrice era ancora se stessa e non era stata ancora inquinata dalle tendenze striscianti di certo modernismo che di cattolico ha solo il nome -, padre Ohm osservava (titolo originale: «Due Lebe Zu Gott in den nichtchristlichen Religionen», München, 1950; traduzione dal tedesco a cura di . Rossano, Alba, Edizioni Paoline, 1956, pp. 16-19) :
«La maggior parte degli studiosi di psicologia religiosa non vedono nell’amore a Dio, e soprattutto nella religione, un "tendere" e un "volere", come intendiamo noi, bensì un "sentimento". Ma tale teoria del sentimento è falsa già per ciò che riguarda la religione. Questa non è solo, né anzitutto, né principalmente, né essenzialmente un sentimento. Alla religione vanno congiunti e possono connettersi dei sentimenti, ma alla religione appartengono pure atti di conoscenza e di volontà. Anzi la religione consiste essenzialmente e principalmente nel conoscere e nel volere. I sentimenti non appartengono di necessità alla religione e tanto meno ne formano l’elemento primo e basilare. Sono conseguenza, non causa della religione, come i sentimenti sono conseguenza e non causa della musica. "Chiamansi sentimenti quelle esperienze in cui l’io è consapevole di essere direttamente interessato, sia che ciò avvenga volontariamente o involontariamente", come sono il senso di sollievo, benessere, gioia, orrore, timore. In tuta questa accezione i sentimenti presuppongono una causa, la quale però molte volte solo oscuramente viene nella luce della coscienza, quasi retrocessa dalla chiarezza della reazione psicologica sperimentata" (Geyser). Anche il sentimento religioso deve essere destato da una causa adeguata, dalla considerazione degli attributi divini e simili. Secondo Rodolfo Otto la esistenza e gi attributi di Dio possono conoscersi inizialmente d essenzialmente soltanto tramite il sentimento, mentre i concetti e le idee avrebbero soltanto una funzione successiva e completiva. Il sentimento della beatitudine starebbe alla base e fonderebbe l’esperienza degli attributi fascinosi di Dio. Ma, se ben si guarda, in questo modo le cose vengono capovolte nel loro ordine naturale; in realtà esse stanno al rovescio.
Anche l’amore di Dio non è solo, né anzitutto, né principalmente, né essenzialmente sentimento. Esso trova risonanza nel sentimento, spesso anzi ed in grado altissimo è permeato da sentimenti, anche e proprio presso i non cristiani, come avremmo occasione di constatare. Ma si dà pure amore a Dio senza sentimento. Amore a Dio significa formalmente decisione per Dio, scelta di Dio, apprezzamento di Dio, aspirazione al possesso di Dio, desiderio di unione con lui, di disposizione ad agire secondo l’intenzione di Dio, quindi volontà e non sentimento. Soprattutto non ne è il sentimento l’elemento primo e fondamentale. Chi ama Dio sente, sì, tale amore, ma soltanto previa una necessaria conoscenza e deliberazione.
Anche l’amore spirituale a Dio si ripartisce in gradi diversi, quelli cioè della concupiscenza, della benevolenza e della amicizia, e rispettivamente dell’amore imperfetto e dell’amore perfetto. PERFETTO e IMPERFETTO è l’amore a Dio a seconda dell’origine, del motivo, dell’atto, del grado, della consapevolezza dell’affetto e dell’effetto.
Quanto all’origine l’amore a Dio imperfetto quando nasce nell’uomo da radice umana, perfetto quando prende origine in Dio, ha in Lui la sua causa, in una parola è "da Dio" (Giov. 4, 7). Quanto al motivo l’amore a Dio imperfetto quando si fonda su un interesse umano, perfetto quando ne è Dio stesso il motivo. In altre parole, imperfetto l’amore quando l’uomo ama Dio in vista di se medesimo, perché e in quanto Dio rappresenta un bene per lui, lo gratifica, lo arricchisce e lo rende felice (amore interessato, di speranza, amor concupiscentiae), perfetto quando Duo viene amato perché e in quanto è un bene in se stesso, amati quindi disinteressatamente, con noncuranza di sé, e per amore di lui medesimo (amore disinteressato, amor benevolentiae, amor amicitiae). Quando i teologi cattolici ed il catechismo parlano di amore perfetto a Dio, intendono l’amore in questo senso. Quanto all’atto, l’amore a Dio imperfetto quando si tratta di pura velleità, perfetto quando esiste una decisione autentica. Quanto al grado è imperfetto quando Dio viene amato in misura eguale o inferiore alle creature, perfetto quando viene amato "sopra ogni cosa" e preferito a tutte le creature. Non è necessario qui che l’amore a Dio sia altissimo affettivamente. L’amore al padre e alla madre può essere, da questo punto di vista, superiore; l’amore a Dio deve essere il supremo "apprezzativamente", cioè la ragione e la volontà nostra non deve preferire al bene supremo nessun altro bene. Quanto alla consapevolezza, l’amore a Dio è imperfetto quando l’uomo riconosce soltanto la propria dipendenza da Dio nell’essere e nel fine, perfetto quando aderisce a Dio stabilmente e consciamente. Quanto al sentimento o all’affetto, l’amor a Dio è imperfetto quando Dio viene amato soltanto con una metà del cuore e dell’anima, perfetto quando si va a lui con tutto il cuore e con tutte le forze. Quanto all’effetto, è amore imperfetto quello che non reca frutti o non ne produce di adeguati, perfetto quello che, non ostante il riposo in Dio, simile all’amore che Dio porta a sé ed a noi, ci spinge ad agire ed a compiere ogni cosa conforme a Dio; quando cioè affetto ed effetto si corrispondono.
Perfetto sotto ogni aspetto è l’amore a Dio quando realizza la perfezione sia quanto alla origine, che al motivo, all’atto, al grado, alla consapevolezza, all’affetto e all’effetto. Si può anche dire in una parola che l’amore a Dio è perfetto sic et simpliciter quando corrisponde, sotto ogni aspetto, per quanto è possibile, all’amore che Dio ha verso se stesso.»
A questo punto, Thomas Ohm precisa che il discorso si è già portato sul piano del soprannaturale, perché l’uomo, da solo, con le sue sole forze, non è capace di raggiungere, né, tanto meno, di perseverare, in una qualità di amore a Dio simile a quella che è stata qui definita come "perfetta"; ma lo può solo con l’aiuto speciale di Dio stesso, ovvero della sua Grazia. Perché l’uomo, davanti al mistero di Dio, al suo splendore abbagliante, alla sua immensità, sapienza e magnificenza, è cosa talmente piccola e talmente inadeguata, da non potersi assolutamente elevare al giusto amore a Lui, se non con il suo soccorso e la sua illuminazione. Questo è un punto decisivo, che troppi sedicenti teologi "cristiani" dei nostri tempi sembrano aver quasi completamente dimenticato: che l’uomo, per quanto faccia, si sforzi e si agiti, mai e pi mai sarebbe in grado di alzare anche solo un fuggevole sguardo sul mistero di Dio, dell’amore di Dio, della Creazione tutta, se la sua luce non scendesse dall’alto e non lo chiamasse a sé, innalzandolo molto al di sopra del piano naturale.
Bella, comunque, giusta e opportuna la precisazione di Thomas Ohm, che lo slancio dell’anima verso Dio non è fatto di "sentimento"; che il sentimento, semmai, ne è il risultato, l’effetto, perché la trasfigura e la riempie di emozione: ma esso è, in primissimo luogo, conoscenza e volontà, proprio come lo è lo slancio dell’anima. La musica, ad esempio, produce il sentimento della bellezza nell’anima che l’ascolta e se ne inebria; la presenza della persona amata, produce il sentimento dell’amore, in colui che è innamorato; viceversa, la presenza della persona aborrita produce i sentimenti dell’antipatia, dell’odio, della gelosia, dell’invidia, del disprezzo, e così via. Solo che Dio non si vede, non attira a sé con le lusinghe della bellezza materiale, e nemmeno con la dolcezza della musica, dolcezza sommamente spirituale, sì, ma pur sempre terrena: Dio attira con il richiamo dell’infinito, cioè con un richiamo che trascende, per sua stessa natura, la misura di ciò che all’uomo è possibile. E dunque se l’uomo può tendere a Dio, a partire da un impulso naturale del volere e del conoscere, per inoltrarsi su quella via ha bisogno, come abbiamo detto, dell’aiuto di Lui: il che dimostra come l’uomo sia ontologicamente strutturato in maniera tale che solo congiungendosi e riunendosi a Dio trova il suo completamento e la sua vera realizzazione; tutto il resto non è che realizzazione parziale, incompleta, e più o meno insoddisfacente.
Potrebbe sembrare un po’ eccessiva, forse, a una certa sensibilità moderna, l’insistenza con cui l’Autore insiste sul fatto che l’amore a Dio non è principalmente, né essenzialmente, un sentimento; potrebbe suonare come una affermazione troppo arida, troppo razionale, troppo intellettuale, quasi che l’amore a Dio si riducesse a un fatto di pura conoscenza e di pura volontà. In realtà, noi siano in larga misura fuorviati da una cultura "moderna" che ha letteralmente capovolto il giusto rapporto fra le cose e il loro significato, sì che, senza quasi rendercene conto, abbiamo fatto nostro, un po’ tutti, chi più e chi meno, il punto di vista della cultura laicista, secolarista e materialista. La cultura moderna, la psicologia moderna, hanno soppresso il concetto stesso di "anima"; quanto a Dio, lo hanno ridotto a una funzione della coscienza individuale. Secondo il loro punto di vista, il sentimento religioso (perché la religione, per esse, si riduce, appunto, a sentimento, o, peggio, a sentimentalismo) è un movimento della mente in direzione di un oggetto esterno, e altamente ipotetico, chiamato "Dio". Ma questo è un modo assai inesatto di descrivere le cose: al contrario, Dio, fonte e sorgente di tutto ciò che esiste, il mondo, l’uomo, la sua coscienza, il suo volere e il suo sentire, il suo pensare ed il suo agire, attira verso di sé ogni cosa, con il fuoco del suo amore e della sua potenza: pertanto l’amore a Dio da parte dell’uomo non è una delle numerose forme di amore che possono germinare in lui, ma è l’amore essenziale e primario, che sta alla base di tutti gli altri e che comprende, spiega e giustifica tutti gli altri, li alimenta e li trasfigura, nella misura in cui sono orientati rettamente verso di esso, e non altrove.
Anche nella teologia, la cosiddetta "svolta antropologica" successiva al Vaticano II ha confuso completamente i piani e seminato equivoci e stravolgimenti. L’uomo cerca Dio e vuole amare Dio; questo gli viene suggerito dalla stessa ragione naturale; ma, se riesce a precisare meglio questo desiderio, ciò significa che Dio lo sta già cercando e lo sta chiamando a sé. Non si sminuisce, dicendo questo, la dignità dell’uomo, creato a immagine di Dio: la somiglianza con Dio è, appunto, nella libertà del volere: l’uomo può anche volgere le spalle alla conoscenza e alla volontà, che lo spingerebbero verso Dio, per disperdersi in altre cose, per inseguire altri beni, o apparenze di beni. Ma resta il fatto, incontrovertibile, che non l’uomo si innalza fino a Dio, ma è Dio che si abbassa fino all’uomo, per prenderlo con sé; come dice Pascal: «Tu non mi cercheresti, se non mi avessi già trovato». Ma può anche accadere che l’uomo abbia trovato Dio e non se ne sia reso conto: troppo immenso, troppo splendente è Dio per la sua vista, perché egli possa riconoscerlo. Per farlo, ha bisogno che Dio stesso apra i suoi occhi e li renda capaci di sostenere una simile visione. Certo, chi ama il prossimo, ama Dio; e chi vede il prossimo bisognoso, è come se vedesse Cristo, il Figlio di Dio. Ma Dio, in quanto Dio, nessuno lo può vedere, se non colui al quale Dio si vuole rivelare.
Questo non significa che l’uomo non possa far nulla e che debba restare in attesa di non si sa che; al contrario, può fare moltissimo: può cominciare a svuotarsi del suo io, delle sue brame, delle sue vanità, delle sue stesse paure, per lasciarsi riempire interamente da Dio. È così che l’amore a Dio diventa perfetto: quando non chiede più nulla, ma è pura gioia e letizia infinita. Come lo è il Suo…
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