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12 Gennaio 2016Il mondo moderno e la cosiddetta "civiltà moderna" sono dominati da una nuova schiavitù: quella nei confronti delle cose. Dopo una lunga lotta contro la natura, l’uomo si è, almeno apparentemente, emancipato da molte servitù cui era soggetto nei confronti di essa; ma, per riuscirvi, ha dovuto affidarsi alla forza collettiva della tecno-scienza, che ha instaurato, a sua volta, una nuova, alienante signoria nei suoi confronti.
Al dominio della natura, cui l’uomo era soggetto, è subentrato il dominio della collettività: l’uomo, come individuo, è diventato sempre più passivo, sempre più ininfluente, sempre più manipolabile: deve adattarsi a servire forze immense, sulle quali non ha alcun controllo: la macchina e la stessa collettività. Quest’ultima ha imposto una nuova forma di totalitarismo: un totalitarismo tanto più difficile da riconoscere, in quanto agisce come se ogni nuova modalità di controllo e di condizionamento fossero imposte all’uomo per il suo vantaggio, per la sua comodità o per la sua protezione. Gli si promette la sicurezza, e intanto lo si asservisce e lo si imprigiona in una ragnatela dai mille fili pressoché invisibili. È controllato in tutto quello che fa, che dice, che scrive; è seguito nei suoi movimenti, osservato, spiato, per la strada e fin dentro casa; si registra la velocità della sua automobile, si verifica se il bollo e l’assicurazione sono stati pagati; si può sapere quanto denaro ha in banca, quali e quante forme di depositi finanziario possiede; si è informati della sua cartella clinica, dei medicinali che assume, delle patologie di cui soffre, dei traumi che ha subito, delle paure che lo affliggono. I suoi stessi pensieri e le sue emozioni sono largamente sottoposti a un’opera sottile di condizionamento e di manipolazione, della quale neppure si accorge. Crede d’essere libero allorché opera una scelta, e intanto lo spazio entro cui esercitare le scelte si restringe sempre di più, inesorabilmente. In sostanza, gli rimane soltanto la libertà di scegliere ciò che altri hanno scelto per lui, ovvero di scegliere le futili apparenze esteriori delle cose, non la sostanza delle cose. Può scegliere, ad esempio, quale programma guardare fra alcuni decine di reti televisive: ma ciascun programma assomiglia sempre di più a tutti gli altri; e, soprattutto, egli si muove come una mosca che vola incessantemente all’interno di una stanza chiusa, senza poter oltrepassare i vetri della finestra: che debba mettersi a guardare la televisione, per esempio, se vuole svagarsi un poco, è diventato il suo destino, al quale raramente ha la forza di sottrarsi. In un certo senso, è come se gli fosse rimasta la facoltà di scegliere di quale forma o colore debba essere il recipiente con il quale bere la droga che gli è stata preparata, e che lo porrà totalmente in balia del volere altrui.
Eppure, cosa strana, quando l’immenso apparato di controlli preventivi e di sicurezza poliziesca dovrebbe scattare per tutelare la comunità, si scopre che esso ha lasciate aperte, chi sa come, incredibili falle, che esistevano enormi smagliature, proprio là dove non avrebbero dovuto esserci. Si scopre che un terrorista, già segnalato ai servizi segreti di mezzo mondo come altamente pericoloso, può salire su un aereo, varcare le frontiere, fare domanda di cittadinanza presso un altro Stato, a volte servendosi di banali generalità false, altre volte, addirittura, declinando esattamente le proprie: e che nessuno se n’era accorto. Oppure un aereo può essere sequestrato in volo e condotto a schiantarsi contro un palazzo o una sede governativa, senza che i radar e i satelliti artificiali segnalino per tempo di quel che sta accadendo. Da un lato, si chiede all’uomo moderno di sacrificare spazi sempre maggiori della sua libertà e riservatezza, in cambio della promessa di maggior sicurezza; dall’altro, egli si accorge d’essere pur sempre in balia di pericoli infiniti.
Ha scritto Simone Weil a questo proposito (nella raccolta di pensieri postuma intitolata «Le Pesanteur et la Grâce», Paris, Librairie Plon, 1948; traduzione dal francese di Franco Fortini, con il titolo, chi sa perché: «L’ombra e la grazia», e chi sa perché, "grazia" con la "g" minuscola; Milano, Rusconi Editore, 1985, 158-159):
«Denaro, macchinismo, algebra. I tre mostri della civiltà attuale. Analogia completa.
L’algebra e il denaro sono essenzialmente livellatori; la prima intellettualmente, l’altro effettivamente.
Da circa cinquant’anni la vita dei contadini provenzali ha smesso di somigliare a quella dei contadini greci descritti da Esiodo. Distruzione della scienza quale la conoscevano i greci circa alla medesima epoca. Il denaro e l’algebra hanno trionfato simultaneamente.
Il rapporto fra il segno e cosa significata scompare; il giuoco degli scambi fra i segni si moltiplica da sé e per sé . E la complicazione crescente esige segni di segni.
Tra le caratteristiche del mondo moderno, non dimenticare l’impossibilità di pensare il rapporto fra lo sforzo e il resultato [sic] dello sforzo. Troppi intermediari. Come in altri casi, questo rapporto che non risiede in nessun pensiero risiede in una cosa: nel denaro.
Siccome il pensiero collettivo non può esistere come pensiero, esso passa nelle cose (segni, macchine…). Da ciò il paradosso: la cosa pensa e l’uomo è ridotto alla condizione di cosa.
Non esiste pensiero collettivo. In compenso, la nostra scienza è collettiva come la nostra tecnica. Specializzazione. Si ereditano non solo resultati [sic], ma anche metodi incomprensibili. Del resto, le due cose sono inseparabili, perché resultati [sic] forniscono metodi alle altre scienze.
Far l’inventario o la critica della nostra civiltà, che cosa significa? Cercare di illuminare in modo preciso l’imbroglio che ha fatto dell’uomo lo schiavo delle proprie creazioni. Perché si è infiltrata l’incoscienza nel pensiero e nell’azione metodici? L’evasione nella vita dei selvaggi primitivi è una soluzione della pigrizia. Bisogna ritrovare il patto originario tra lo spirito e il mondo della civiltà stessa in cui viviamo. È un compito tuttavia impossibile causa la brevità della vita e la impossibilità della collaborazione e di successione. Questa però non è una buona ragione per non intraprenderlo. Siamo tutti in una situazione analoga a quella di Socrate quando attendeva la morte nella prigione e imparava a suonar la lira… Almeno, avremo vissuto…
Lo spirito che soccombe sotto il peso della quantità ha l’efficacia come unico criterio superstite.
La vita è abbandonata alla dismisura. La dismisura invade tutto: azione e pensiero, vita pubblica e privata. Da ciò, la decadenza artistica. Non c’è più equilibrio, da nessuna parte. Il cattolicesimo reagisce parzialmente: le cerimonie cattoliche, almeno, sono rimaste intatte. Ma esse sono anche senza rapporto alcuno col resto dell’esistenza.
Il capitalismo ha realizzato l’affrancamento della collettività umana di fronte alla natura. Ma questa collettività ha assunto, in rapporto all’individuo, la successione della funzione oppressiva esercitata per l’innanzi dalla natura.
Ciò è vero anche materialmente. Il fuoco, l’acqua, ecc. Tutte queste cose della natura, la collettività se ne è impadronita.
Domanda: È possibile trasferire all’individuo questo affrancamento conquistato dalla società?»
Per diversi aspetti significativi, l’analisi del mondo moderno fatta da Simone Weil ricorda quella di René Guénon: esso è divenuto il regno della quantità; e, nel regno della quantità, le uniche cose che contano, scomparso il pensiero dei fini e dissolto il sentimento della bellezza, sono l’economia, la tecnica e l’algebra: l’economia, per trasformare ogni cosa in profitto; la tecnica, per rendere i modi di produzione e di comunicazione sempre più veloci e capillari; l’algebra, per razionalizzare al massimo sia il profitto che la tecnica, ed elaborare un codice universale che faccia da surrogato ai valori del buon tempo antico, e s’imponga quale religione laica.
Ora, nella società del numero, il pensiero si spegne, perché esso può esistere solo come pensiero del singolo; ed è per questo che, nella civiltà delle masse (una stridente contraddizione in termini!) le persone diventano cose e le cose, cioè le macchine, si incaricano di svolge le funzioni del pensiero. E si pensi che, quando Simone Weil svolgeva simili riflessioni, non era facile immaginare fino a che punto queste cose sarebbero diventate vere; ci si sarebbe ancora potuti illudere che un qualche residuo di "umanesimo", magari nella più vaga e miracolistica delle accezioni, avrebbe trattenuto il mondo dal cadere completamente in potere dei calcolatori elettronici.
Anche la natura "collettiva" della scienza e della tecnica moderne rappresenta una intuizione notevole. Tale natura fa sì che sia l’una che l’altra sfuggano completamente al controllo dell’uomo, ivi compresi il tecnico e lo scienziato. Scienza collettiva e tecnica collettiva si riducono a mere strumentazioni finalizzate al raggiungimento del miglior risultato possibile. Tuttavia, "migliore" non ha nulla a che fare con una valutazione etica, o, comunque, globale dei problemi: indica semplicemente la via più breve per congiungere due punti nello spazio, insomma per produrre la maggior quantità possibile di qualsiasi cosa. Il mondo dei fini è escluso dall’orizzonte della tecno-scienza: domina implacabilmente il calcolo dei mezzi e dei risultati.
La conseguenza di ciò è l’impossibilità di pensare il rapporto fra lo sforzo e il risultato: vi sono troppi intermediari fra le due cose. Nessuno si preoccupa di sapere quale sia tale rapporto, allorché si serve della tecno-scienza, nelle mille piccole faccende della vita quotidiana; e lo stesso vale anche per le grandi operazioni dell’industria, della politica, della finanza. Pertanto, si verifica una diffusa deresponsabilizzazione del giudizio: nessuno è tenuto a preoccuparsi di verificare l’esistenza di una ragionevole proporzione tra le forze che si mettono in gioco, e ciò che si produce. Perché un bambino possa rincretinirsi comodamente davanti ai suoi videogiochi, sono state mobilitate ingenti risorse di materie prime, di lavoro, di trasporti: sono state consumate quantità cospicue di acqua, di metalli, di elementi chimici assai rari, di energia elettrica, per non parlare del tempo e dell’intelligenza dissipati a volontà.
L’uomo è diventato lo schiavo del proprio tecnicismo; l’apprendista stregone non è stato capace di controllare le forze quantitative da lui stesso evocate, e si è accasciato sotto il peso di una servitù della quale a stento incomincia, forse, a rendesi conto, ma di cui, normalmente, non afferra per niente la portata, né tutte le terribili implicazioni. Bisognerebbe, dice Simone Weil, ristabilire un patto virtuoso fra lo spirito e il mondo: perché un mondo dominato dalle macchine, dal profitto e dall’algebra, è un mondo radicalmente spogliato della propria spiritualità, della propria anima. Ma dove trovare le energie a ciò occorrenti? E dove la necessaria consapevolezza? Come potrebbe un uomo, schiavizzato dagli innumerevoli meccanismi economici, tecnologici e intellettuali da lui stesso elaborati e assolutizzati, rendersi conto, sino in fondo, della gravità della propria situazione? Umanamente parlando, siamo entrati in un vicolo cieco: in un inferno dal quale non si vede la possibile via d’uscita, né si scorge la possibile redenzione.
Questo pessimismo farebbe di Simone Weil una delle tante anime disperate della cultura moderna, se non fosse riscattato dalla lucida scelta per la fede. Come Pascal, ella vede e misura tutta la gravità della condizione in cui s’è ridotto l’uomo moderno; e, se è vero che Dio non gioca ai dadi, l’uomo è pur sempre libero di farlo. Se non può sperare alcuna salvezza da se stesso, è giocoforza che si rivolga a Chi sa e può aiutarlo. Questo solo egli conosce con certezza: che, con le sue proprie forze, non ce la farà mai a rialzarsi, a tornare a scorgere un pezzetto di cielo. Tanto vale che prenda il coraggio a due mani e che si getti, con Kierkegaard, nel paradosso della fede.
Verso la fine del suo ragionamento, si direbbe che Simone Weil non abbia ben chiaro che il vicolo cieco nel quale si è cacciato l’uomo moderno nasce proprio dalla stolta volontà di sottomettere la natura, di cui egli è parte, dal momento che ne è figlio. Ella pensa che l’uomo, dopo essersi "affrancato" dalla natura, possa e debba "affrancarsi" dalla società; ma si tratta sempre di una libertà negativa, ossia da qualcosa e non per qualcosa. La natura è la casa dell’uomo e la società è la sua famiglia. L’uomo non deve affrancarsi da esse; semmai, deve affrancarsi dalla degenerazione tecnologica, finanziaria e "agebrica", ossia scientista, della civiltà moderna. Deve, appunto, ricostruire un patto con il mondo dello spirito. Però non è in grado di farlo da solo: deve cercare l’aiuto di qualcuno che è più forte, più saggio e più buono di Lui. Ha bisogno di Dio: lo sapevano i nostri avi dei secoli che ci hanno preceduti; ma ora lo abbiamo pressoché dimenticato. Crediamo che l’orientamento spirituale di una società sia affare privato dei singoli cittadini. Quale errore!…
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