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Il genocidio dei Moriori, episodio imbarazzante per la cultura “politically correct”

Il 19 novembre del 1835, a bordo del brigantino europeo «Lord Rodney», un gruppo di circa 500 Maori provenienti dalla regione di Taranaki (nella zona occidentale dell’Isola del Nord), sbarcarono sulle Isole Chatham (o Warekauri: dieci isole, delle quali solo le due maggiori abitate, Chatham e Pitt, per una superficie totale di poco meno di 1.000 kmq), abitate dai pacifici Moriori, situate a circa 800 km. a Est della Nuova Zelanda, armati di scure e, soprattutto, di fucili.

Fu, quello, l’inizio di una pagina tremenda, e pochissimo conosciuta in Occidente, nella storia dell’arcipelago: da quell’impatto, anzi, da quella invasione, ebbe inizio lo sterminio del popolo moriori, che si sarebbe concluso con l’estinzione totale, nel 1933, allorché avvenne la morte dell’ultimo indigeno di sangue puro.

Una seconda nave carica di Maori, circa 400 persone, sopraggiunse un paio di settimane dopo, e gettò l’ancora il 5 dicembre, rafforzando ulteriormente i nuovi arrivati. Adesso gli invasori erano abbastanza numerosi da abbandonare ogni ritegno e da procedere senz’altro all’asservimento o alla eliminazione sistematica di quegli isolani, la cui vita, ai loro occhi, non valeva nulla, poiché essi conoscevano solo la legge del più forte ed erano abituati alla guerra e al cannibalismo, come condizioni pressoché normali della loro esistenza.

In quel momento, gli Europei non avevano ancora conquistato la Nuova Zelanda — il trattato di Waitangi, che vide l’inizio del dominio inglese, sarebbe stato firmato solo cinque anni più tardi, il 6 febbraio 1840 — e non pochi essi avevano già sperimentato la crudele bellicosità dei guerrieri maori. Si ricordano, in particolare, parecchi uomini dello scopritore dell’arcipelago neozelandese, l’olandese Abel Tasman, nel 1642, e il navigatore francese Marion Du Fresne con alcuni dei suoi marinai, approdati nel 1772: erano stati tutti uccisi a tradimento e mangiati. I Britannici, in seguito, per poter attuare concretamente il loro protettorato, dovettero sostenere due dure campagne militari contro i Maori, nel 1842-46 e nel 1865-72; nel corso della seconda trovò la morte anche un notevole personaggio venuto dall’Europa, Gustavus von Tempsky (1828-1868), strana figura di avventuriero, artista (per la precisione, acquarellista), giornalista e scrittore prussiano, originario dalla lontanissima Masuria e unitosi alle truppe inglese nelle operazioni belliche (cfr. il nostro saggio: «La guerra antimissionaria e antibritannica dei Maori della Nuova Zelanda (1865-72)», pubblicato sul sito di Arianna Editrice in data 14/01/2009).

I Maori presero possesso delle isole Chatham secondo le loro consuetudini di guerra: considerando come loro assoluta proprietà sia la terra che i suoi abitanti. I Moriori, miti e pressoché indifesi, non tentarono nemmeno di opporre una resistenza organizzata; nondimeno, davanti alle usurpazioni delle loro terre e al rapimento delle loro donne, alcuni di essi accennarono una reazione. La risposta degli invasori fu immediata e consistette nell’uccisione di centinaia di uomini, donne e bambini, i cui cadaveri vennero immediatamente squartati, cucinati e consumati nel corso di grandi banchetti cannibaleschi. Molti Moriori, terrorizzati, fuggirono nella foresta e cercarono scampo nelle grotte, ma fu tutto inutile: vennero inseguiti, braccati come animali, rintracciati e uccisi, senza distinzione di sesso o di età. Solo le donne in età di partorire vennero risparmiate e divennero le schiave dei nuovi padroni, che le misero incinte per ripopolare l’arcipelago.

Si calcola che, alla fine del XVIII secolo, la popolazione moriori assommasse a circa 2.000 unità; nel 1862, i sopravvissuti erano esattamente 101. Solo individui di sangue misto, figli degli invasori e delle donne isolane, esistono ancora oggi, sia sulle Chatham che in Nuova Zelanda.

Scrivono Peter Turner e gli altri autori dell’esauriente volume «Nuova Zelanda» (titolo originale: «New Zealand», Victoria, Australia, Lonely Planet Publications, 1998; traduzione dall’inglese di Rosanna Ammendolia, Torino, E. D. T., 1999, p. 746):

«Uno degli aspetti più affascinanti delle Chatham è il retaggio culturale lasciato dai Moriori. Sulle isole vivono ancora i discendenti di questo gruppo e si trovano e tracce della loro cultura un tempo fiorente. Molte discussioni sono state fatte in merito alla loro provenienza. Oggi, si tende ad accreditare l’ipotesi che fossero polinesiani, come i Maori, giunti alle Chatham navigando dalla Nuova Zelanda. La data del loro arrivo, tuttavia, è incerta a causa della scarsità di reperti archeologici, anche se si ritiene che si possa stabilire tra il 900 e il 1.500 d. C.

Una volta raggiunto l’arcipelago, essi iniziarono a sviluppare un’identità separata da quella dei Maori della terraferma. Non mantennero rigide divisioni di classe, posero fine al guerreggiare, preferirono lasciare che le parti in causa risolvessero le dispute con lotte corpo a corpo, e il loro linguaggio iniziò a differenziarsi leggermente. Il loro lascito più degno di nota, sono i simboli incisi sugli alberi ("dendroglyphs") e sulle rocce che orlano la The Whanga Lagoon ("petroglyphs"). Quando il vascello "Chatham" giunse all’isola nel 1791 si pensò che i Moriori presenti sull’arcipelago fossero circa 2.000.

Dal novembre del 1835 circa, gruppi di Maori iniziarono ad approdare alle Chatham e in breve tempo vi furono 900 nuovi residenti tra Ngati Tama e Ngati Mutinga di Taranaki Ati Awa. I Maori cominciarono ad appropriarsi della terra in un processo noto come "takahi". I Moriori che opposero resistenza, circa 300, furono uccisi e gli altri ridotti in schiavitù. Nel 1841, si calcolò che il numero dei Moriori fosse sceso a 160 e quello dei Maori salito a oltre 400 e fu solo due anni più tardi che i Maori rilasciarono l’ultimo degli schiavi Moriori. Nel 1870, le native Land Court Hearing riconobbero ai Maori la sovranità sul 97% delle isole e piccole riserve furono create per i 90 Moriori sopravvissuti. Nel tempo i matrimoni tra i due gruppi portarono lentamente alla scomparsa della peculiare identità moriori. La loro lingua morì nel 1900 con l’ultimo degli studiosi moriori, Hirawanu Tapu. All’epoca erano solo 12 i Moriori di razza pura rimasti. L’ultimo fu Tommy Solomon, che si spense nel 1933. La sua morte fu vista come la fine di una razza particolare, ma era ben lontana dall’esserlo. I suoi tre figli e le due figlie sono ritenuti Moriori puri e c’erano molte famiglie che rivendicavano un lignaggio moriori.

Oggi si ritiene che vi siano più di 300 discendenti di questo gruppo e c’è stata una rinascita della coscienza moriori, in particolare dopo la costruzione del monumento a Solomon presso il Manukau Point, vicino a Owenga, nella parte sud-orientale del’isola. Adesso, Moriori, Maori e Pakeha vivono fianco a fianco come isolani.»

Sebbene questo brano di prosa tradisca una certa tendenza, tipica della cultura contemporanea politically correct, a minimizzare in vario modo l’atrocità di quella pagina di storia, per la sola ragione che essa è stata scritta in caratteri di sangue non dai soliti bianchi malvagi, venuti per portare sfruttamento e rapina, ma da indigeni extra-europei a danno di altri indigeni, più deboli di loro e praticamente indifesi, resta il fatto eloquente che, sulle isole Chatham, ebbe luogo uno sterminio irreparabile, dal quale il piccolo popolo dei Moriori non si riprese mai più. La tendenza di cui sopra testimonia la tenace persistenza del mito del "buon selvaggio" e non si arrende neppure davanti all’evidenza; oggi, un suo tipico rappresentante è il biologo statunitense Jared Diamond, col suo libro di successo «Guns, Germs and Steel: the Fate of Human Siocietes» («Armi, acciaio e malattie», apparso nel 1997 e vincitire del Premio Pulitzer l’anno dopo, del quale ci siamo occupati in un articolo di otto anni fa (cfr. «L’equivoco di fondo dei volonterosi antropologi anti-razzisti», pubblicato sul sito di Arianna Editrice in data 12/11/2007).

In effetti, ci sembra che sia molto fuorviante sia evitare la parola "genocidio" e tentar di limitare le cifre dei Moriroi uccisi e cannibalizzati, mediante una avara contabilità al ribasso, sia, soprattutto, suggerire che vi sia stata una sorta di "rinascita" della cultura moriori, perché quel popolo si è definitivamente estinto: il semi-trionfalismo con cui si dice che alcuni indigeni puri erano ancor vivi dopo il 1933 ci appare del tutto fuori luogo. Ancor più sconcertante è il fatto che la pubblicazione del libro dello studioso Michael King, «Moriori: a People Rediscovered» («Moriori: un popolo riscoperto»; Viking Press, 2000; ma l’edizione originale è del 1989) sia stata salutata con un evidente di respiro di sollievo da parte della cultura "indigenista".

Infatti, ai primi del 2000 il salotto buono della cultura neozelandese — e, di riflesso, britannica, quindi mondiale — era stato turbato da una ipotesi politicamente scorrettissima: che i Moriori fossero di origine melanesiana, ossia che fossero di pelle scura e statura relativamente bassa, il che — orrore degli orrori — avrebbe fatto dei Maori, che sono polinesiani di pelle chiara e di statura piuttosto alta, degli sterminatori di tipo razzista, simili, nelle motivazioni "ideologiche", ai teorici nazisti della "soluzione finale". In altre parole: la cosa realmente grave, anzi, se vera, addirittura inconcepibile, non era che i Maori avessero sterminato e schiavizzato i Moriori, per poi mangiarseli, ma che lo avessero fatto per abiette ragioni di superiorità razziale. Un fremito di sdegno e di angoscia percorse tutti i disorientati nipotini delle teorie di Rousseau e compagni sul "buon selvaggio": dunque anche nelle meravigliose isole del Pacifico, prima e indipendentemente dall’arrivo dei bianchi, esisteva il cattivo seme del razzismo? Non era, essa, una scoperta e una peculiarità esclusiva degli uomini bianchi? Certo, si poteva ben evidenziare che fu per mezzo di velieri europei che ebbe luogo l’invasione delle Chatham; e, più ancora, che i Maori erano armati di fucili europei, tanto che l’intera faccenda si può considerare come un episodio particolare delle cosiddette "guerre del moschetto", espressione con cui gli storici neozelandesi odierni indicano le selvagge guerre tribali che si riaccesero fra i Maori della Nuova Zelanda fra il 1807 e il 1845, ossia dopo che vi furono sbarcati i primi bianchi, e che questi ultimi vi ebbero introdotto, per ragioni di commercio, le prime armi da fuoco.

Tuttavia, non è chi non veda come questi argomenti potevano "discolpare" solo parzialmente i Maori; senza contare la loro palese pretestuosità. Sarebbe come sostenere che Irochesi ed Huroni del Canada si massacrarono a vicenda a causa delle armi importate dai commercianti inglesi e francesi nell’America Settentrionale: quasi che, prima dell’arrivo dei bianchi, le relazioni fra quei due popoli fossero state di natura idillica. Le tribù neozelandesi erano dedite alla guerra e al cannibalismo da sempre, tanto è vero che si diedero a uccidere e cannibalizzare i primi Europei che sbarcarono sulle loro coste, prima ancora d’aver subito da essi il benché minimo torto: nel caso del povero Marion Du Fresne, al contrario, non ricevettero che cortesie e prove di amicizia e di fiducia (quei disgraziati Francesi, provenienti dalla patria di Voltaire e di Rousseau, con l’inchiostro della «Encyclopèdie» ancora fresco, si presentarono in Nuova Zelanda animati dalle migliori intenzioni e si comportarono in maniera addirittura ingenua, offrendo ai loro perfidi ospiti l’opportunità di preparare con tutta calma il tradimento e il massacro ai propri danni).

La dimostrazione che i Moriori erano, anch’essi, di origine polinesiana, anzi, che erano discendenti degli stessi Maori, i quali, verso il 1500, avevano lasciato la Nuova Zelanda per popolare le Isole Chatham, permetteva a tutti i terzomondisti, agli indigenisti e ai buonisti d’ogni specie e tendenza, purché odiatori della civiltà europea, di esorcizzare il terribile spettro di un "razzismo" indigeno e di ristabilire la prospettiva del politicamente corretto. L’esclusiva del razzismo genocida rimaneva tutta agli Europei; quanto allo sterminio dei Moriori, non si era trattato di una guerra di sterminio condotta da indigeni alti e con la pelle chiara ai danni di indigeni bassi e con la pelle scura, ma, a ben guardare, di una faccenda tutta interna ai Maori: un regolamento di conti inter-tribale. Avranno o non avranno il diritto di ammazzarsi e divorarsi fra di loro, i popoli extra-europei, senza che vengano sempre gli uomini bianchi a ficcare il naso e a far loro la morale? Un po’ come nel caso dei sacrifici umani di massa in uso fra gli Aztechi del Messico: sì, è vero, migliaia e migliaia di cuori venivano offerti dai sacerdoti del dio Huitzilopochtli, al punto che quel popolo era sempre in guerra coi vicini appunto per procurarsi le vittime necessarie alla bisogna; ma gli Spagnoli non avevano alcun diritto di criticarli, visti i misfatti di cui si macchiarono a loro volta.

Sarà, ma questo genere di ragionamenti non ci convince. Troviamo, anzi, assai triste che la pelle chiara e l’alta statura dei Moriori diventino "attenuanti" del loro genocidio. Senza voler assolvere i bianchi dalle loro colpe storiche, resta il fatto che essi non possiedono l’esclusiva della malvagità…

Fonte dell'immagine in evidenza: Wikipedia - Pubblico dominio

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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