
Colpa o peccato?
14 Dicembre 2015
Puzza, sadismo, non-senso: abbiamo bisogno di scrittori come Patrick Süskind?
14 Dicembre 2015La società contemporanea, edonista, utilitarista e quantitativa, guarda all’esteriorità del risultato: dove il risultato è massimo, lì — generalmente – si ritiene d’aver raggiunto il massimo, anche sul piano esistenziale; in altre parole: l’efficacia del risultato garantisce la bontà del progetto. Si tratta, evidentemente, di un paradosso, perché, se lo si prendesse sul serio, diverrebbe evidente la sua follia: forse che il miglior risultato possibile, per un tossicodipendente, sarebbe quello di ottenere, nel più breve tempo possibile e alle migliori condizioni possibili, il più grande e il più perfetto quantitativo di droga? Pure, questo sproposito, logico e pratico insieme, costituisce, oggi, la "filosofia" dominante, adottata trionfalisticamente da milioni e milioni di persone, anche di una certa cultura, e celebrata in sede pubblica e privata.
La ragione è abbastanza semplice: la società edonista ha dichiarato guerra alla sofferenza; i risultati più importanti, nella vita di una persona, così come in quella di un corpo sociale, non si conseguono senza sacrificio, rinunce e fatiche; ma sacrificio, rinuncia e fatica comportano sofferenza, che è identificata con il Male; e siccome bisogna combattere contro il Male, allora si devono svalutare i sacrifici, le rinunce e le fatiche, e realizzare i propri obiettivi senza fatiche, senza rinunce, né sacrifici. Come? Con qualsiasi mezzo, purché indolore e di rapido effetto: anche barando al gioco; anche calpestando il prossimo; anche ingannando la propria coscienza; anche mentendo, tradendo, macchiandosi d’ingiuste violenze. Conta solo il risultato. Siamo diventati quasi tutti seguaci di Machiavelli: il fine giustifica i mezzi.
Eppure, la pedagogia della vita non la pensa così: essa è rude, ma salutare; e se ne infischia sia di quel che dicono i filosofi e gli psicologi alla moda, sia di quel che crede la maggioranza delle persone comuni, fuorviata, nel suo sano e istintivo buon senso, dagli sproloqui e dalle aberrazioni di quei tali. La pedagogia della vita continua ad esigere fatiche, sacrifici e rinunce, in cambio di risultati duraturi, ma non sempre di visibilità immediata; i suoi tempi, non sono i nostri; non sono i tempi del consumismo, dell’usa-e-getta, del tutto-e-subito. A volte richiedono anni; a volte richiedono una vita intera, e a beneficiarne saranno i figli e i nipoti, non direttamente coloro che hanno lavorato, faticato e sofferto.
Come se non bastasse, all’impazienza e alla superficialità della cultura dominante si presenta un ulteriore, imbarazzante paradosso: quello della sconfitta. Succede che, talvolta, il merito non riceve il suo premio; il lavoro, non ottiene il suo giusto riconoscimento; il sacrificio, non è ricompensato dal risultato finale, e sia pure procrastinato nel tempo. Apparentemente, secondo la logica umana, e stando a ciò che vede l’occhio umano, vi sono buone cause che meriterebbero il miglior successo, ma non l’ottengono; persone di valore cui spetterebbe , se non la gloria, almeno un "grazie", ma non lo ricevono; sogni e progetti generosi, altruistici, benevoli, che vorremmo veder premiati dal raggiungimento dei fini che si erano proposti, e che invece falliscono e fanno naufragio, per poi venire rapidamente dimenticati. Sono cose che si verificano spesso, e non possono non lasciare l’amaro in bocca: davanti ad esse, se si possiede anche solo un minimo di sensibilità e di senso della giustizia, si resta muti e pensosi, profondamene turbati.
Perché se a fallire sono i sogni dell’ingiusto, del malvagio, dell’ambizioso senza scrupoli, lo si comprende e lo si accetta, anzi, lo si ritiene come la manifestazione di una giustizia superiore; ma se a fallire sono i sogni del buono, del mite, dell’onesto, qualcosa in noi freme e si ribella. D’istinto, si vorrebbe chieder conto a Dio d’un tale scandalo. Ma davvero è uno scandalo?
Scriveva Martin Luther King nel suo libro «La forza di amare» (titolo originale: «Strenght to love», 1963; traduzione italiana di Ernesto Balducci, Torino, Società Editrice Internazionale, 1976, pp.175-77):
«"Qualora io mi rechi in Spagna, verrò a voi" (Romani, 15, 24).
Uno dei più angosciosi problemi della nostra esperienza umana è che, se se on proprio nessuno, certo pochi di noi, vivono fino a vedere realizzate le loro più ardenti speranze. Le speranze della nostra fanciullezza e le promesse degli anni maturi sono sinfonie incompiute. In un famoso dipinto, George Frederic Watts ritrae la "Speranza" come una tranquilla figura che, seduta sulla sommità del nostro pianeta, col capo tristemente piegato, strappa l’unica corda intatta di un’arpa. Vi è forse uno di noi che non abbia affrontato l’agonia delle speranze perdute e dei sogni infranti?
Nella lettera di Paolo ai cristiani di Roma troviamo una potente raffigurazione del tormentoso problema di queste speranze deluse: "Se mai viaggerò per la Spagna, verrò a voi". Una delle sue ardenti speranze era di recarsi in Spagna, dove, all’estremità del mondo allora conosciuto, avrebbe potuto ulteriormente proclamare il Vangelo cristiano. Al ritorno, desiderava avere contatti personali con quel valoroso gruppo di cristiani romani. Più anticipava con l’immaginazione questo privilegio, più il suo cuore accelerava i battiti per la gioia. I suoi preparativi ormai si concentravano nel portare il Vangelo a Roma, la grande capitale, e alla Spagna, ai lontani margini dell’impero.
Che ardente speranza si agitava nel cuore di Paolo! Ma egli non andò mai a Roma secondo gli schemi delle sue speranze. A causa della sua audace fede in Gesù Cristo, egli realmente fu portato là, ma come prigioniero, e trattenuto nella piccola cella di una prigione. Né mai camminò per le polverose strade della Spagna, né posò lo sguardo sulle sue ondulate colline né sulla sua affaccendata vita costiera. Fu messo a morte, presumiamo, come martire di Cristo a Roma. La vita di Paolo è una tragica storia di sogni infranti.
La vita rispecchia numerose esperienze simili. Chi non si è messo in cammino verso qualche lontana Spagna, verso qualche meta importante o qualche realizzazione gloriosa, solo per venire a sapere, alla fine, di doversi adattare a molto meno? Mai noi camminiamo come uomini liberi per le vie della nostra Roma; invece, le circostanze decretano che noi viviamo entro piccole celle di prigione: scritta attraverso le nostre vite c’è una fatale incrinatura e all’interno della storia scorre una vena irrazionale e imprevedibile. Come Abramo, anche noi soggiorniamo nella terra promessa, ma molto spesso non diveniamo "eredi con lui della stessa promessa". Sempre la nostra aspirazione oltrepassa la nostra portata.
Dopo aver lottato per anni per conquistare l’indipendenza, il Mahatma Gandhi fu testimone di una sanguinosa guerra religiosa tra gli indù e i musulmani, e la conseguente separazione del’India dal Pakistan frantumò il desiderio del suo cuore di una nazione unita. Woodrow Wilson morì prima di constatare la realizzazione della visione, che lo aveva logorato, di una Lega delle Nazioni. Molti schiavi negri in America, dopo aver agognato ardentemente la libertà, morirono prima dell’emancipazione. Dopo aver pregato nell’orto del Gethsemani che il calice passasse da lui, Gesù, nondimeno, bevve fino all’ultima amara feccia. E l’apostolo Paolo pregò ripetutamente, con fervore, che l’"aculeo" fosse rimosso dalla sua carne, ma le pene e il tormento continuarono fino alla fine dei suoi giorni. Sogni infranti sono come il sigillo della nostra vita mortale.»
Il problema, insomma, ancora e sempre, è l’amor di se stessi; il problema è l’eterno, ipertrofico, narcisistico Ego. L’Ego vorrebbe riconoscimenti, gratificazioni, premi: vorrebbe alimentare se stesso di sempre nuove soddisfazioni, per continuare a crescere e crescere, sempre di più, senza limite alcuno. Verrebbe quasi da dire:meno male che c’è la sconfitta. Se non ci fosse la sconfitta, la folle corsa dell’Ego non si fermerebbe mai, proseguirebbe sempre più veloce, sempre più frenetica, travolgendo ogni cosa nella propria spirale distruttiva. Invece esiste la sconfitta: il fallimento dei progetti umani, il naufragio delle umane speranze; ed è questo che riconduce l’Ego dentro i suoi giusti limiti, e gli insegna, talvolta, a dire: "Tu". Fosse per lui, saprebbe dire solo "Io".
Se i nostri sogni umani non andassero soggetti alla possibilità della sconfitta, del fallimento e del naufragio, noi diverremmo pazzi di orgoglio e presunzione: ed è esattamente ciò che accade a quelle persone, a quelle società, a quegli stati, i quali, apparentemente, vincono sempre. Il loro destino è quello d’impazzire, letteralmente, di hybris, ossia di dismisura: finiscono per credersi invincibili, immortali, e per credersi simili a Dio.
La sconfitta è la grande pedagogista, la grande amica: e lo è, innanzitutto, la sconfitta più grande di tutte, nostra sorella morte corporale, come la chiamava san Francesco d’Assisi. Se non ci fosse, bisognerebbe inventarla; se l’uomo potesse realmente sconfiggere la morte, allora diverrebbe un mostro, reso folle dalla superbia e dall’orgoglio. Tale destino ci è risparmiato dal fatto che i nostri sogni umani, talvolta, falliscono: è in tal modo che possiamo imparare l’umiltà, la pazienza, la rassegnazione, e ricordarci del nostro limite ontologico di creature.
Se, talvolta, non andassimo incontro alla sconfitta, non saremmo chiamati a lavorare su noi stessi, a migliorarci, a perfezionarci; non saremmo sollecitati a rimettere in discussione la nostra strategia e la nostra tattica, il nostro stile di vita, i nostri obiettivi, i nostri scopi e i nostri fini. Ripeteremmo sempre gli stessi comportamenti inadeguati, gli stessi errori, gli stessi atti di presunzione narcisista. Finiremmo per renderci odiosi al mondo intero, e anche a noi stessi. Chi non è caduto nella polvere almeno qualche volta, non sa più cosa voglia dire la vita vera, non si domanda più quale sia il suo significato, e a qual fine noi siamo stati chiamati all’esistenza.
A questo punto, tuttavia, dobbiamo introdurre una distinzione. Una cosa sono i sogni umani, come li abbiamo chiamati sinora; e un’altra cosa, e ben diversa, sono le nostre speranze, quando noi ci mettiamo in accordo con la chiamata divina. Ciascuno di noi è stato chiamato per una ragione ben precisa: ed è in questa prospettiva che va giudicato il risultato del nostro agire; è in quest’ottica che si può valutare se abbiamo fallito, oppure no. Noi non dobbiamo giudicare le cose secondo il metro del mondo: non dobbiamo identificare il risultato con il successo immediato e materiale. L’uomo volgare giudica così; ma l’uomo spirituale giudica altrimenti. Per l’uomo spirituale, c’è un solo tipo di fallimento, l’essersi allontanato dalla propria chiamata; e un solo tipo di successo, aver risposto positivamente ad essa.
Noi dobbiamo riscoprire la bellezza di essere uomini e donne spirituali, che non giudicano secondo la carne, non ragionano secondo la carne, non bramano, né temono alcunché, secondo la carne. Per l’uomo spirituale, raggiungere il risultato desiderato mediante l’ingiustizia, l’inganno, il compromesso degradante, equivale alla peggiore delle sconfitte. L’uomo spirituale non cerca l’affermazione di sé, ma la realizzazione della propria chiamata; non vuole alimentare la fame insaziabile del proprio Ego, ma diminuirla; non vuole riaffermare il proprio Io su tutti gli altri io, ma vuole imparare a dire: Tu. Di conseguenza, l’uomo spirituale è sempre sereno, distaccato dalle brame e dai timori usuali, proiettato verso un’altra dimensione, che non è affatto quella del successo mondano, secondo ciò che pensano gli uomini e le donne materiali. Per l’uomo spirituale, la virtù è premio a se stessa: egli non si rattrista perché i suoi meriti non vengono riconosciuti; a lui è premio adeguato cercar di piacere a Dio.
Dio sa sempre come trarre il bene dal male; o meglio, sa come trarre il bene da quello che, per noi, al nostro sguardo miope e limitato, appare come un male. A noi, la sconfitta dei nostri sogni sembra sempre una catastrofe, ma raramente sappiamo analizzare le ragioni della nostra frustrazione. Se lo facessimo, ci accorgeremmo che il comune denominatore di essa, nella circostanze più varie e diversificate, è sempre il medesimo: la sofferenza che comporta, per noi, la diminuzione del nostro Ego. Eppure è la diminuzione del nostro Ego che ci offre la possibilità di ripensare la nostra esistenza alla luce di ciò che la rende degna di essere vissuta: la fedeltà all’Essere e alla sua chiamata. Se sapessimo farlo da soli, non ci sarebbe bisogno della ruvida pedagogia della sconfitta; ma, poiché siamo un popolo di dura cervice, ecco che la sconfitta viene provvidenzialmente a rimetterci sulla strada giusta, che avevamo smarrita.
Dio sa trarre grandi cose dalla sconfitta del nostro Ego. La prima, e la più miracolosa, è restituirci a noi stessi, offrendoci come una seconda nascita, una vita nuova. Grazie alla sconfitta, il nostro sguardo si apre e si fa luminoso: per la prima volta, vede realmente l’essenziale. Il resto seguirà…
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