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L’inferno è per i galantuomini?

Posto che l’Inferno certamente esiste, checché ne pensino i teologi buonisti e i credenti di manica larga, i quali pensano l’Assoluto con il metro della loro umana piccolezza, rimane un altro "inferno" da comprendere, che sfida il nostro immediato senso di giustizia: il male quotidiano in cui si trovano immersi, già in vita, i galantuomini, che ne soffrono doppiamente, perché lo vedono e vorrebbero porvi rimedio; oppure se ne ritengono responsabili, e non riescono a darsi pace.

Questa la riflessione svolta in proposito da Guido Capitolo, che fu docente di filosofia e poi preside del Liceo Scientifico «Giovanni Marinelli» di Udine, del quale abbiamo già parlato altra volta (cfr. il nostro articolo: «È giusto che il vento, per vivificare le grandi foreste, spazzi via migliaia di umili poponi?», pubblicato sul sito di Arianna Editrice in data 17/10/2012), nel suo saggio intitolato appunto «L’inferno è per i galantuomini» (da: «Scritti inediti», nel volume «Quarant’anni del Liceo Scientifico "Giovanni Marinelli", 1923-1963», Udine, Del Bianco Editore, 1963, pp. 119-22):

«Mi meraviglia che in un’epoca crudele come la nostra, che è l’epoca dei campi di sterminio e dei bombardamenti a tappeto, ci siano tante negazioni dell’inferno.

Giovanni Papini l’ammette, ma ne preconizza la chiusura, con la redenzione finale del Diavolo.

Ugo Spirito, invece, nella "Vita come amore" e in "Significato del nostro tempo" è disposto tutt’al più a concedere il purgatorio, ma non l’inferno, che annulla la rivoluzione anti-intellettualistica del Cristianesimo, quale era stata espressa nel sublime precetto evangelico "non giudicare", che equivale a "non condannare" e ad "amare". Ma a un certo puto l’amore infinito di Dio si ferma e resta implacabile il giudizio contro il peccatore, che entra per l’eternità nel regno del male e diventa tutto peccato: l’amore per una creatura è cessato e al suo posto è subentrato l’odio inestinguibile, annullando così l’istanza fondamentale del Cristianesimo.

Aldo Capitini in "Religione aperta" cita con raccapriccio una pittura dell’età pagana di Delfi, nella quale si vedeva l’oltretomba, con la raffigurazione di un padre che strozzava il figlio, da cui era stato maltrattato in vita. La concezione dell’inferno è per lui una offesa a Dio perché è quella del padre che, sia pure per giustizia, diventa carnefice e torturatore. Egli polemizza con S. Tommaso d’Aquino, di cui cita un passo preciso della "Summa Theologica", quella in cui viene descritta la gioia con cui i beat del paradiso guardano la sofferenza dei dannati, perché così vedono realizzata la giustizia divina.

La negazione dell’inferno è ricorrente nella storia del pensiero, dai padri della Chiesa Orientale Origene e Gregorio Nisseno a Giordano Bruno, che se la vide comparire tra i capi di accusa del suo tragico processo. […]

Ma ciò che una volta era un episodio del pensiero, pare che oggi voglia diventare una regola, non solo tra gli uomini di cultura, ma anche, ciò che è più impressionante, tra i profani, ai quali, quando si accenna all’inferno, spesso scrollano le spalle, come se si parlasse di qualcosa d’inaudito. Credete a me, che amo intrattenermi con loro e riesco a cogliere, specialmente in momenti di distrazione, il loro segreto pensiero! E sì che molte volte si tratta di uomini che si dicono sinceri praticanti!

Sarà cuore indurito, che più non avverte il male? Oppure cattiva coscienza, che vorrebbe non credere ciò che paventa?

Pare che siano passati i tempi in cui il Savonarola e Padre Segneri sgomentavano dal pulpito le folle, con la descrizione delle atroci torture dell’inferno, e producevano nelle anime il più sincero ravvedimento!

Eppure, indipendentemente dal piano teologico, c’è un inferno che ciascuno di noi può esperimentare quotidianamente. È la vita stessa, che è una tragedia quando si sente come impeto morale, a cui non siamo mai del tutto preparati e che ci costa continue cadute e deviazioni, che avvertiamo, non quando siamo impegnati nell’azione, che spesso ci trascina e ci costringe, ma quando contempliamo con occhio critico il nostro passato. Allora vengono a galla gli istinti che non abbiamo del tutto compresi, le passioni che non siamo riusciti interamente a respingere e l’azione ci sta di fronte con la nuova realtà che ha creato in noi, in cui emerge ciò che in noi non credevamo che fosse. Quasi non ci riconosciamo in ciò che abbiamo fatto e la coscienza ci rimorde e ci ammonisce di essere più vigili nel futuro, salvo a ricadere nella medesima dolorosa esperienza perché nuova è la situazione ed invincibile è la legge morale, che mai non si attua se non in contrasto con un male onnipresente, che nessuna volontà buona riuscirà a sgominare del tutto.

Doloroso è il senso della vita in coloro che pensano perché alto e stridente è sempre il contrasto tra l’ideale che s’insegue e la realtà che si raggiunge, tra l’infinito a cui tendiamo e il finito in cui ci muoviamo. Senso doloroso che da una parte rende vano il sogno di una felicità che sia una calma e dolce contemplazione, come quella di un arcobaleno sul lago, e dall’altra parte renda ingiustificata la disperazione, perché è proprio quel dolore ed è quel continuo rimorso di non essere ciò che dovremmo essere che ci sospingono e determinano la nostra vera realtà umana, che regredisce verso la matta bestialitade proprio quando non ha più rimorsi ed è contenta di se stessa, in una opaca beatitudine, che è la negazione dell’inferno dei galantuomini.

Ciò che più spaventa negli uomini che chiamiamo malvagi non è tanto il male che fanno, e che in fondo forse male non è, quanto il senso di sicurezza con cui agiscono e la soddisfazione che provano nel gustare il loro essere, in cui sono murati, senza uno spiraglio di luce e di aria.

C’è tutta una letteratura morale che descrive con foschi colori la triste vita dell’uomo ingiusto, che s’immagina affannosa e insopportabile, turbata dal veleno dei rimorsi, che rendono le notti insonni, i giorni interminabili e l’appressamento della morte fosco e disperato.

In realtà, se insorgesse il rimorso, le notti fossero insonni e i giorni tristi e interminabili, interverrebbe la luce della coscienza e non saremmo più in presenza dell’uomo malvagio, che invece dorme tranquillamente e pare che faccia anzi sogni dorati, trascorre in letizia i suoi giorni e forse solo in punto di morte pensa alla sua anima, non per un reale pentimento, ma perché è meglio non correre rischi.

Chi ha l’anima turbata e trascorre le notti insonni è di solito il virtuoso e non il vizioso: l’inferno, almeno in questa vita, è per i galantuomini!

È nella sfera delle mie conoscenze un tale che è capace di tutto, di qualsiasi basso raggiro, e che non vede altro che il suo io gonfio e smisurato, del quale è in perpetua adorazione. Da costui ho sentito dire che è felice perché è in istato di Grazia.

Del resto Jago, il basso calunniatore che determina la rovina della dolce Desdemona, quando è scoperto nei suoi tristi raggiri, non ha un fremito umano e ad Otello che gli chiede perché gli abbia così allacciato l’anima ed il corpo, non sa rispondere altro: "Non mi chiedete nulla. Quel che sapete, basta; da questo istante non parlerò più".

Evidentemente l’inferno, almeno in questa vita, è per i galantuomini.»

Questo brano di prosa è uscito dalla penna e sgorgato dal cuore di un uomo pensoso, nobilmente assorto in uno dei massimi problemi dell’etica: il fatto che le persone oneste, limpide, disinteressate e benevole, soffrono non soltanto per il male che la vita, inevitabilmente, infligge a ciascuno, e che i più sensibili avvertono più di chiunque altro; ma più ancora perché la loro coscienza esigente, imperiosa, assetata di assoluto, rimprovera loro tutto quel che non hanno saputo fare per evitare il male, o per ridurne le conseguenze, o per salvare gli altri da esso. Insomma, i galantuomini soffrono sempre due volte più degli altri: perché si caricano di pesi insopportabili, i pesi degli altri, delle altui omissioni, degli altri egoismi, ma li sentono come una responsabilità loro, si crucciano per non essere stati all’altezza della situazione, per non aver scongiurato quel male che, forse — secondo loro — era evitabile; per non aver fatto tutto quanto era in loro potere. «El mi parea da se stesso rimorso: / o dignitosa coscienza e netta, / come t’è picciol fallo amaro morso!», dice Dante, parlando di Virgilio, nel III canto del «Purgatorio». E questo, osserva Capitolo, mentre l’uomo malvagio dorme tranquillamente e si direbbe che faccia sonni beati

Qui, apparentemente, vi è un’ingiustizia: proprio coloro i quali si angustiano per il male commesso, per quanto piccolo, sono quelli che più soffrono, o magari sono i soli che soffrono, i tormenti del rimorso; mentre gli altri, coloro i quali fanno il male con la massima naturalezza, anzi, ci provano gusto, poi se ne dimenticano prontamente e vivono in perfetta letizia, a meno che siano inchiodati alle loro responsabilità da qualche circostanza esterna. Si direbbe che i conti non tornino: non viene rispettato quel che ci aspetteremmo a livello di giustizia distributiva. Anche Pirandello se n’era accorto e ne tratta specificamente in uno dei suoi drammi forse meno conosciuti, ma più interessanti e meno gratuitamente intellettualistici o paradossali: «Non si sa come», del 1934 (cfr., in proposito, il nostro articolo: «Non si sa come?», pubblicato sul sito di Arianna Editrice in data 08/03/2012).

Ma è proprio così? Tanto per cominciare, troppo spesso ci s’immagina la giustizia come una entità che viene (o non viene) da fuori, e scende sugli uomini come una sorta di deus ex machina; mentre sarebbe più giusto pensarla come il riflesso delle nostre stesse azioni, come la risultante di tutte le nostre azioni, e non solo delle più recenti. Le azioni morali non invecchiano mai, anche se noi tendiamo a dimenticarle: se noi nascondiamo un ordigno sotto la sabbia del sentiero, e poi ce ne dimentichiamo, non importa quanti anni siano passati, il male che ne deriva agli altri sarà inevitabile; noi potremo addirittura essere già morti, ma quel male accadrà, prima o dopo, e la nostra colpa non andrà mai in prescrizione: nemmeno la morte ha un tale potere. In qualche modo, noi saremo chiamati a rispondere di quel che abbiamo (o non abbiamo) fatto: ma sarà il tribunale della nostra stessa coscienza a decidere la sentenza e a stabilire l’eventuale pena. E la nostra coscienza non si annienta con la morte. Che la morte sia l’ultima parola sul mistero della vita e su quello della storia (dove i malvagi, così spesso, paiono trionfare), questa è una filosofia da disperati: e non fa meraviglia che essa produca, ancora e sempre, disperazione e amari rimpianti.

Può darsi che il galantuomo, come dice Capitolo, sia troppo severo ed esigente con la propria coscienza: ebbene, un tale eccesso di severità è il risultato di uno squilibrio, di una disarmonia che ha la stessa radice della cattiva azione: la superbia. Quando ci crediamo onnipotenti, tendiamo a caricarci di responsabilità eccessive e diventiamo ingiusti con noi stessi; ma questo non accade se noi siamo persuasi della nostra finitezza, del nostro limite, della nostra condizione creaturale. Niente e nessuno può pretendere dalla creatura più che la semplice buona volontà: ad impossibilia, nemo tenetur. Ed è proprio la chiara consapevolezza del nostro limite umano che ci conduce sulla soglia di una ulteriore, e molto più luminosa, consapevolezza: ossia che, deboli e impotenti come creature, possiamo diventare quasi onnipotenti facendoci docili strumenti di una Forza ben più grande di noi e di un Amore ben più perfetto del nostro.

Ecco: questo manca, talvolta, alle persone più sensibili, scrupolose e benevole. Essere benevoli non basta: bisogna essere buoni. Ma nessuno è veramente buono; l’unico modo per superare l’eredità del peccato di Adamo, è scegliere l’opposto di quel che egli scelse: ossia di non voler fare da soli, ma di affidarsi a Chi tutto sa e a Chi tutto può. Essere sensibili e scrupolosi è un inferno, se non si accompagna all’essere buoni; e per essere buoni, bisogna sapersi fare piccoli e umili, lasciar andare l’ego, spogliarsi del proprio senso di onnipotenza, magari bene intenzionato, ma, comunque, fallace e foriero di sofferenze e confusioni: bisogna affidarsi a Dio. Con Lui, diventiamo tutto; senza di Lui, siamo niente. Questo, forse, era il passaggio che mancava al ragionamento di Guido Capitolo, così convincente nella prima parte, laddove depreca il buonismo superficiale di tanti sedicenti cristiani; ma così poco persuasivo nella seconda, dove pare che l’inferno nella vita terrena sia il "premio" concesso, beffardamente, agli uomini buoni. No di certo: l’inferno sulla terra è riservato non ai buoni, ma ai bene intenzionati che non sanno farsi abbastanza piccoli da accettare il mistero del male e da lasciar fare qualche cosa anche a Dio, dopotutto. Perché chi pretende di capire tutto, e di risolvere il mistero del male, pecca certamente di superbia, e s’immagina di essere diventato da creatura, Creatore: sicché riceve, da sé stesso, la ricompensa del proprio peccato, sotto forma di un soffrire tanto continuo, quanto inutile. Di sofferenza, al mondo, ce n’è abbastanza. Ma c’è anche dell’altro: l’infinita consolazione di sapere e sentire che siamo chiamati alla Vita, e non alla morte…

Fonte dell'immagine in evidenza: Foto di Chad Greiter su Unsplash

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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