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15 Novembre 2015La mentalità primitiva è davvero «indifferente alle cause seconde», come pensava Lévy-Bruhl?

Secondo la mentalità positivista della cultura occidentale moderna, i membri delle società "primitive" sono privi della logica necessaria a collegare i fenomeni con le loro cause seconde, attraverso una catena di ragionamenti che ne spieghino il verificarsi, senza saltare direttamente alla causa prima (le divinità, gli spiriti, il destino). Per essere più precisi, secondo Lucien Lévy-Bruhl (1857-1939) — uno dei massimi esponenti d’un tale punto di vista –, la mentalità dei primitivi è "indifferente" alle cause seconde: "indifferenza" che sembrerebbe evidenziare una voluta trascuratezza di esse, quasi una sorta di pigrizia intellettuale, per cui sarebbe cosa più facile tirare sempre in ballo le cause prime, ogni qual volta ci si trova di fronte a un evento insolito o, comunque, inspiegabile nei termini dell’esperienza ordinaria.
Del resto, non fanno così anche i bambini? E i popoli primitivi, non sono forse un po’ bambini anch’essi? Ora, non è forse vero che il mondo dei bambini è popolato di spiriti, fate, folletti, i quali agiscono direttamente sulle cose, sulle situazioni e sulle persone, senza bisogno della mediazione di alti fenomeni, di altre situazioni, di altre persone? Lo fanno, suggerisce il pensiero razionalista e positivista, imbevuto di scientismo e di materialismo, perché è molto più semplice; mentre invece è proprio dell’uomo adulto, e delle società più "evolute", porsi il problema delle cause seconde, cosa che implica un maggiore sforzo ed impegno intellettuale.
Un esempio di tale ingenuo "primitivismo" (scelto da noi, non da Lévy-Bruhl): il culto del "cargo". Gli indigeni della Nuova Guinea e delle isole melanesiane, vedendo passare gli aeri statunitensi durante la Seconda guerra mondiale, e vedendoli, poi, atterrare negli aeroporti costruiti ai margini della foresta, e uscire da essi, come per prodigio, ogni ben di Dio, pronto per essere distribuito, costruivano sul terreno dei grandi disegni riproducenti la forma dell’aereo, indi praticavano delle cerimonie magiche per far atterrare altri aerei, le cui ricchezze sarebbero state a loro completa disposizione.
Si trattava di un cerimoniale che trae origine e spiegazione dal medesimo principio della magia "simpatica": il simile chiama il simile; come quello applicato nelle cerimonie dei Pellerossa in cui si mimava la caccia al bisonte, per poi propiziare una battuta di caccia favorevole, nelle vaste distese delle praterie nordamericane. Così, a quei Papua e a quei Melanesiani non veniva affatto in mente che gli aerei che volavano in cielo, carichi di ogni ricchezza, appartenessero agli uomini bianchi, che li avessero costruiti loro e che li utilizzassero per i loro bisogni; pensavano, invece, che quegli arerei erano opera degli spiriti, e che essi erano a disposizione di chi possiede la magia più forte per impadronirsene. Finora la magia dei bianchi era stata più forte, e così essi avevano "rubato" gli aerei con tutto il loro prezioso carico; ma gli aerei erano destinati a loro, agli indigeni, tanto è vero che volavano sulle loro terre, sulle loro isole, sui loro villaggi. Si trattava, pertanto, di realizzare una magia più efficace di quella dei bianchi, onde "riprendersi" ciò che spettava loro, ciò che gli spiriti degli antenati inviavano loro dal regno lontano in cui dimoravano.
L’atteggiamento ordinario dell’uomo occidentale di fronte a un simile universo mentale è, naturalmente, di sufficienza e di lieve compatimento, magari con una punta di compassione, come potrebbe esserlo quello dell’adulto di fronte a una bambina, la quale, indossando con perfetta compunzione un vestito da fata e muovendo la sua bacchetta magica di plastica, ordini allo spirito della caverna di portarle immediatamente collane, gioielli e braccialetti d’oro, restando in fiduciosa attesa che il prodigio così predisposto si compia davvero.
In realtà, sia l’universo mentale del "primitivo", sia quello del bambino sono, essenzialmente, degli universi "magici": ossia degli universi nei quali è possibile realizzare molti desideri (forse non tutti), a patto di sapersi impadronire delle tecniche a ciò necessarie, esercitando un potere segreto, e riservato a pochi, sul mondo della natura. Ma è proprio vero che un universo magico è intrinsecamente meno logico, meno coerente, meno suscettibile di spiegare il reale, di quanto lo sia l’atteggiamento scientista e razionalista dell’uomo occidentale moderno (moderno, si badi; non dell’uomo greco, né del romano, né dell’uomo medievale; e, per certi aspetti, neppure del contadino europeo del XVII, XVIII, XIX e perfino del XX secolo)? Siamo proprio sicuri, nello stesso tempo, che il nostro pensiero, razionalista e scientista, non sia anch’esso, a suo modo, un pensiero "magico", che sostituisce il dogma delle cause seconde a quello delle cause prime, ma che, in ultima analisi, non differisce sostanzialmente, né a livello concettuale, né a livello psicologico, da quello propriamente magico?
Ora prendiamo un esempio tratto dal "nostro" universo mentale, ossia di noi moderni, debitamente adoratori della scienza meccanicista e materialista: il sogno. Per noi, specialmente a partire da Freud, il sogno è la proiezione camuffata dei nostri impulsi allo stato di veglia, impulsi segreti, sovente riprovevoli e inammissibili, che non osiamo, per lo più, guardare in faccia. Per i "primitivi", il sogno è il ponte che gli dèi gettano verso di noi, per parlarci, per ammonirci, per guidarci, per svelarci il futuro. Ebbene: che cosa, se non una credenza aprioristica e semplicistica – dunque, a suo modo, "magica" – ci autorizza a pensare che la nostra interpretazione sia più vicina al vero di quella dei "primitivi" – e, naturalmente, dei bambini, i quali, come è noto, stentano a fare una chiara distinzione fra la realtà della veglia e della del sogno?
Ma vediamo un po’ più da vicino i termini della questione. Nella sua opera su «La mentalità primitiva», Lucien Lévy-Bruhl, da molti considerato come uno dei più grandi antropologi e, addirittura, come uno dei maggiori filosofi del Novecento, apparsa a Parigi nel 1922, così si esprime – ed è già significativo che, fin dal titolo, egli parli di "mentalità primitiva" e non di "visione del mondo" primitiva, o di "pensiero primitivo" (traduzione dal francese di Carlo Cignetti, Torino, Einaudi, 1971, p. 20-21):
«In presenza di qualcosa che l’interessa, che l’inquieta o che la spaventa, la mente del primitivo non segue la stessa via della nostra. Imbocca subito una strada diversa.
Noi abbiamo un senso continuo di sicurezza intellettuale così saldo che non vediamo come potrebbe essere scosso; poiché, anche supponendo un’apparizione improvvisa di un fenomeno del tutto misterioso e le cui cause ci sfuggissero interamente agli inizi, non saremmo per questo meno persuasi che la nostra ignoranza è soltanto provvisoria, che queste cause esistono e che presto o tardi potranno essere determinate. Così, la natura in seno alla quale viviamo è, per così dire, intellettualizzata in anticipo. Essa è ordine e ragione, come la mente che la pensa e che vi si muove. La nostra attività quotidiana, fin nei suoi più umili particolari, implica una tranquilla e perfetta fiducia nell’invariabilità delle leggi naturali.
Ben diverso è l’atteggiamento mentale del primitivo. La natura in seno alla quale egli vive gli si presenta in tutt’altro aspetto. Tutti gli oggetti e tutti gli esseri sono implicati in una rete di partecipazioni e di esclusioni mistiche: esse anzi ne costituiscono il contesto e l’ordine. Son dunque esse che si imporranno prima di tutto alla sua attenzione, e esse sole la tratterranno. Se è interessato da un fenomeno, se non si limita a percepirlo, per così dire passivamente e senza reagire, egli penserà subito, come per una specie di riflesso mentale, a una potenza occulta e invisibile di cui questo fenomeno è la manifestazione. "Il punto di vista della mente dell’africano — dice Nassau – ogni volta che si presenta qualcosa d’insolito, è quello della stregoneria. Senza cercare una spiegazione in ciò che i popoli civili chiamerebbero le cause naturali, il so pensiero si volge immediatamente verso il soprannaturale. Di fatto, questo soprannaturale è un fattore così costante nella sua vita, da fornirgli di ogni avvenimento una spiegazione rapida e ragionevole quanto i nostri riferimenti alle forze riconosciute della natura" (Nassau, "Fetichism in West Africa"). Così pure il reverendo John Philip nota a proposito delle "superstizioni dei Bechuana": "Nello stato d’ignoranza" (vale a dire prima d’essere stati istruiti dai missionari) ogni cosa che non sia conosciuta e che sia avvolta di mistero (ossia ogni cosa di cui la semplice percezione non arriva a rendere conto) è oggetto d’una venerazione superstiziosa; le cause seconde sono ignorate, e un’influenza invisibile tiene il loro posto" (Philip, "Researches in South Africa").
La stessa osservazione è suggerita a Thurnwald dalla mentalità degli indigeni delle isole Salomone: "Mai essi oltrepassano, a voler essere ottimisti, la semplice registrazione dei fatti. Ciò che manca completamente, in linea di principio, è la connessione causale profonda. Non capire la connessione dei fenomeni: questa è la fonte delle loro paure e delle loro superstizioni" (Thurnwald, "Im Bismarck archipel und auf den Salomon Inseln", in "Zeitschrift für Ethnologie", XLII).»
Secondo Lévy-Bruhl, dunque, il primitivo è «impermeabile all’esperienza» perché la sua mente è dominata dalla «categoria del soprannaturale»: nella sua concezione positivista, non gli passa neanche per la mente che tale categoria sia tipica, non già e non solo del "primitivo", dell’uomo delle epoche pre-moderne in quanto tale; vale a dire, non lo sfiora neppure il dubbio che l’uomo moderno, il quale ha bandito dalla propria mente la categoria del soprannaturale, sia non già il coronamento dell’evoluzione umana, ma un tipo anomalo e aberrante rispetto a tutto quanto la storia universale ha sinora prodotto, ivi compresa la storia del pensiero: da Socrate a Platone, da Agostino a Tommaso, da Cusano a Ficino. Egli è talmente imbevuto di pregiudizi scientisti e materialisti che dà assolutamente per scontata la giustezza, ossia la validità oggettiva, della "forma mentis" moderna, o meglio, di quella particolare "forma mentis" moderna che coincide, in sostanza, con il Positivismo.
Pensare il soprannaturale, pensare il soprannaturale come la causa prima dei fenomeni, sarebbe, pertanto, il segno inequivocabile di una "mentalità primitiva", nonché di una "mentalità infantile", come quella dei bambini? Visto l’approccio metodologico di antropologi come Lévy-Bruhl, pare di sì. Non stupisce, pertanto, che quei signori non abbiano mai trovato il tempo e la voglia di studiare seriamente fenomeni come le apparizioni di La Salette, le guarigioni miracolose di Lourdes o il "miracolo del Sole" di Fatima: non sorprende, perché, per essi, si tratta di cose senza importanza, frutto di una mentalità sia "primitiva" che "infantile". Non parliamo della presenza del Diavolo nella vita del Curato d’Ars, o delle profezie della veggente Santa Caterina Labouré, cui era apparsa la Madonna nel convento delle Figlie della Carità di San Vincenzo de’ Paoli, in Rue du Bac, a Parigi. Prendersi la briga di studiare questi fenomeni, o anche solo ammetterne la possibilità, non rientrava nella "mentalità" degli scienziati positivisti: al massimo, alcuni di essi sarebbero stati disposti, forse, a studiare la psiche delle persone in questione, considerandola, ovviamente, sotto la prospettiva della disfunzione mentale o della allucinazione.
Si faccia attenzione: non stiamo dicendo che i primitivi (o i bambini) possiedono un modo di ragionare perfettamente equivalente a quello dell’adulto occidentale moderno, e che l’unica differenza sostanziale consiste nel modo di interpretare i fatti. È evidente che sia i primitivi, sia i bambini, pensano il reale in modo semplificato, e tendono a "saltare" direttamene dai fenomeni alle cause prime, perché non sanno prendere in esame la catena di quelle seconde. Nondimeno, pensiamo che non si tratti soltanto di questo; che vi sia una verità più profonda, nascosta dietro le apparenze; e che i positivisti si fermino appunto alle apparenze, semplicemente perché ciò è più "facile": e che, dunque, essi peccano d’una forma di pigrizia intellettuale del tutto paragonabile a quella che rimproverano, tacitamente o esplicitamente, ai primitivi (e talvolta ai bambini).
E la realtà profonda, secondo noi, è questa. Il primitivo "sente" (un po’ come il bambino), in maniera istintiva, ma non per questo gratuita, che tutti i fenomeni, in realtà, discendono da un Atto primo, senza il quale nulla esisterebbe; egli "sente", cioè, quella verità essenziale, che il pensiero tradizionale, premoderno, metafisico, teologico, ha sempre perseguito, ma che la cosiddetta filosofia moderna si è gettata dietro le spalle, come inutile zavorra appartenente al passato. Il pensiero moderno si occupa solo delle cause seconde, e ignora o disprezza la ricerca delle cause prime, perché non riesce più a pensare l’Essere. Ed è per questo che ha una così grande paura della morte…
Fonte dell'immagine in evidenza: Wikipedia