
Marino Moretti: non crepuscolare, ma epico cantore degli umili e dei vinti
5 Novembre 2015
Ma è proprio vero, come dicono i filosofi del linguaggio, che senso e verità sono cose distinte?
6 Novembre 2015Chi ha più di cinquant’anni ricorda benissimo che, nella propria infanzia, il fatto di essere poveri non rappresentava affatto un motivo di vergogna; semmai, ciò accadeva quando alla povertà si aggiungevano altre caratteristiche, come la trascuratezza nel vestire, la sporcizia della casa, la maleducazione o, peggio, la non perfetta onestà nel comportamento. Esser poveri non era motivo di vergogna, né in città, né, tanto meno, in campagna; infatti erano in molti ad esserlo, e le famiglie o i vicini non si squadravano ansiosamente l’un altro, per scorgere nell’altrui abitazione, o nell’altrui persona, i segni di un benessere maggiore o minore del proprio. Poveri, ma puliti; poveri, ma rispettabili; poveri, ma onesti: tale era la filosofia di vita che i nonni trasmettevano ai figli, e questi ai nipoti: e nessuno faceva obiezioni, nessuno la trovava strana.
Incominciò a diventare strana, o, per dir meglio, incominciò a incrinarsi e a scomparire, nel volger brevissimo di pochi anni — dieci, o cinque, o forse meno ancora — in un momento preciso della nostra storia recente: vale a dire in coincidenza con l’arrivo del benessere. Per essere più precisi: con l’arrivo della sensazione che il benessere fosse lì, dietro l’angolo, ormai a portata di mano; che le cose fino a ieri impensabili, irraggiungibili, fossero sul punto di realizzarsi; che il sogno di una vita diversa, più comoda, più raffinata, sbocciato quasi nello spazio di una notte, fosse germogliato dappertutto e che coltivarlo non fosse un male, né una follia, né una perdita di tempo, ma una possibilità concreta, realizzabile, oltre che altamente desiderabile.
Fu allora, quando i ragazzi incominciarono ad avere qualche soldo in tasca, dato loro dai genitori; quando si smise di trasmettere i vestiti dai genitori ai figli, rammendandoli, stringendoli e adattandoli, ma si cominciò ad acquistare i capi d’abbigliamento nei grandi magazzini, dove costavano poco ed erano già pronti su misura; quando le coppie in luna di miele non si accontentarono più di un viaggetto simbolico, nella città più vicina, se non proprio, come i loro genitori, di un giro in carrozza attorno alla piazza del paese; e quando nacque l’abitudine, per le famiglie, di andare a trascorrere qualche giorno di ferie al mare, sotto l’ombrellone dell’albergo, magari servendosi della piccola utilitaria acquistata a rate per quel preciso scopo: fu allora, dicevamo, che la povertà incominciò ad assumere i colori della vergogna, ad essere oggetto di disapprovazione e a far nascere il pregiudizio, stupido e malevolo, che "povero" sia strettamente imparentato con "pigro", "svogliato", o, addirittura, "non del tutto onesto".
Ebbene: vi è stata una lunga epoca nella storia della nostra civiltà – l’epoca medievale – nella quale, per secoli e secoli, la povertà non è stata considerata affatto come una vergogna, un disonore, un vizio; e ciò non solo per la banale constatazione che essa era largamente diffusa, e si inscriveva in un quadro sociale complessivo caratterizzato da una forte tendenza alla sobrietà e al pieno utilizzo delle risorse (cioè l’esatto contrario della odierna civiltà dei consumi e dello spreco), ma anche per una ragione di fondo di tipo culturale e religioso, che oggi è andata pressoché perduta, fuor che in alcuni ordini monastici dalla regola particolarmente severa: ossia in ragione della "imitatio Christi", dell’essere simili a Gesù e in linea con la sua Buona Novella; per il fatto, cioè, di prendere molto sul serio l’ammonimento evangelico sulla difficoltà di entrare, da ricchi, nel regno dei Cieli, e sulla impossibilità di servire a due padroni, Dio e Mammona.
Il vagabondo, il povero, il malato, si presentavano come l’immagine vivente del Cristo: «Se avrete fatto del bene all’ultimo dei vostri fratelli, l’avrete fatta a me», aveva detto Gesù in persona, nella maniera più esplicita. E la civiltà medievale non scherzava su certe cose: allegorizzava su tutto, ma poi andava dritta al sodo e pretendeva la massima coerenza fra teoria e pratica. Tutto si poteva perdonare al peccatore pentito; quel che non veniva facilmente perdonato, non solo dalla Chiesa, ma dalla coscienza collettiva delle comunità, era il fatto di prendesi gioco di Dio, di adattare il Vangelo alla misura del proprio egoismo: sotto questo punto di vista, l’uomo medievale era assai meno rozzo ed ingenuo di come amano dipingerlo certi scrittori dei nostri giorni. Più schietto, più immediato, più sanguigno dell’uomo moderno, egli vedeva immediatamente la distanza tra il dire e il fare e non girava la testa dall’altra parte, non faceva finta di nulla. Quando la Chiesa scomunicava un usuraio, lo scomunicava per davvero e non per finta: non era per gioco che lo minacciava delle fiamme dell’Inferno e del tormento dei demoni; e non per gioco costui, sul letto di morte, non di rado lasciava alla Chiesa, per testamento, gran parte dei suoi beni, con la clausola esplicita che venissero impiegati per il soccorso ai poveri, agli orfani, alle vedove, ai malati. E quando un peccatore pentito confessava i suoi peccati, fosse pure un mostro come Gilles de Rais — lo sappiamo dai verbali del processo che accertò i suoi orrendi delitti e che lo condannò a morte — la folla intera scoppiava in singhiozzi insieme a lui, e perfino i genitori dei bambini che aveva stuprato, ucciso e smembrato, si commuovevano, piangevano senza ritegno e tremavano in cuor loro, pensando alla solennità di quel momento, allorché un’anima pentita, ma lorda di peccati quasi indescrivibili, stava per presentarsi davanti al tribunale del Giudice Supremo, e aveva un bisogno disperato del loro perdono e della loro preghiera..
Ma ora torniamo al discorso sulla povertà (la quale, si badi, va tenuta ben distinta dalla miseria, condizione di abbrutimento e di indigenza estrema, nonché di menomazione permanente della salute e spettro di morte per fame sempre incombente). Ha scritto in proposito Jean Pierre Gutton nella sua monografia «La società e i poveri» (titolo originale: «La société et les paure en Europe (XVIe-XVIIIe siècles», Presses Universitaires de France, 1974; traduzione dal francese di Carlo Capra, Milano, Arnoldo Mondadori Editore, 1977, pp. 77-80):
«In via di principio la civiltà medievale esalta la povertà come una virtù. La povertà in ispirito è presentata come un ideale;la scelta volontaria della povertà costituisce un punto fondamentale delle regole dei grandi ordini monastici. La povertà di fatto, poi, è considerata una conseguenza del peccato, poiché le cause della miseria –guerre, calamità agricole…- sono altrettanti castighi inviati da Dio per punire l’umanità dei suoi peccati. Ma il Cristo, con la sua vita terrena, ha voluto santificare la povertà. Perciò i poveri si identificano con Cristo, sono le sue "membra sofferenti", i suoi rappresentanti sulla terra. Pierre de Blois indica il povero con l’appellativo di "vicarius Christi" , e l’espressione "poveri di Gesù Cristo" è abituale. Una tale concezione valorizza la scelta volontaria della povertà. Del povero essa fa un intercessore privilegiato presso Dio. La sua preghiera attirerà benedizioni particolari sul suo benefattore. Così si scelgono volentieri dei poveri per tenere a battesimo un bambino; così i membri di una confraternita fanno l’elemosina ai poveri affinché preghino per i loro confratelli defunti. Inoltre la povertà ha una sua utilità sciale: essa concorre alla redenzione degli uomini. Per i ricchi l’elemosina fatta ai poveri è una delle vie possibili di salvezza. Per i poveri l’umiltà e la rassegnazione sono mezzi per guadagnarsi il paradiso.
Tuttavia, alla fine del Medioevo, queste teorie riguardo ai poveri e alla povertà non sono più le sole. Esse coesistono con una corrente di pensiero che nella povertà vede una maledizione e nei poveri dei pericoli per la società. La povertà degrada l’uomo, lo rende ozioso e inutile. Vi è di più: negli ultimi secoli del Medioevo si diffondono la criminalità, il furto e il brigantaggio. E poiché gli indiziati sono d frequente poveri o vagabondi, guadagna terreno l’idea che il povero sia un pericolo pubblico. Già nel Medioevo esiste dunque un atteggiamento ostile verso i poveri e la povertà. Questo atteggiamento è riassunto da una frase del "Roman de la Rose": "Maledetta sia l’ora in cui fu concepito il povero". È difficile dire quando e come questa seconda corrente di pensiero sia venuta a contrapporsi alla prima. Si è supposto, non senza ragione, che almeno sino alla fine del XII secolo, sino a che la povertà fu un fatto quasi esclusivamente rurale, essa venne considerata un segno d’elezione per niente affatto una maledizione. Tutto cambia, quando la disgregazione dei rapporti tradizionali, oltre al sopraggiungere di crisi economiche, moltiplicano i miserabili e li spingono verso la città. Ma a questo cambiamento hanno forse concorso anche altre cause. L’importanza data al lavoro e alla ricchezza, sotto l’influenza del nascente umanesimo, e le interminabili dispute tra gli ordini mendicanti hanno inevitabilmente compromesso la causa della povertà. Le grandi pestilenze della metà del XIV secolo, con i torbidi, le fughe e la scarsità di mano d’opera che hanno provocato, non sono certamente rimaste senza conseguenze. Comunque non è senza significato che, in molti paesi, le prime serie misure contro la povertà furono prese intorno al 1350. Nel 1351 il re don Pedro di Castiglia pubblica un’ordinanza contro i mendicanti validi, che divengono passibili di fustigazione fin dalla prima contravvenzione alla legge. In Inghilterra diversi testi legislativi promulgati da Edoardo III tra il 1349 e il 1351 si prefiggono lo scopo di reprimere la mendicità, il vagabondaggio e l’elemosina data agli oziosi, e nello stesso tempo regolamentano i salari. In Francia un’ordinanza di Giovanni il Buono del 30 gennaio 1350 denuncia "questa specie di gente oziosa, o giocatori di dadi, o chiromanti di strada, o vagabondi, o mendicanti", e li minaccia , se non lasciano Parigi entro tre giorni, della prigione, della berlina e del bando. Più in generale gli ultimi centocinquanta anni del Medioevo vedono in tutta Europa svilupparsi una legislazione contro i mendicanti e i vagabondi. Ma questa legislazione, che d’altronde rimane spesso inapplicata, non cancellano affatto le antiche idee sui diritti sacri del poveri quale rappresentante del Cristo sulla terra. Comincia semplicemente a delinearsi una distinzione, che avrà molta fortuna nei secoli seguenti, tra poveri "buoni" e poveri "cattivi"; e i poteri pubblici, almeno, ritengono indispensabile usare la massima severità contro i secondi. Ma si esita, si va a tentoni, evidentemente, alla fine del Medioevo non si è ancora deciso quale dei due opposti atteggiamenti adottare. […]
L’idea che il povero è un "membro di Gesù Cristo" dominava dunque tutte le opere medievali di assistenza. Se il XVI secolo doveva scegliere fra i due atteggiamenti da adottare verso i poveri, ereditati dal Medioevo, non poteva non tenerne conto. Un eventuale orientamento a favore della lotta contro la mendicità, per esempio, in quelle condizioni doveva accompagnarsi a una riforma ospedaliera, se non alla creazione di nuove forme di assistenza. […]
Nel suo complesso il XVI secolo si è allontanato dal concetto che faceva del povero il rappresentante di Cristo. Questa evoluzione è dovuta a molteplici cause convergenti, che operano in ogni parte d’Europa, nei paesi rimasti cattolici come in quelli riformati.»
Come si vede, il momento di svolta si colloca nel corso del XII secolo e coincide, da un lato, con la fioritura dei comuni, e quindi con l’apogeo della mercatura e della civiltà borghese; dall’altro, con il venir meno della condanna ecclesiastica contro l’usura e con il sorgere e l’affermarsi delle prime grandi banche, che, contrariamente all’etica precedente, trasformano il tempo in denaro, il prestito in interesse, la fatica del lavoro onesto in occasione di profitto smodato per altri, per quelli che non hanno lavorato, né faticato. È a partire da quel momento che incominciano a manifestarsi una diversa percezione del povero e un diverso atteggiamento nei suoi confronti: da immagine vivente del Cristo, egli si carica di connotati sgradevoli, se non proprio decisamente negativi: vagabondo, pigro, vizioso, male intenzionato. Incominciano le ripulse, la disapprovazione, le prime legislazioni anti-vagabondaggio. Certo, è anche un fatto di numeri: una società può permettersi di essere generosa, quando a chiedere la carità è una percentuale molto piccola della popolazione attiva. Ma non è soltanto questo. Una società generosa, così come una persona generosa, non smette di esserlo, perché il numero dei poveri aumenta: almeno entro un certo limite.
Oggi, peraltro, la situazione dell’Italia e dell’Europa è molto cambiata. Il povero è percepito soprattutto come lo straniero: per lui si mobilitano le organizzazioni di volontariato; per lui i governi si sforzano di offrire accoglienza e assistenza; per lui la Chiesa si preoccupa, si indigna se viene respinto, si impegna al massimo perché sia accolto. Se il povero è il proprio concittadino, il proprio vicino di casa, magari un parente, allora le cose cambiano: la sua presenza dà fastidio, oppure, semplicemente, viene ignorata. Che si arrangi; forse, dopotutto, non aveva voglia di lavorare; forse non merita di essere compatito, né aiutato. Sono forse io il custode di mio fratello?
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