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Il linciaggio di von Marinovich getta un’ombra sulla “gloriosa” insurrezione di Venezia del 1848

Fino a qualche anno fa, non c’era studente che non conoscesse tutta una serie di particolari edificanti dei due momenti più significativi — secondo i cultori del politicamente corretto – della nostra storia recente, il Risorgimento e la resistenza: dall’"Obbedisco" di Garibaldi alla stampella di Enrico Toti, e dalle Quattro giornate di Napoli (che nel resto del mondo, e specialmente in Germania, nessuno conosce, forse perché non sono mai esistite) all’azione "di guerra" di Via Rasella (mettendo dell’esplosivo in un cassonetto delle immondizie per uccidere una trentina di soldati tedeschi ignari, oltre ad alcuni inermi passanti romani).

Non altrettanto solleciti sono stati, le nostre maestre e i nostri professori, nel raccontarci l’altra faccia della medaglia: le viltà e i compromessi, gli inganni e i tradimenti, di cui sia il Risorgimento, sia la resistenza sono costellati; né, tanto meno, nel farci capire quella pagina "oscura" non poteva non esserci, non solo perché nulla, nella storia, è tutto bene o tutto male, ma anche per ,’ottima ragione che entrambi quei fenomeni storici, Risorgimento e Resistenza, non son o stati precisamente quel che si è voluto far credere, e che, specialmente la seconda, sono stati piuttosto una guerra civile, barbara e spietata, nella quale non c’è stato molto di cui andare fieri, e molto, invece, di cui vergognarsi.

Ecco, allora, che la retorica patriottica diventa un alibi, un travestimento, un’astuzia per mettere in ombra il lato oscuro della storia e per esaltare, in maniera acritica ed agiografica, assolutamente sproporzionata alla realtà dei fatti, le pagine di "eroismo", di abnegazione, di gloria, di sacrificio, che pure ci sono state, ma raramente così pure e nobili, così idealistiche e disinteressate, come le si vuol raccontare. Quanti di noi hanno appreso, sui banchi di scuola, che nella sola battaglia di Adua, in Africa, sono morti molti più soldati italiani che in tutte le guerre e le lotte del Risorgimento messe insieme; e che ad Adua non si trattava di caciare gli Austriaci e fare l’unità e l’indipendenza della patria, ma di imporre il protettorato italiano all’Impero di Abissinia? E quanti di noi hanno imparato, sempre sui banchi di scuola – e non dopo, per conto proprio -, che i partigiani comunisti, negli ultimi giorni della Seconda guerra mondiale, e nelle settimane, nei mesi e nei due-tre anni successivi, hanno ucciso e fatto sparire i cadaveri di alcune decine di migliaia di persone, compresi preti, maestre elementari, padri e madri di famiglia, ex militari, commercianti, professionisti, ragazzi, rei di essere "borghesi" e dunque nemici di classe, nemici da eliminare preventivamente per preparare il terreno alla rivoluzione e alla presa del potere? Praticamente nessuno: perché nessuna maestra e nessun professore lo hanno mai detto ai loro alunni e studenti. In compenso, l’opinione pubblica italiana politicamente corretta (perché orientata verso il "progresso", e dunque a sinistra) sa che, in Argentina, durante la dittatura dei militari, vi fu l’oscura tragedia dei "desaparecidos", ammazzati e sepolti in grandi fosse senza nome, oppure gettati in mare. Ma che ci siano stati migliaia e migliaia di "desaparecidos" italiani, nel 1945; che migliaia di mamme e di spose non abbiano avuto neppure una tomba su cui portare un mazzo di fiori, per pregare sui resti mortali dei loro figli e mariti: questo la gran maggioranza degli italiani non lo ha saputo fino a pochi anni fa, e moltissimi continuano a ignorarlo tuttora (perché non c’è peggior sordo di colui che non vuol sentire, né peggior cieco di colui che non vuol vedere).

Infatti, sia il Risorgimento che la Resistenza dovevano essere costruiti, o ricostruiti, attraverso una storiografia di comodo, per nascondere il loro rispettivo peccato originale: il fatto di non essere stato un movimento realmente popolare, il primo, ma piuttosto un insieme di azioni slegate, sovente fratricide (come la Spedizione dei Mille), talvolta terroristiche (come l’attentato di Felice Orsini a Napoleone III, o quella progettato da Guglielmo Oberdan contro Francesco Giuseppe), condotte in assenza del popolo o anche contro di esso; e di non essere stata, la seconda, una "guerra di liberazione", ma una guerra civile, resa più crudele dalla guerra di classe, nella quale gli Italiani si sono massacrati con un furore belluino quale mai si era visto nel corso della loro pur discorde vicenda storica, fino al punto di torturarsi, di seviziarsi, di gettarsi vivi nelle foibe, di ammazzarsi spietatamente perfino tra membri dello stesso schieramento. Una "guerra di liberazione" nella quale anche l’assassinio di un vecchio inerme, che era anche un grande filosofo e un vero uomo di cultura, uno degli ultimi, reo di predicare la riconciliazione nazionale – Giovanni Gentile -, veniva assassinato per la strada, come una belva feroce, per poi presentare tale assassinio come una legittima e sacrosanta azione di giustizia patriottica.

Ma guardiamo da vicino una pagina non troppo gloriosa del nostro Risorgimento: non per amore del fango, ma per ribrezzo della falsità e dell’ipocrisia. Guardiamo da vicino l’evento che mise in moto l’insurrezione di V, o piuttosto il linciaggio, del colonnello von Marinovich, della Marina austriaca; e scopriremo che non è cosa di cui vantarsi poi troppo.

Così ricostruisce il fatto lo storico veneziano Alvise Zorzi nella sua pregevole monografia «Venezia austriaca» (Bari, Laterza, 1985, pp. 87-89):

«La maggioranza degli amici di Manin, come Angelo Mengaldo, come Bartolomeo Benvenuti, Jacopo Bernardi, Giovanni Francesco Avesani, era contrarissima a un’azione di forza. Mengaldo, comandante della Guardia Civica, aveva anzi rifiutato di cedere il comando a Manin, che gliel’aveva chiesto, per non "assumersi la responsabilità di esporre a morte certa migliaia di uomini; ancora di più, aveva dato ordine di non permettere a Manin di riunire la sua compagnia, di non concedergli nemmeno un uomo, per nessun pretesto, nella giornata del 22 marzo, e Manin, frustrato e corrucciato, si era ficcato a letto vietando a chiunque di disturbarlo. A mutare le sorti fu un ufficialetto di Marina, tal Salvini, che, violando la consegna, gli si presentò in camera gridando che in giornata (erano le dieci del mattino) Venezia sarebbe stata bombardata e saccheggiata, che non c’era un minuto da perdere, che la Marina era pronta a insorgere se appena lui, Manin, si fosse presentato all’Arsenale. Mentre l’avvocato si vestiva in fretta, dettando all’amico Degli Antoni una protesta contro il bombardamento da distribuire ai consoli esteri, un altro messaggero, inviato dal capitano Antonio Paulucci, un veterano della cospirazione, amico dei fratelli Bandiera e dello stesso Manin, gli portò la notizia più sensazionale, quella dell’eccidio del direttore dell’Arsenale, capitano di vascello von Marinovich.

Era costui un ufficiale di Marina di grande esperienza professionale, che Vienna aveva messo alle costole del giovane e brillante arciduca Federico quando questi era stato nominato comandante superiore dell’imperiale e regia Marina ed era diventato, in breve tempo, "onnipotente e odiato", anche perché era stato lui stesso a svolgere un’inchiesta "minuziosa e severissima" in seguito alla quale molti abusi, molti e gravi difetti della gestione dell’Arsenale e dell’amministrazione militare marittima erano stati scoperti e molti ufficiali d’ogni grado, compreso il predecessore dell’arciduca nel comando, erano stati mandati in pensione. Diventato direttore dell’Arsenale, Marinovich aveva preso il suo incarico molto sul serio: più che un "dirigente spietato", come lo descrive qualcuno, era un direttore rigoroso, che pretendeva molto e concedeva poco e che, per evitare che gli arsenalotti svolgessero, come molti di loro facevano, un doppio lavoro, aveva vietato ai proprietari e direttori dei cantieri privati di utilizzarli. Ancora una volta, il rigore austriaco cozzava col "laisser-faire" invalso, portando con sé gli amari frutti dell’odio. Tanto più che il rigore di cui Marinovich si gloriava non era corretto dal buon senso: nelle strette della crisi economica, il maresciallo Zichy [governatore di Venezia, poi processato dagli Austriaci per alto tradimento], che temeva l’esasperazione degli operai, aveva suggerito che si aumentasse loro il salario, ma il rigido direttore non aveva voluto saperne.

Così, già il 21 marzo sera c’erano stati segni di malumore crescente nelle maestranze, minacciosi capannelli si erano raccolti intorno alle porte in attesa del direttore e questi era stato fatto uscire sotto la protezione della Guardia Civica. Sarebbe stato meglio che Marinovich fosse rimasto a casa, come gli aveva consigliato lo stesso ammiraglio Martini, suo superiore gerarchico, ma un malinteso orgoglio l’aveva spinto ad andare lo stesso in Arsenale la mattina del 22, solo, a testa alta, sfidando come poi fu detto, "collo sguardo irato e bieco gli operai". Il cavalleresco Paulucci, che sentiva montare la furia degli arsenalotti, aveva cercato di salvarlo facendolo entrare in una torre, ma un operaio, forse il fabbro Conforti, era riuscito a conficcare una spranga di ferro appuntita nel fianco del direttore e a trascinarlo giù per le scale dove l’aveva finito.

Nonostante gli sforzi del’agiografia patriottica per sublimarla, l’uccisione di Marinovich non era stata che un brutale episodio di lotta sociale violenta. Ma era stata provvidenziale, perché doveva provocare lo scoppio della rivoluzione e contribuire decisamente al suo successo. Prima di tutto, mette le ali ai piedi a Manin, che teme l’anarchia e, soprattutto, la reazione austriaca, e che, solo col figlio Giorgio, corre all’Arsenale, tirandosi appresso tutte le guardie civiche che incontra. Poi mette una paura così nera in corpo all’ammiraglio Martini da lasciarlo allocchito nel suo ufficio dove Manin, resosi fulmineamente conto della situazione, piomba pretendendo di ispezionare l’Arsenale, subito presidiato dalle sue guardie civiche. Intanto arrivano i granatieri del reggimento Wimpffe, e i fanti di Marina: le guardie civiche di sentinella alla cosiddetta porta di Lepanto sbarrano loro il passo. È un momento critico, ma all’ordine di aprire il fuoco i granatieri, in gran parte contadini veneti, rispondono fraternizzando con i "civici". Ormai la partita è giocata, tanto più che Martini, per paura che cadessero in mano agli insorti, aveva dato ordine di rimandare a Pola due navi da guerra delle quali aveva sollecitato l’invio.»

La chiave di volta di tutta la ricostruzione dello Zorzi è in quel riconoscere che l’eccidio di Marinovich non ebbe nulla di patriottico (e tanto meno di lodevole), ma, nello stesso tempo, nel sostenere che esso, tuttavia, fu addirittura "provvidenziale", perché finì per provocare lo scoppio della "rivoluzione" — parola forse un po’ grossa, dato i il contesto: come dire che il fine giustifica i mezzi e che il barbaro assassinio si risolse in una "felix culpa", dato che la rivoluzione è un valore in se stesso, e che qualsiasi cosa la favorisca, non può essere che un bene.

In effetti, le battute precedenti della ricostruzione sanno piuttosto di commedia che di tragedia, con Manin che se ne va a letto per dispetto verso i suoi stessi amici, come un adolescente immusonito, e si chiude in camera, per dormire, fino alle dieci del mattino, mentre Venezia è percorsa da fremiti d’insurrezione, dopo la notizia che Milano è insorta e che la stessa Vienna è in fiamme. E questo ondeggiare fra commedia e tragedia, fra teatro delle marionette e macelleria messicana (con quel fabbro energumeno che conficca una sbarra di ferro nel corpo del povero Marinovich e lo trascina giù dalle scale, per finire degnamente l’opera solo incominciata), è, purtroppo, un tratto costante della nostra storia patria, al di là dell’agiografia di prammatica.

Attenzione: non stiamo sostenendo che la storia dovrebbe essere immune dalla violenza; sappiamo bene che gli esseri umani non sono angeli e che la storia, di conseguenza, procede quasi sempre in mezzo a fiumi di sangue. Stiamo dicendo che il tempo dei miti di cartapesta è finito e che ciascuno di noi dovrebbe essere abbastanza adulto da guardare alle cose, e dunque anche alla storia, senza dover prima inforcare le lenti prescritte da questa o quella ideologia. Non vogliamo negare qualsiasi valore spirituale al Risorgimento; stiamo solo dicendo che il Risorgimento, come qualunque altro evento o processo storico, deve essere studiato in maniera spassionata, per quanto possibile obiettiva e non ideologizzata: resistendo all’eterna tentazione di fare della storia il teatro di una lotta ove il Bene e il Male sono tutti da una parte sola, e di abbellire o edulcorare i lati oscuri di essa, per non dover riflettere sul loro significato. Le cose ci parlano se noi siamo capaci di interrogarle; ma se abbiamo già deciso quel che è Vero e quel che è Falso, prima ancora di esserci confrontati coi fatti, le cose resteranno mute. Vi sono, infatti, due tipi umani: quelli che si fanno domande e quelli che vogliono risposte preconfezionate. Gli uni sono vivi; gli altri sono già morti, e neppure lo sanno…

Fonte dell'immagine in evidenza: Wikipedia - Pubblico dominio

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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