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La democrazia si ritiene superiore moralmente, oltre che politicamente, a qualunque forma di ideologia e a qualunque governo non democratico:è questo l’assioma fondamentale che non solo giustifica, ma rende addirittura inevitabili, perché doverose, le guerre "di liberazione" da essa condotte, dal 1792 a oggi, in nome del "popolo" e della "libertà". Le motivazioni, sempre nobilissime e inattaccabili, sono sempre le medesime: sia che si tratti di bombardare con le bombe al fosforo delle città europee pressoché indifese e rigurgitanti di profughi, di ammalati, di civili stremati dalla fame, di bambini terrorizzati, oppure che si tratti di radere al suolo, con l’atonica, un paio di città giapponesi; o, ancora, che si tratti di colpire gli argini dei fiumi vietnamiti per allagare le campagne e provocare la carestia, o di irrorare le foreste e le risaie con quantità industriali di veleni chimici; o, di nuovo, di colpire con i droni inermi città irachene, villaggi afghani, e magari anche di finanziare eserciti mercenari destinati a invadere Stati centro-americani poco propensi allo strapotere delle multinazionali, mettendo a ferro e fuoco i villaggi, stuprando le donne e assassinando i contadini.
Una democrazia totalitaria, dunque, che fa sua, in tutto e per tutto, la polarità amico/nemico cara a Carl Schmitt e che, nello stesso tempo, come insegna Paul Wolfowitz, persegue ostinatamente, testardamente, con qualunque mezzo, il disegno di imporre un Nuovo Ordine Mondiale, basato sulle meraviglie del libero mercato (libero per gli Stati Uniti d’America, gli unici a guadagnarci, ma non per gli altri) e, appunto, del sistema di governo democratico: questo è il volto onnipervasivo e autoreferenziale con cui essa si presenta, mentre, forte del condizionamento culturale e psicologico che esercita attraverso l’asservimento completo dei media, non esita a proclamare che non esiste, né potrebbe esistere, altra verità all’infuori di essa; anzi, che è suo preciso dovere, sua "manifesta" missione (versione aggiornata e riveduta del "White’s man burden" di Rudyard Kipling) muovere guerra a oltranza, fino allo sterminio fisico del nemico, contro qualunque governo che non riconosca, appunto, i due capisaldi irrinunciabili della democrazia parlamentare e partitocratica, e del libero mercato: ipocrita facciata dietro cui si cela il ferreo dominio planetario della grande finanza internazionale e delle maggiori società multinazionali.
Se, poi, ci si domanda da dove derivi, alla democrazia, questa granitica certezza nella bontà e doverosità della propria missione mondiale; dove essa affondi le radici e quali ne siano i modelli di riferimento originari, non si tarderà a constatare come tali radici abbiano attecchito nel momento stesso in cui la democrazia diventava una concreta proposta politica, alternativa e potenzialmente antitetica, al sistema politico-sociale dell’Ancien Régime. Le si può vedere, già mature ed estremamente vigorose, sia nella Rivoluzione americana, sia in quella Francese: e l’una e l’altra appaiono caratterizzate dalla propensione alla crociata e allo sterminio dei nemici fisici, siano essi i Pellerossa, siano i Vandeani. In entrambi i casi la parola d’ordine è la stessa: avanti verso la vittoria, fino all’annientamento totale del nemico.
Il nuovo assalto della democrazia al potere mondiale si scatena nel 1848: fallisce, sostanzialmente, ma guadagna spazio nella pubblica opinione, circonfusa dall’aureola del martirio per le rivoluzioni fallite ovunque, dalla Francia all’Austria, dalla Germania all’Italia: e coloro che le si oppongono, i Metternich, gli Asburgo, i Romanoff, vengono marchiati per sempre con un contrassegno d’infamia indelebile. Basti leggere, in proposito, i giudizi espressi da Giuseppe Mazzini o da Daniele Manin circa il governo austriaco e la funzione storica dell’Austria: difficilmente si potrebbero trovare parole più dure e sferzanti, o una incomprensione più totale, del ruolo svolto dalla monarchia danubiana nel mosaico dei popoli dell’area mitteleuropea e balcanica: ciò che essi vogliono è, né più, né meno, la distruzione totale e la scomparsa definitiva dell’odioso nemico, simbolo di reazione e di oppressione, meritevole di eterna infamia e d’illacrimato oblio. Vittoriosa in Francia dopo la caduta di Napoleone III, vittoriosa in Gran Bretagna per un lento trapasso e una graduale sostituzione del liberalismo, suo iniziale avversario, la democrazia ritenta l’assalto mondiale nel 1914 e, stavolta, vince ovunque, sbaragliando qualsiasi avversario: crollano gli Imperi "reazionari": Germani, Austria-Ungheria, Russia e Turchia, anche se, sulle ceneri d’uno di essi, sorge il regime bolscevico, suo mortale nemico. Gli anni fra le due guerre mondiali, e specialmente la grande crisi del 1929, la mettono in crisi là dove si è affermata male e di recente, come la Germania, o dove non si era ancora pienamente stabilita, come l’Italia: ci vorrà una nuova guerra mondiale per battere e cancellare i nuovi totalitarismi, ma, per farlo, essa dovrà allearsi proprio con il suo peggior nemico, il comunismo sovietico, e poi sostenere quasi mezzo secolo di guerra fredda contro di esso.
E non è ancora finita: perché, crollato il comunismo, si materializza quasi d’incanto, sulle ceneri della Persia dello Scià, il nuovo e più temibile modello totalitario, quello dell’integralismo islamico, che, da Khomeini a Osama Bin Laden, ha dichiarato guerra, a sua volta, e guerra senza remissione, alla democrazia occidentale; anzi, ha riesumato il modello fondamentalista del Mahdi nel Sudan, ai tempi delle lotte anticoloniali di fine Ottocento, e, prima ancora, il modello della "guerra santa" maomettana, alle origini stesse dell’Islam. Un modello che ha giurato di distruggere non solo la democrazia, ma anche il cristianesimo e tutto l’Occidente in quanto tale, e che pure la democrazia americana ha creduto, più volte, di poter addomesticare il fondamentalismo islamico ai suoi fini: prima, fomentandolo e sostenendolo contro i Sovietici in Afghanistan; poi, per favorire la caduta delle dittature "laiche" dei vari Saddam Hussein in Iraq, Gheddafi in Libia e Assad in Siria, sempre sulla pelle di quei popoli sfortunati e sempre proclamando di voler esportare il felice modello della libertà e del mercato. Guerre, queste ultime, che hanno avuto anche, quale effetto collaterale, quello di sospingere verso l’Europa, attraverso il Mediterraneo, immense turbe di profughi, in mezzo ai quali si sono mescolate ancor più ampie schiere di emigranti, fra i quali non sono certo pochi i terroristi islamici, attuali e potenziali: curioso ritorno del nemico che si era voluto combattere e che, cacciato dalla porta, si ripresenta in Occidente passando per la finestra e, addirittura, protetto dalla legislazione umanitaria, buonista e democratica.
Alle radici della moderna democrazia totalitaria e imperialista, peraltro, non si trovano solo i Giacobini francesi, che praticano lo sterminio di centinaia di migliaia di nemici, né solo i pionieri americani che praticano lo sterminio di milioni di nativi americani (e di decine di milioni di bisonti, dei quali essi vivono): perché, ovunque la democrazia sia giunta al potere, o vi abbia anche solo aspirato, là si trovano, "in nuce" e più o meno implicite, le teorie della "giusta" guerra di sterminio contro quanti osano opporsi alla sua marcia trionfale. La democrazia, infatti, nata dalla matrice illuminista, ne sposa la fede cieca e assoluta nel Progresso e, dunque, ritiene che la sua marcia coincida con quella della civiltà e del Bene stesso. I suoi nemici, dunque, rappresentano il Male, anzi, lo Spirito del Male: perché la componente religiosa del pensiero democratico (beninteso, di una religiosità laica e nemica di ogni vera trascendenza, coincidente, in ultima analisi, con la religione civile dello Stato) fa sì che essa veda in ogni nemico un’incarnazione del Male assoluto. Non solo: se l’obiettivo finale dei philosophes non è neppure il Progresso, ma la Felicità dei popoli (il Progresso essendo un mezzo in vista di quel fine), ne discende che chi resiste alla democrazia è anche un nemico giurato della Felicità. E chi mai può essere nemico della Felicità, destino finale dei popoli e restaurazione dell’Eden, popolato da una umanità tutta buona e innocente, come aveva vaneggiato Rousseau: chi, dunque, se non un Mostro, un Ciclope o un Minotauro, degno di morte?
Leggere Giuseppe Mazzini per credere. Quando scoppia la guerra di Secessione americana, egli è fin da subito, neanche a dirlo, schierato dalla parte degli anti-schiavisti, cioè degli unionisti: non è forse lo schiavismo, manifestamente, una delle più odiose incarnazioni del Male (anche se gli operai o i minatori della Rivoluzione industriale, per non parlare dei bambini costretti a lavorare quattordici o sedici ore al giorno, se la passano assai peggio di moltissimi schiavi neri delle piantagioni sudiste: ma questo è meglio non dirlo troppo in giro, anzi, meglio non dirlo affatto). La causa dei Nordisti è la causa del Bene, la causa dei Sudisti è quella del Male: con un monolitismo superiore perfino a quello con cui Torquato Tasso vede nei Crociati di Goffredo di Buglione le forze che servono Dio, e nei Musulmani che difendono Gerusalemme le forze del Demonio. Del resto, tutti lo pensano: non c’è giornalista o scrittore, con qualche eccezione solo in Francia e in Gran Bretagna, che non diffonda una simile Vulgata; perfino Jules Verne non si lascia sfuggire l’occasione per presentare, ne «L’isola misteriosa», la manichea contrapposizione fra il Nord "giusto" e il Sud esecrabile.
La posizione politico-morale di Mazzini appare chiaramente dal suo commento alla crisi occupazionale del Lancashire, provocata dalla cessazione delle importazioni di cotone sudista, in una lettera inviata all’«Unità Italiana» il 20 novembre 1962, in cui, tra l’altro, afferma (cit. da E. Marcello Barsotti, «Mazzini tra abolizionismo, autodeterminazione del Sud e difesa della Repubblica americana», in «Il pensiero mazziniano», Genova, n. 2 del 2012, p. 111):
«E nondimeno essi [gli operai del Lancashire] soffrono in silenzio e pacifici perché sanno che dalla guerra cagione della loro miseria uscirà probabilmente un radicale mutamento nelle condizioni sociali di parecchi milioni di neri oggi schiavi. A questi uomini del Lavoro Dio mise in fondo del cuore l’istinto della grande contesa che il mondo combatte in nome della Libertà contro lo Spirito del male che ha nome ineguaglianza e servaggio.»
Santa, pertanto, è la causa dell’Unione, e ciò per due ottime ragioni: primo, perché si tratta di difendere l’unità della Repubblica nordamericana, e qualunque Repubblica rappresenta un bene inestimabile (anche se una parte dei suoi cittadini non ne vuole più sapere); secondo, perché coincide con la causa dell’emancipazione degli schiavi, dunque della Libertà: e la libertà, quando sia messa con la lettera maiuscola, diventa anch’essa un feticcio davanti al quale tutti devono prostrarsi adoranti. Nella visione religiosa di Mazzini, "repubblica" è sinonimo di "libertà", dunque chi combatte contro una repubblica non può che essere un nemico della libertà e, quindi, un agente del Male con la "m" maiuscola, versione solo lievemente modificata del Diavolo cristiano. Quanto al fatto che gli operai inglesi, licenziati e disoccupati a causa della Guerra civile americana, non si lamentavano del loro stato, perché coscienti e perfino gioiosi di soffrire per la nobilissima causa dell’abolizionismo: be’, ci sia concesso di nutrire qualche dubbio…
Ma non basta: Mazzini va ancora più in là e si spinge a sostenere che gli Stati Uniti, essendo la più grande repubblica al mondo, non possono sottrarsi al loro ruolo di nazione-guida; e che l’Unione ha un dovere nei confronti dell’umanità: quello di tenere alta la bandiera della libertà, combattendo le forze del Male ovunque si trovino (ad esempio la spedizione francese in Messico, per mettere sul trono Massimiliano d’Asburgo). Ed ecco Mazzini affermare che l’America, rigenerata dalla guerra civile — perché le guerre civili, si sa, hanno un forte potere tonificante e rigenerante, insomma sono quanto di meglio possa capitare ad un popolo per crescere moralmente e politicamente — dovrà dare la mano ai repubblicani europei per portare la guerra ai "tiranni" in casa loro: Napoleone III, gli Asburgo e tutte le altre forze reazionarie che ancora si oppongono alla marcia trionfale del Progresso.
In ciò, possiamo ben dirlo, Mazzini è stato profeta, quando poteva sembrare solamente un visionario: l’idea che gli Stati Uniti entrassero con tutto il loro peso nelle vicende dell’Europa, rinunciando al loro "egoistico" isolamento per sobbarcarsi sulle spalle il fardello della libertà mondiale, abbattendo i tiranni (il Kaiser nella prima guerra mondiale, Hitler e Mussolini nella seconda) è divenuta la stella polare della politica statunitense nel XX secolo, e lo è tuttora, con l’entusiastico appoggio dei più diretti eredi italiani del pensiero mazziniano: quei radicali che, ogni qual volta Washington e Gerusalemme si apprestano a fare qualche guerra preventiva contro uno Stato arabo, corrono immediatamente a sventolare le bandiere degli Stati Uniti e d’Israele, per testimoniare ad essi tutta la loro ammirazione e la loro solidarietà, magari anche solo morale, ma piena e indefettibile, a sfida — se occorre — del mondo intero…
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