
Quando il capodoglio diventava cacciatore e i balenieri erano la sua preda
13 Ottobre 2015
Il pensiero primitivo non opera distinzioni categoriali, ma abbraccia tutto il reale in unità
13 Ottobre 2015La mentalità tecnologica dell’uomo occidentale non è il risultato di un incidente di percorso o di una distorsione dell’ultima ora, ma il punto d’arrivo di una sistematica e, a suo modo, coerente negazione della natura, che parte da molto lontano, ma che "esplode" all’epoca della cosiddetta Rivoluzione scientifica del XVII secolo, i cui capisaldi sono stati fissati da Francis Bacon, Cartesio, Galilei e, più tardi, Newton.
La negazione della natura è implicita nel meccanicismo; e il meccanicismo è il nucleo del nuovo paradigma culturale che si diffonde a partire dai primi decenni del 1600, per divenire, nel giro di un paio di secoli, la cultura dominante della modernità, della quale siamo tuttora succubi. A sua volta, il meccanicismo non è che il logico risultato di un modo di porsi di fronte al reale, che trova le sue massime teorizzazioni nel pensiero razionalista del XVII secolo. Anche il panteismo di Spinoza è, a ben guardare, una forma di negazione della natura: se Dio e l’universo sono una cosa sola, allora l’universo non è più una realtà autonoma, che va compresa e custodita dall’uomo, ma la faccia immediatamente visibile della Ragione universale: che può essere studiata e analizzata con lo stesso rigore e con la stessa precisione d’un teorema geometrico o matematico.
Negata in quanto realtà autonoma, la natura diventa il campo di manovra della conoscenza umana, ridotta a puro esercizio di potenza: Knowledge is Power, sapere è potere. A questo punto qualsiasi manipolazione su di essa diventa lecita, perfino necessaria: per secoli e secoli la natura è stata più forte dell’uomo; ora che l’uomo, per dirla con Galilei, è divenuto capace di leggere nel gran libro dell’universo, che è scritto in caratteri matematici, si tratta di domarla, sottometterla, e anche, un poco, di vendicarsi di essa, di "fargliela pagare": solo così si spiega l’atteggiamento di sfida, ma anche di astio e di rancore, con il quale molti intellettuali di quel periodo guardano alla natura, pur facendo mostra di "stupore", "meraviglia" e perfino di "umiltà". Ma si tratta di uno stupore e di una meraviglia che non fanno vibrare le intime corde dell’anima, ma riguardano solo la facoltà razionale e la grande sfida della conoscenza; e di una umiltà puramente teorica, intellettualistica, che non si rivolge all’oggetto della propria indagine, ossia la natura e le creature viventi che ne fanno parte, ma unicamente al fatto della conoscenza in se stesso, astratto, impersonale, e alle sue possibilità di arrivare fino alla spiegazione integrale dei fenomeni.
Scriveva, or sono quarant’anni, il filosofo Sergio Cotta nel suo libro «L’uomo tolemaico» (Milano, Rizzoli, 1975, pp. 139-141):
«… Tocchiamo qui il punto decisivo del’ideologia neotolemaica e neoprotagorea. In essa la negazione filosofica della natura, e la sua totale manipolabilità e artificializzazione, è accompagnata, in significativo parallelismo, dalla negazione della natura universale dell’uomo ridotto al puro suo fare. Se in Kant l’uomo è ancora visto nella prospettiva di una ragione e un dovere universali, sia pure meramente formali, dopo Kant il processo di relativizzazione precipita. Con lo storicismo l’uomo viene definito dal momento storico in cui è racchiuso, gli viene riconosciuta realtà culturale ed etica solo nella comunità nazionale ci appartiene da Hegel, nella classe produttiva da Marx, nella razza da Gobineau e Houston Chamberlain, nella cultura del suo gruppo da certa antropologia culturale odierna, nella singolarità della sua decisione da Sartre, nella individualità dei suoi istinti dalla sinistra freudiana.
In questo accelerato processo di relativizzazione, scompare, irrisa e distrutta, l’idea stessa della universalità della natura dell’uomo. E questi, per un verso, si ritrova chiuso nelle determinazioni storico-ambientali del proprio gruppo di appartenenza. Per un altro verso, è spinto a liberarsi da questi soffocanti determinismi collettivi nella casualità di una invenzione personale assoluta, sciolta da ogni legame /(penso a quel personaggio emblematico che è il Goetz di Sartre) e nella effimera gestualità del proprio atteggiarsi particolaristico.
L’universale natura umana scompare PERCHÉ è scomparsa l’intrinseca consistenza della natura delle cose? È probabile — certo sono scomparse INSIEME. Del resto, un nesso preciso fra queste due sparizioni è possibile indicarlo sulla scorta del pensiero di Heidegger. Se per sua essenza la Tecnica è disintegrazione della struttura delle cose al fine di ridurle, prive di forma propria, a pura energia quantitativa consegnabile ala piena disponibilità del’uomo, la Tecnica allora è espressione radicale dell’oblio dell’Essere. Non stupisce perciò che, in questo oblio radicale, venga coinvolto anche l’individuo fino a obliare ciò che ‘accomuna a qualsiasi altro individuo: la struttura e il destino.
Nella prospettiva del neotolemaismo fabbrile, l’individuo si ritrova perciò consegnato all’universo della separazione: separato dalla natura, dagli altri, dall’Essere. Ma la separazione comporta una lotta — con la natura, con gli altri, con Dio — che può aver fine soltanto con la raggiunta supremazia. In tutte le direzioni l’uomo tolemaico si sente esaltato dall’antica tentazione: la volontà di essere Dio, il Signore, il Totalmente Altro.
Ebbene, l’incombente minaccia della distruzione EFFETTIVA della natura, con l’inquietudine che ci tormenta e ci unisce tutti nel profondo, vanifica questo delirio della possibilità e condanna l’universo della separazione. Se la morte dell’umanità è possibile, e PER OPERA NOSTRA, allora unicamente la riacquistata coscienza dell’universale natura umana potrà unirci tutti in un’opera restauratrice e conservatrice del mondo. Solo questa coscienza universale potrà far cadere gli ostacoli delle ideologiche nature artificiali che a noi stessi abbiamo imposto dacché, alla natura del mondo e alla nostra, abbiamo sovrapposto l’azione incontrollata e smisurata della storia, della NOSTRA storia tutta risolta nell’umano.
Se avrà riscoperto la propria natura universale nella sua vitale solidarietà con un cosmo — che, come ha indicato Einstein, non è né infinito né eterno — l’uomo potrà di nuovo padroneggiare se stesso, il sapere, la tecnologia, orientandoli a fini di vita. Potrà essere indagatore rispettoso e insieme audace dei misteri inesauribili dell’Essere che tutto trascende e tutto pervade perché non è da noi misurato ma è la misura nostra e del mondo.»
La tecnica, dunque, non è che l’espressione più radicale dell’oblio dell’Essere; la scienza moderna, meccanicista e riduzionista, non è che l’altra faccia dell’eclisse della metafisica e della teologia; e i suoi successi spettacolari, ma inquietanti, non solo che l’espressione di un Logos strumentale e calcolante che procede ciecamente per la propria strada, fatta di pura efficienza e di puro tecnicismo, senza domandarsi dove stia andando e senza interrogarsi sul significato del proprio inesorabile avanzare "al di là del bene e del male".
L’uomo tolemaico, allora, è anche l’uomo faustiano, che non arretra davanti a nulla, neanche davanti alla concreta possibilità della propria autodistruzione, della propria nemesi totale e irrimediabile, perché nulla riconosce a sé superiore, e, inebriato dal sogno di potenza che le sue stesse macchine hanno, apparentemente, coronato, ha perso ogni senso del limite, facendosi il Dio di se stesso e soggiacendo ad una funesta ossessione dettata dalla "hybris", dalla prometeica dismisura che lo ha afferrato e che ormai lo possiede.
La via d’uscita sarebbe, naturalmente, quella indicata da Sergio Cotta: una ritrovata coscienza della universalità della natura umana, un ritorno all’Essere e un abbandono dei deliri di onnipotenza tecnologica: ma l’uomo moderno, ormai posseduto dal demone della manipolazione e del dominio assoluto sulle cose, sarà capace di riconoscerla e di percorrerla? Oppure egli è già travolto da quelle forze demoniache che ha incautamente evocato, cedendo ad esse, in cambio di un sapere brutalmente strumentale, quote sempre più grandi della sua stessa umanità, fino a divenire estraneo e irriconoscibile a se stesso?
Nessuno può dirlo: la ruota del progresso si è messa girare in maniera sempre più vorticosa e si direbbe che l’uomo non sia più l’orgoglioso padrone delle macchine da lui costruite, o del forsennato tecnicismo da lui evocato, ma che ne sia divenuto il miserabile schiavo, sempre più avvinto e quasi rassegnato ad una fatalità che lo trascende e che lo ha afferrato, trascinandolo verso lidi sconosciuti e imprevisti, in una paurosa terra di nessuno.
Ora egli si trova dominato da una angosciosa solitudine: non c’è più un Dio a rischiarargli la strada, o ad offrirgli sostegno nei passaggi più impervi; né dei valori permanenti ai quali ispirare la sua linea di condotta e nei quali trovare conforto, ispirazione, saggezza: tutto è divenuto relativo, provvisorio, opinabile; il terreno stesso pare che gli stia franando sotto i piedi, rischiando di trascinare nella rovina perfino le sue realizzazioni più superbe e grandiose. E la sua natura soprannaturale, negata e rimossa, grida dal profondo di lui; ma egli non ascolta quel grido e si affida, per esorcizzare le sue paure, a delle guide più cieche di lui: a dubbi filosofi parolai e ad apprendisti stregoni che vanno sotto il nome di psicanalisti.
Per rimettersi sulla strada giusta, che è la strada dell’Essere, l’uomo moderno avrebbe bisogno di riconquistare la propria umanità negata, che è fatta anche e soprattutto del bisogno di Dio e dell’insopprimibile anelito verso l’Assoluto: nulla che sia puramente contingente ed effimero lo potrà mai appagare, acquietare, rasserenare; e nulla lo potrà consigliare con sufficiente saggezza, o confortare con sufficiente umanità. Per tornare all’Essere, dunque, egli deve ridiscendere al fondo di se medesimo: non per pescare negli abissi torbidi e fangosi di un Inconscio mostruosamente vorace e lubrico, ma per ritrovarvi quei tesori luminosi di bene e di amore che giacciono trascurati e abbandonati, da quando egli ha deciso di idolatrare le cose e la tecnica e di tralasciare ciò che è spirituale ed essenziale.
L’essenziale non è, né potrebbe essere, in un disegno di potenza, di utilità, di comodità: l’essenziale è nella semplicità, nella mitezza e nella benevolenza verso il mondo e verso la vita. E la saggezza non consiste nel volersi fare più grande delle cose e più forte della natura (cosa, oltretutto, illusoria e ridicola: quando basterebbe la caduta di un meteorite per porre fine, in un istante, a tutti gli imperi e a tutte le umane ambizioni), ma nel rientrare in se stesso, riappropriarsi di se stesso e della propria intima, luminosa dimensione spirituale. Oppure vogliamo seguitare a comportarci come la rana di fronte al bue, nella famosa favola di Fedro? Vogliamo gonfiare le gote ed il petto, sperando di diventare più grandi e imponenti, fino a trascendere la nostra stessa natura? La tecnica ci offre questa illusione: essendo un prolungamento degli organi, essa nasce appunto da un sogno di potenza meramente quantitativa. Ma anche se avessimo le braccia lunghe quanto il Sistema solare e degli orecchi capaci di cogliere anche il palpito più segreto dell’Universo — il che, con la tecnica, oggi è effettivamente possibile, anzi, sta già accadendo — resteremmo pur sempre dei piccoli uomini artificialmente gonfiati al di sopra delle nostre possibilità, non divenuti più saggi, ma impazziti per l’illusione di aver conquistato una potenza illimitata.
L’uomo, per essere umano, deve conservare sempre ben chiaro il senso del proprio limite. La tecnica, che è il prolungamento della scienza meccanicista e utilitarista, non riconosce limite alcuno; dopo aver oltrepassato ogni nuova frontiera, essa vuole spingersi ancora più avanti, sempre più avanti. Verso dove? Fino a quando? Non lo sa; nessuno lo sa. L’importante è andare avanti. Ma si tratta di una marcia dissennata verso la catastrofe: perché a nessuna persona ragionevole — ah, la nemesi della ragione! — sfuggirebbe il fatto che un treno, lanciato a velocità sempre crescente lungo un binario che si ignora dove finisca, prima o poi finirà per deragliare. E questa è l’esatta, realistica metafora per descrivere l’odierna civiltà della tecnica.
La tecnica, per essere adoperata con saggezza, richiede di essere sottoposta al dominio della dimensione spirituale: solo allora essa non diverrà distruttiva. L’uomo moderno, invece, ha scelto di percorrere la strada opposta: la più banale, la più facile — e la più altamente pericolosa: ha cercato nella tecnica la risposta alle sue domande. Da strumento, ne ha fatto un fine, uno scopo. Da quel momento, egli ha abdicato ad essere umano, cioè padrone di se stesso.
In un certo senso, è buona quella tecnica di cui l’uomo spirituale, volendo, potrebbe fare benissimo a meno; è cattiva, quella di cui l’uomo materiale si rende schiavo, delegandole la responsabilità del proprio progetto esistenziale…
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