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Satana? Ma certo che esiste: è il Super-io; parola di psicanalista

Chi lo dice che il Diavolo è soltanto una invenzione dei preti cattolici per spaventare i bambini e le vecchierelle, e assicurarsi il controllo della società? No, il Diavolo esiste; Satana esiste: solo che non è un essere spirituale, votato alla nostra perdizione in odio a Dio, ma è semplicemente il nostro Super-io. Parola di psicanalista.

O meglio, si tratta di quel Super-io che, a detta degli psicanalisti freudiani progressisti e "di sinistra", è cresciuto troppo, a forza di proibizioni e di ricatti da parte degli adulti ai danni del bambino. Potenza delle trasmutazioni alchemiche di questa fantasiosa pseudo-scienza: riuscire a far passare il freudismo come un Vangelo "di sinistra", dunque libertario e liberatorio, mentre chiunque conosca un minimo gli scritti di Freud, e specialmente la corrispondenza privata, sa bene quale fosse il suo grado di puritanesimo borghese, quanto egli fosse un maestro bacchettone e benpensante. Per lui, nulla era ammissibile, in fatto di sesso, tranne i "normali" rapporti fisici tra marito e moglie: tutto il resto era "perversione".

Nessuna meraviglia, del resto. Se la cultura contemporanea è riuscita a mandar giù, per una settantina d’anni, l’idea, meglio ancora, la saldissima convinzione che Lenin fosse un "amico del popolo", che Stalin fosse il "padre di tutti i lavoratori" e Mao il "grande timoniere" di una rivoluzione capace di svecchiare una buona volta l’atrofizzata società cinese, allora essa si è dimostrata capace di mandare giù qualsiasi cosa. Di chiamare "liberazione" i peggiori totalitarismi; di chiamare "arte" le peggiori brutture; di chiamare filosofia le più strampalate e incomprensibili fumisterie. E poi, cosa c’è di più normale che interpretare il Super-io come un Satana tirannico e reazionario, una volta accettata l’idea freudiana che Dio altro non è se non una aberrazione della nostra mente, un prodotto del nostro senso di colpa collettivo per l’uccisione del Padre amato-odiato da parte dell’"orda primitiva"? Se siamo stati capaci di crearci un Dio trascendente, proiettando su di esso l’immagine, deformata, del nostro padre biologico, possiamo ben essere capaci di crearci anche il nostro Diavolo personale, con tanto di Inferno dell’angoscia e della nevrosi: sempre attingendo dall’abbondantissimo immaginario negativo che la figura del padre, in quanto tale, di qualunque padre, anche il più buono e affettuoso del mondo, non può non evocare nei suoi figlioletti bramosi di incesto con la loro madre.

Quel che potrebbe un po’ stupire, semmai, è come molti psicanalisti di formazione junghiana condividano, in tutto o in pare, questa rozza e semplicistica impostazione freudiana; eppure è così. A chiamare "Satana" il Super-io patologico è proprio un notissimo divulgatore della psicanalisi junghiana, il belga Pierre Daco. Ecco come egli definisce i termini del problema (Da: P. Daco, «Che cos’è la psicanalisi»; ma il titolo originale è ancora più altisonante: «Les triomphes de la Psycanalyse», Marabuout Alleur, Belgique, 1965; traduzione dal francese di Sulvana Gottardi, Milano, Rizzoli, 1982, pp. 226-38):

«Ogni essere umano possiede un Super-Io normale. È quello formato dall’educazione (in senso lato), dal clima sociale, religioso, culturale, ecc. nel quale fu allevato. In ogni caso il Super-Io normale produce dei "pregiudizi" inconsci. […] Il Super-Io normale è come un codice della strada che si rispetta macchinalmente. È in qualche modo un codice sociale della strada umana. Tuttavia, più è inconscio, più rischia (per le sue cristallizzazioni e le sue strettezze) di diventare patologico. […] In breve, milioni di esseri umani vivono nel loro Super-Io (inconscio), invece di vivere sul loro Io (cosciente). Ma essi lo ignorano. Questo Super-Io comanda le loro azioni: siano queste l’acquisto di una cravatta, il matrimonio e la scelta del compagno, la professione, i principi, l’educazione da impartire, il modo di esercitare la religione e il mestiere, la morale, ecc. Ma il Super-Io procura anche una tensione, un senso di colpa, un’angoscia e una rigidità interiori che culminano spesso nella nevrosi, i cui sintomi possono essere tanto fisici che psichici. […] Bisognerebbe definire il Super-Io patologico e cercar di bloccare questo distruttore di esistenze. Super-Io significa (tecnicamente parlando) qualcosa che è aggiunto all’Io, ed è posto al disopra dell’Io bruto. Sarebbe dunque come se, appena nati, venisse iniettato un liquido estraneo nel nostro organismo psichico? Esattamente […]. [Il Super-io patologico] non si forma in un giorno. Ci vuole del tempo. Ogni essere umano fin dall’infanzia cerca di espandersi e di sviluppare una personalità autonoma. Ma spesso l’educazione si trasforma in una serie di divieti sotto pena di punizioni. Molte volte l’educazione si potrebbe riassumere in questa frase: "Guai a te (moralmente parlando) se tu fai questo!". […] Compaiono i dubbi, gli scrupoli, le esitazioni. Nascono i sentimenti di colpa e l’angoscia. L’ostilità è rimossa. Il bambino è inibito. La sua personalità autonoma si incrina. Il Super-Io patologico prende il posto dell’Io. L’Io personale si deforma come una molle argilla. Le pulsioni che giungono dall’inconscio passano dal filtro inquinato del Super-Io prima di arrivare all’Io. E vi giungono ammorbate, naturalmente.[…] La personalità autonoma scompare; viene inghiottita dal Super-Io. Appare una falsa personalità gonfia di scrupoli, di angosce, di paura; l’uomo è spersonalizzato, irrigidito, sottomesso alle sue guardie interiori che lo giudicano in ogni istante e dettano il suo comportamento… […] Molti adulti posseggono un Super-Io smisurato. Praticamente, all’origine si trova sempre l’"ombra" di un genitore nevrotico. Un Super-Io patologico dipende dal "clima" nel quale il bambino e l’adolescente vivono. La psiche umana è come una spugna che s’imbeve d’acqua, sia questa pura o inquinata. […] Il Super-Io è la morale chiusa, rigida, ripiegata su se stessa, con la sua corazza di colpa e di paura. Svincolata dal Super-Io, la morale diventa "aperta": essa si volge al rispetto autentico di se stesa e degli altri. La morale del Super-Io è la morale-prigione. È la personalità costretta in una armatura di gesso. È la morale arcaica, residuo delle paure dell’infanzia. La morale individuale (e autentica) non ha più bisogno di guardie per essere rispettata. È la morale della virtù. E l’individuo diviene virtuoso, non per sforzo o rigidità interiore, ma perché gli sarebbe impossibile non esserlo (di causare cioè un danno a se stesso e agli altri)…»

Daco, che chiama "Satana", e sia pure — crediamo — in senso figurato il Super-Io patologico, lo descrive, in effetti, come si trattasse di una possessione demoniaca: con la nascita di una personalità nuova e deforme, che si esprime attraverso scrupoli e nevrosi, come se fosse dominata da una forza estranea. Anzi, non "come se": per lui, è esattamente quel che succede: una sostanza estranea viene versata nell’Io, la "personalità vera", inquinando e avvelenando tutta la vita psichica del soggetto. E qui viene fuori il trucco: perché Daco parla del Super-Io patologico, contrapposto al Super-Io normale; ma poi si scorda, in pratica, della differenza, e parla del Super-Io patologico come se fosse il Super-Io in quanto tale, e sostiene che la vita psichica dovrebbe fondarsi unicamente sull’Io. Ma esisterebbe un Io, se l’ambiente — e non solo l’educazione impartita consapevolmente dagli adulti, ma tutto ciò che entra nel quadro percettivo dell’infanzia – non lo avesse aiutato a nascere, a formarsi, a maturare? Non è forse l’Io il risultato di una relazione dialettica con il Super-Io, sia esso conscio, sia inconscio? Dunque, la verità è che un Super-Io risulta non solo necessario, ma essenziale per la formazione dell’Io: opinare diversamente, sarebbe come pretendere che la vita psichica delle persone si formasse dal niente. Gli psicanalisti freudiani sostengono che l’Io sarebbe naturalmente sereno e felice, se la società cattiva non lo traumatizzasse mediante questa forma di vessazione o di possessione diabolica; il bambino, così, diviene una specie di Adamo felice e predisposto alla virtù; virtù che può ritrovare, da adulto, solo se riesce a svincolarsi dalle catene del Super-Io (alla fine, a Daco sfugge del tutto la differenza tra Super-Io patologico e Super-io tout-court). La morale insegnata dai genitori è spesso ottusa e repressiva: per liberarsene, bisogna affidarsi ai sacerdoti della psicanalisi. In teoria, si tratta pur sempre di casi circoscritti; ma, poi, si finisce per fare di tutta l’erba un fascio: la patologia psichica diventa condizione strutturale, ontologica, dell’essere umano. Sembrava una questione di cattiva educazione, invece si scopre che l’intera umanità soggiace ai demoni dell’angoscia e della colpa, anche — evidentemente — i bambini che sono cresciuti con dei genitori equilibrati e sereni. Come mai? Non è difficile capire il perché: gli psicanalisti devono delineare una versione laica del Peccato originale, per poter mettere poi in scena la loro parodia della Redenzione, con un lettino e un quaderno degli appunti quali sostituti del confessionale e della Riconciliazione con Dio. Anche l’idea del Diavolo rientra in questa cornice, anzi, è perfettamente logica e funzionale rispetto alle premesse.

Dunque, prendiamo un caso piuttosto frequente, per non dire banale: quello di un bambino che abbia ricevuto una serie di proibizioni e di severi ammonimenti da parte dei suoi genitori. Sfogliando un romanzo contemporaneo, scelto a caso tra infiniti altri simili, «Il tempo di Blanca» della scrittrice cilena Marcela Serrano» (titolo originale: «Para que no me olvides», traduzione dallo spagnolo di Simona Geroldi, Milano, Feltrinelli, 1998, pp. 146-7), ecco cosa troviamo:

«Tutte le volte che facevamo il bagno nella piscina di casa o quando andavamo in gita al fiume e dovevamo sfoggiare i nostri costumi da bagno davanti agli immancabili amici dei miei fratelli, mia madre ci gridava sempre – convinta che nessun altro al mondo all’infuori di noi sapesse il francese – "Attention avec ta figure!" Ci alzavamo di scatto, ci coprivamo terrorizzate all’idea di aver mostrato troppo o di aver fatto qualcosa che non andava. E andò avanti così per anni, a ogni festa o ritrovo con persone dell’altro sesso, il che mi ha provocato il timore perenne di oltrepassare i limiti. Altrimenti, che ragione aveva mia madre di mettermi in guardia? […]

Nessuno mi spiegò nulla, fino a quando non andai a confessarmi da quel maledetto prete. Non avevo più di tredici anni ed ero entrata con la mamma in una chiesa di un’altra parrocchia. Andai a confessarmi, come sempre. E cominciai con la mia lista, che ripetevo a memoria: ho disubbidito, ho detto le bugie, mi sono comportata male, ho risposto male al papà, ho picchiato mio fratello, mi sono dimenticata le preghiere… Ma il prete mi interruppe: hai fatto pensieri impuri? Cosa vuol dire, padre? — gli chiesi attraverso la grata di legno del confessionale. Ti è venuta voglia di farti toccare da un ragazzo? Ti sono venute in mente cose sporche leggendo qualche rivista o magari mentre ti toccavi? No, padre. Allora è bene che ti prepari a combatterli, figlia mia, i pensieri impuri arriveranno presto. Uscii di là sgomenta. Ero così ingenua. E fu lui, chiaro, a suggerirmi l’idea. Quella notte feci il mio primo "pensiero impuro". Eravamo tutti così innocenti da sembrare quasi stupidi. Per questo odiai quel prete che mi aveva fatto intravedere possibilità fino ad allora insospettate.»

E avanti così. Ormai è diventata una moda: quella di dipingere la cultura cattolica come la sola responsabile della "sporcizia" morale e della perdita dell’innocenza originaria e di riversare su di essa la responsabilità di tutte le nevrosi, di tutti i fallimenti, di tutte le sconfitte della propria vita da adulti. Senza voler affatto negare che certi genitori e certi preti abbiamo gravemente sbagliato nel parlare ai bambini e ai ragazzi di simili argomenti, evocando fantasie morbose e agitando i fantasmi della colpa, ci sembra assai semplicistico riversare su di essi ogni responsabilità, come se il bambino, di per sé, fosse un angelo d’innocenza e come se, lasciato libero di seguire i propri istinti, potesse diventare un adulto perfettamente sano e in pace con se stesso e col mondo: questa non è una antropologia realistica, è piuttosto il dolciastro mito del "buon selvaggio". La società è cattiva, l’individuo è buono: sottraiamo l’individuo al malefico influsso della società, e avremo una società futura di esseri virtuosi e felici. Certo, la psicanalisi non arriva a tanto; Freud per primo, anzi, delineava un fosco orizzonte, dominato da due mostri spaventosi: la repressione del Super-io patologico e il dilagare sfrenato e distruttivo delle pulsioni primordiali, che avrebbe spazzato via la civiltà e reso impossibile la vita sociale. E da quel tragico vicolo-cieco, da quella drammatica contraddizione, non è mai stato capace di uscire. Gli individui possono scegliere fra la nevrosi e la dissolutezza: ma non ritroveranno mai più il Giardino dell’Eden. A questo punto, il Diavolo ci vuole; altrimenti, come spiegare l’impossibilità di redimersi, senza gli esorcismi dello psicanalista?

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Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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