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L’uomo, per Nicolai Hartmann, è posto fra due mondi: quello delle cose e quello dei valori

Nicolai Hartmann (Riga, 1882-Gottinga, 1950) si è posto il problema di come superare, nell’atto conoscitivo, e, poi, nell’azione etica, il dualismo fra persona e mondo, fra la cosa in me e la cosa in sé. Il filosofo esistenzialista Enzo Paci ha così riassunto questo aspetto del suo pensiero, rispetto al quale, senza dubbio, pur nelle evidenti differenze, doveva cogliere elementi comuni con il proprio, o almeno consonanti con esso, e verso il quale, dunque, era portato a volgersi con istintiva simpatia (da: E. Paci, «La filosofia contemporanea», Milano, Garzanti, 1957, pp. 199-203):

«Nella conoscenza, già nei "Principi", il soggetto è in una situazione problematica, metafisica. Per conoscere deve usciere da se stesso, trascendersi. Come giustamente ha osservato il Gurvitch ("Le tendenze attuali della filosofia tedesca", 1930), il soggetto non può essere coscienza di ciò che coglie "senza ritornare su se stesso". Questo ritorno fa sì che il soggetto, nel momento stesso nel quale si trascende e acquista coscienza, riconosca come oggetti i fatti che lo hanno precedentemente condizionato. "L’aver coscienza — scrive spesso Hartmann — è condizionato dall’inconscio": l’inconscio mi condiziona anche se non ne ho coscienza. Acquistando coscienza io mi apro oltre me stesso ma nello stesso tempo ho coscienza del passato: mi apro al futuro ma nello stesso tempo posso illuminare, almeno in parte, il passato che mi condiziona: ne posso fare la storia. Tutto ciò conduce Hartmann a porre un processo temporale alla base del conoscere ed alla base del rapporto tra metafisica ed ontologia. Questo rapporto, in sede conoscitiva riconosce il condizionamento, il reale come tale, ma lo riconosce soltanto trascendendosi come visione. L’ontologia viene necessariamente dopo la metafisica anche se nel processo che va dall’una all’altra io divento cosciente della metafisica come un insieme di dati, di realtà, concretamente determinate. La dimensione metafisica mi appare non soltanto ontologica ma reale al di là del logos dell’essere (al di là e "prima dell’ontologico"), per cui si può dire che la struttura metafisica è ontica. In questa struttura si pongono gli "strati dell’essere" che possono essere studiati secondo le varie categorie che li costituiscono. Qui le categorie sono visioni che si sono riempite, nel processo, di realtà esistenziale, e ciò anche se la realtà esistenziale non è mai esaurita dalle categorie, perché è metafisica e pone sempre nuovi problemi, richiede nuove visioni e nuove categorie.

Poiché la relazione tra metafisica ed ontologia è processuale e si attua, quindi, nel tempo, la relazione fra strato e strato è tale che anche se non è riconosciuta non può essere reversibile: lo strato inferiore conduce a quello superiore ma non viceversa. Lo strato inferiore condiziona quello superiore, e quello superiore, in relativa autonomia, emerge dall’inferiore. Lo strato superiore ritorna all’inferiore, nel senso che ne acquista coscienza, ma esso ha un orizzonte categoriale nuovo, o emergente, rispetto a quello inferiore. "Questo è ciò che viene espresso — scrive Hartmann, nella "Costruzione del mondo reale" (1940) -, nella duplice legalità del ritorno e del novum. Nell’importante capitolo 52 della stessa opera Hartmann chiarisce "il senso ontologico dell’irreversibilità" che è costituito dal fatto che, anche se la coscienza è ritorno al passato di cui si acquista coscienza, la direzione dallo strato inferiore verso quello superiore nel processo temporale è irreversibile. questa irreversibilità determina il reale come tale, lo riconosce come necessario presupposto e come condizionamento. La stessa persona umana, pur libera nelle sue iniziative per il futuro, è inevitabilmente condizionata. Come scrive Remo Cantoni in "Mito e storia" (1953, ma il saggio su Hartmann è del 1943), "la descrizione che Hartmann ci dà della persona è quella di un essere in lotta con una realtà obbiettiva, dura, fatale, irrevocabile". E nota giustamente il Cantoni che per Hartmann l’uomo "non può retrocedere perché non può rendere incompiuto ciò che si è realmente attuato".

Anche quando, nell’"Etica", le essenze si pongono come valori materiali, (nel senso di Scheler e l’"Etica" di Hartmann dipende da Scheler), la stessa libertà di visione dei valori, dovuti all’intenzionalità emozionale che li pone come trascendenti, non annulla l’irreversibilità del processo temporale o reale. "Gli atti emozionali trascendenti", scrive sempre il Cantoni, "rivelano, con maggiore pregnanza e immediatezza, il peso e la durezza della realtà, la sua irrevocabile esistenza". l’irrevocabilità, o l’irreversibilità temporale dell’esistenza, deve essere considerata la scoperta filosofica fondamentale di Hartmann. "L’uomo — si legge nell’"Etica" — vive situazioni, subisce il proprio destino, deve sopportarlo. Questo sperimentare, vivere, subire, sopportare, costituisce veramente la sua forma d’essere dentro la corrente degli eventi. Ma egli esperimenta gli eventi in modo diverso dal conoscere: li esperimenta nella loro irrevocabilità." La realtà irrevocabile, nota ancora il Cantoni, commentando il passo dell’"Etica" che abbiamo ripreso, fa sì che per l’uomo il lavoro sia necessario: "a questo modo Hartmann pone al giusto posto nella vita spirituale il lavoro, la tecnica, l’industria e l’operosità umana, e pone le fondamenta di una concezione sociale dello spirito: il rispetto per l’esistenza, la realtà, la struttura immutabile del mondo, non annullano l’ammirazione per l’operato libero ed audace, per l’iniziativa dell’uomo capace di trasformare secondo i propri fini il mondo. L’uomo è l’essere collocato tra due mondi: il mondo delle cose, della realtà, e il mondo delle idee, dei fini, dei valori".»

Ecco: il mondo, per Hartmann, è un dato oggettivo, massiccio, quasi incombente, secondo la prospettiva di una ontologia robustamente realistica e anti-idealista; l’uomo, di fronte ad esso, rappresenta la dimensione della libertà e della spiritualità, secondo la lezione del personalismo e dell’etica dei valori di Max Scheler (cfr. i nostri precedente articoli: «Non si dà, per l’etica di Max Scheler, amore del bene, ma solo amore della persona» e «L’oggettualità del mondo e il ruolo della persona nel "realismo critico" di Nicolai Hartmann», pubblicati sul sito di Arianna Editrice, rispettivamente in data in data 05/06/2008 e 06/06/2008).

Per Hartmann, noi non produciamo il mondo attraverso la conoscenza: ci limitiamo a scoprirlo, a conoscerlo, appunto. Il mondo non è opera nostra, le cose non sono create da noi: sono fuori di noi, indipendentemente da noi: sono dati oggettivi, irrefutabili, coi quali bisogna fare i conti: noi non possiamo farle apparire o scomparire con un colpo di bacchetta magica. D’altra parte, non è chi non veda come questa impostazione rigidamente realistica finisca per condurre ad un dualismo inconciliabile, quasi ad una schizofrenia: se davvero il mondo e la persona sono due realtà completamente distinte e separate, come è possibile il processo della conoscenza? Come fa l’uomo a conoscere qualcosa che non ha niente a che fare con lui, qualcosa che è altro da lui e che gli si pone di fronte esclusivamente come un oggetto?

La difficoltà appare ancora più grande se si riflette che l’uomo, per Hartmann, non appartiene interamente né all’uno, né al’altro piano del reale: egli è, per usare la sua espressione, a cavallo di entrambi. In lui vi è l’essere, l’essere oggettivo, determinato dal suo esserci, dal suo trovarsi posto in situazione, anteriormente a qualsiasi scelta o decisione che egli possa aver preso; ma vi è anche il divenire, la libertà, la scelta: insomma, il mondo dei valori. In quanto persona, l’uomo è una essenza spirituale, ma una essenza spirituale incarnata, determinata, fissata ad una certa situazione storica, ambientale e perfino ereditaria: una parte di lui sfugge alla autodeterminazione, poiché egli la trova già data, la riceve, la subisce.

L’uomo, pertanto, è un essere anfibio; è un essere che si trova in equilibrio, più o meno precario, fra due piani di realtà diversi e separati. Pertanto, lo squilibrio, la divaricazione, al limite la schizofrenia, del conoscere, sono anche squilibrio, divaricazione, schizofrenia dell’essere. L’uomo è quell’essere che è diviso in se stesso. Ma se è un essere diviso, e precariamente diviso, come potrà auto-determinarsi mediante l’assunzione di valori e di atti morali? Si noti che, per Scheler — da cui deriva l’etica di Hartmann — l’uomo non fa il bene per amore del bene, ma per amore della persona: cioè, per amare, ha bisogno di essere posto in situazione, di fronte all’oggetto concreto del suo amore. Non sa amare in assoluto, non sa amare l’amore; sa amare solo ciò che egli, individualmente, è e conosce: la persona umana. Ma come è possibile che possa davvero amare l’altro, colui che è diviso in se stesso, contraddittorio in se stesso, impossibilitato ad abbracciare e comprendere, sino in fiondo, se stesso?

E non basta. L’uomo, per Hartmann, vive esclusivamente in situazione: di conseguenza, la sua vita diventa un destino, un destino che egli è costretto a subire. Egli, allora, è tanto meno libero, quanto più si vede immerso in situazione, quanto più è storicamente determinato. Somiglia ad Atlante, che deve portare il mondo sulle proprie spalle; anzi, somiglia al Cireneo, che deve prendere su di sé una croce altrui, un destino che gli è imposto dall’esterno. Come potrà determinarsi in quanto soggetto morale, se il destino che si trova a vivere non è deciso da lui, ma è ricevuto, addirittura subito? Se l’uomo è un essere passivo, esposto e gettato nel mondo, come potrà raccogliersi in se stesso e trovare in sé le risorse per esercitare delle scelte realmente libere, e, quindi, realmente etiche?

Di più. L’uomo, per Hartmann, non conosce le cose dall’esterno, ma sempre e solo in situazione: cioè le conosce vivendole, ricevendole, assumendole. Forse vorrebbe farne a meno, vorrebbe scrollarsele di dosso, vorrebbe liberarsene; ma non può, ciò non dipende da lui, egli può solamente riceverle. Questo ricorda Giobbe, l’uomo dei dolori: subisce, patisce, sopporta. Vi è del coraggio, persino dell’eroismo nel suo sopportare; vi sono la forza, la tenacia, una volontà ammirevole: ma vi è anche un senso di fatalità, di rassegnazione, di oppressione. L’uomo di Hartmann sembra un mulo che deve girare la macina del mulino: non è libero di niente, se non di reggersi sulle zampe, con fatica, e seguire le stanghe cui è legato, oggi, domani e sempre, in una serie di cerchi che ritornano ognora al punto di partenza. Suscita la nostra simpatia, ma fa soprattutto pena: è una vittima, paziente ed eroica, ma comunque una vittima.

Davanti a lui, la realtà del mondo oggettuale: una realtà netta, potente, irrevocabile. Il tempo è irrevocabile, il passato è irrevocabile, il destino è irrevocabile. Vi è ancora spazio per la libertà, in questa prospettiva? Se la vita etica discende dalla possibilità di scegliere fra il bene e il male, e se il mondo ci è dato così com’è, prendere o lasciare, senza sfumature, senza mediazioni: che senso ha parlare di scelte e di valori? E se perfino nella conoscenza noi non agiamo, ma subiamo; se perfino nel conoscere noi non siamo parte attiva, ma passiva, come potremo conoscere qualcosa che ci dischiuda le porte dell’assoluto, la dimensione dell’essere, e come potremo vedere il cielo dei valori, di quei valori ai quali vorremmo ispirare le nostre scelte? I valori non discendono forse dall’assoluto, cioè dall’essere? Il bene non è forse bene in se stesso, e il male non è forse male in se stesso? Oppure sono relativi, e dipendono anch’essi dalle situazioni? Ma le situazioni sono mutevoli: dovremo, allora, modificare continuamente anche la nostra scala di valori?

Pare, secondo Hartmann, che l’essere si inscriva nel fluire delle cose; o, almeno, che vi si ponga l’essere dell’uomo, l’essere della persona. Di qui l’esaltazione del lavoro, visto come la risposta dell’uomo alla sfida del mondo: l’uomo reagisce alla datità del mondo e al rischio di subire passivamente la vita, prendendo l’iniziativa di modificare il reale, di intervenire su di esso con la sua intelligenza, con la sua progettualità. Benissimo. Ma è una cosa possibile, questa, dopo aver posto il mondo come un dato irrevocabile, che l’uomo è costretto a subire? Allora: lo subisce, o non lo subisce? Se lo subisce, come mai può lavorare, ossia agire liberamente per trasformare e modificare le situazioni date? Se non lo subisce, se invece lo trasforma, e, trasformandolo, lo ri-crea, non viene negato l’assunto di partenza, ossia che l’uomo non crea il mondo, ma se lo trova innanzi bello e fatto, e può solamente accettarlo (o rifiutarlo)?

Hartmann vede il pericolo e vi risponde affermando che l’uomo non conosce il mondo così come appare, ma così come è: non il fenomeno, ma il noumeno; e che vi giunge non per mezzo della conoscenza ordinaria, né per mezzo dell’intuizione (come per Scheler), ma sfogliando, per così dire, gli strati dell’essere, uno dopo l’altro, dall’inferiore al superiore: passando dalla cosa in me alla cosa in sé, da ciò che appare a ciò che è. Mediante la conoscenza, il soggetto trascende se stesso e giunge ad afferrare il fenomeno; mediante l’inferenza, da questo passa al noumeno, in un movimento ascendente. Nella coscienza, dunque, si trova qualcosa che la trascende: l’essere della metafisica…

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Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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