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Ricordo di Giulio Quaglio, pittore barocco che ha lasciato tante opere a Udine e in Friuli

Il cittadino udinese che ami – e quindi conosca – la propria città, possiede una certa familiarità con le opere di un pittore seicentesco che, pur non essendo friulano, ha vissuto per molti anni in Friuli e ha lasciato in quella terra, sia nel capoluogo, sia in alcuni centri minori, una quantità notevole di opere di non piccolo interesse: Giulio Quaglio, comasco della Val d’Intelvi (Laino, 1668- Laino, 1751), ove tornò a morire dopo una prestigiosa carriera itinerante. Questa era iniziata a Como, sotto la guida di G. B. Recchi, e proseguita a Bologna, nella bottega di un notevole pittore barocco, Marcantonio Franceschini (1748-1729), allievo, a sua volta, dell’ancora più autorevole Carlo Cignani; città ove ebbe la sua definitiva formazione artistica, per poi spostarsi fra Parma, Piacenza e Venezia e giungere, da ultimo, in Friuli, a Udine, ove portò a maturazione, con indiscusso successo di pubblico, il suo ricco bagaglio di esperienze e di tecniche accumulate, sintesi della tradizione pittorica emiliana e di quella veneziana. I committenti udinesi erano già maturi per questa parziale svolta: solo pochi anni dopo, infatti, avrebbero accolto con fervido entusiasmo due artisti di notevolissimo livello e di respiro decisamente europeo, come il francese, ma veronese d’adozione, Luis o Ludovico Dorigny (Parigi, 1654-Verina, 1742) e il grande Giovanni Battista o Giambattista Tiepolo (Venezia, 1696- Madrid, 1770), padre di due pittori di buon livello, anche se privi della genialità del genitore, Giandomenico e Lorenzo.

Udine, del resto, è considerata dai suoi abitanti quasi la patria di Giambattista Tiepolo, per la ricchezza e lo splendore delle opere — sia tele che affreschi — lasciate nel capoluogo friulano dal celeberrimo pittore veneziano (cfr. i nostri articoli: «Un quadro al giorno: la "Resurrezione" di G. B. Tiepolo nel Duomo di Udine (1754 ca.)», pubblicato su «Il Corriere delle Regioni», e «Il duomo romanico-gotico di Udine ha un cuore in puro stile settecentesco», entrambi pubblicati sul sito di Arianna Editrice e poi su «Il Corriere delle regioni» in data 17/08/2015; mentre un pittore bergamasco come Andrea Previtali, anche lui — come il Quaglio — montanaro, questi della Valle Imagna, ha lasciato a Vittorio Veneto, nella Chiesa del Meschio, un capolavoro rinascimentale come l’«Annunciazione» che, per eleganza di tratto, soavità e freschezza d’ispirazione e per magnificenza cromatica, merita di essere annoverata fra le cose più belle di tutta l’arte "minore" (se proprio così vogliamo dire) dell’area veneto-friulana (cfr. il nostro precedente articolo: «Un quadro al giorno: "Annunciazione" di Andrea Previtali (1505 circa)», pubblicato sul sito di Arianna Editrice in data 05/01/2009). Pittori che hanno legato il loro ricordo a città di adozione, o a città nelle quali hanno soggiornato, più o meno a lungo, lasciandovi, però, il meglio della loro produzione artistica; alcuni dei quali sono, e giustamente, quasi più conosciuti fuori della loro regione d’origine e lontano dai loro borghi natali, tale è la forza espressiva che hanno saputo manifestare nei luoghi ove la ricerca d’una committenza adeguata, e, in qualche caso, la loro stessa irrequietezza e il bisogno di mutare cielo e atmosfera con una certa frequenza, li hanno condotti nel corso della vita.

A Udine, Giulio Quaglio — figlio d’arte e membro di una famiglia che ha dato all’arte italiana numerosi pittori, incisori e scenografi -, tanto che è opportuno chiamarlo Giulio Quaglio il Giovane, per distinguerlo dal padre, che portava anche lo stesso nome di battesimo — è rimasto dal 1692 al 1700 ed ha lavorato in chiese e palazzi: ricordiamo gli affreschi del Palazzo Strassoldo del 1692; del Palazzo della Porta, sede della Curia arcivescovile, e relativa cappella privata, nel 1692-3; della Cappella del Monte di Pietà, nel 1694; del Palazzo Piccoli (oggi Attimis-Maniago) nel 1696; del Palazzo Antonini-Belgrado nel 1697; e, infine, della Chiesa di Santa Chiara, nel 1699 (oggi sconsacrata: uno degli edifici religiosi più antichi della città, costruita tra la fine del Duecento e i primissimi anni del Trecento).

Un ultimo ciclo di opere il Quaglio le ha realizzate a Udine molti anni più tardi, nel 1724, allorché fece ritorno nel capoluogo friulano per restaurare i suoi stessi affreschi nella Cappella del Monte di Pietà, e, in quella occasione, partecipò alla decorazione della Chiesa di San Leonardo (nella odierna Via Gorghi, attualmente sede della Fondazione Morpurgo Hoffman). Una recente scoperta è stata l’attribuzione al Quaglio di un frammento di affresco, nel corso di lavori di restauro effettuati nella chiesa del convento dei Cappuccini di San Francesco della Vigna (nella odierna Via Cussignacco); del resto sappiamo che egli dipinse altre opere all’interno di chiese ed edifici privati, andati perduti nel corso del tempo, come l’oratorio dei Filippini nella Chiesa di Santa Maria Maddalena, la casa di Girolamo Caratti e la chiesa del Monastero di San Domenico. I cicli più importanti sono quelli di Palazzo Antonini, della Cappella del Monte di Pietà e quelli della Chiesa di Santa Chiara, quest’ultima fatta costruire sotto il patriarcato aquileiese di Raimondo Della Torre (1273-1299) per iniziativa di un ricco cittadino udinese, Uccelluto de’ Uccellis.

Altre opere si trovano a Cividale del Friuli, nella sacrestia della Chiesa di San Francesco; a Torreano di Martignacco, nella Cappella della Villa di Prampero; a Venzone, nel Duomo cittadino; a Gradisca d’Isonzo, nella Chiesetta di San Giovanni Battista; oltre che a Trieste, nella Cattedrale di San Giusto (quelli nel Duomo di Gorizia sono andati perduti a causa delle vicende belliche della Prima guerra mondiale).

Dobbiamo poi segnalare una pala di una certa importanza che attualmente si trova a Nova Gorica (la metà slovena della città di Gorizia): «Madonna in trono con Gesù Bambino, fra i santi Francesco Saverio, Caterina d’Alessandria, Antonio da Padova e Francesco d’Assisi», che si segnala per le tonalità lucenti e per gli ardirti svolazzi, tipicamente barocchi o piuttosto rococò, delle vesti coloratissime, quasi un pezzo di bravura a sé stante.

Dopo aver lasciato Udine ed essere tornato a Bergamo per un breve periodo, nel 1702 Giulio Quaglio si portò a Lubiana — allora Laibach, nella Carniola asburgica; oggi la capitale della Repubblica Slovena – e qui, con l’aiuto del suo allievo Carlo Innocenzo Carloni (o Carlone), egli pure nativo della inesauribile Valle Intelvi (1687-1775), realizzò quello che è considerato il vertice della sua carriera artistica: l’insieme degli affreschi della cattedrale di San Nicola – appena costruita dall’architetto gesuita Andrea Pozzo da Trento (1642-1709), in Piazza Cirillo e Metodio, sulle rovine di una chiesa gotica preesistente, ma distrutta dal fuoco – ai quali egli lavorò in due fasi cronologicamente distinte: la prima dal 1703 al 1706 e la seconda dal 1721 al 1723, in uno splendido stile barocco (ma bellissimi sono anche i risultati delle opere ad olio, come nella pala dedicata al «Martirio di Santa Barbara», dipinta durante il secondo soggiorno nel capoluogo della Carniola, dove spiccano gli svelti movimenti di ascendenza quasi tintorettiana e brillano i colori insoliti, come il rosso sanguigno della veste del carnefice che si accinge a decapitare la santa, rapita in una dolcissima contemplazione estatica.

Un rapido ma efficace profilo di Giulio Quaglio è stato tracciato da Giuseppe Bergamini, direttore dei Civici Musei di Udine (G. Bergamini, «L’attività di Giulio Quaglio, in Friuli, Slovenia ed Austria», in: AA: VV., «La Valle Intelvi», quaderno n. 9, 2003, p. 161-2):

«Giulio Quaglio (1668-1751) è uno dei più interessanti pittori operanti tra Sei e Settecento: nativo di Laino Intelvi, piccolo paese situato tra il lago di Como e quello di Lugano, è stato — così come molti suoi conterranei, architetti, stuccatori e pittori che fossero — un artista itinerante, vagante, operoso non soltanto nella sua terra ma anche in diverse regioni della Mitteleuropa, dal Friuli alla Slovenia, dalla Stiria al Salisburghese.[…] La sua prima attività si svolse in Friuli, ad Udine particolarmente, dove il pittore — chiamato da un capomastro suo conterraneo, Giovanni Battista Novo di cui nel 1694 sposò la figlia — risiedette dal 1692 al 1701, affrescando con soggetti sacri o mitologici chiese, e palazzi ed eseguendo pure alcune pale d’altare. Negli affreschi dei palazzi Della Porta e Strassoldo, suoi primi lavori entrambi datati e firmati 1692, già offre dimostrazione della poetica che informerà – senza notevoli cambiamenti — tutta la sua pittura: forme robuste e magniloquenti, figure gigantesche fortemente chiaroscurate, horror vacui e scarso amore per il paesaggio, impianto scenico accentuato dalla decorazione dipinta a monocromo o eseguita in rilievo a stucco da collaboratori (in primis da Lorenzo Retti e Giovanni Battista Bareglio, essi pure della Val d’Intelvi). Spettacolare soprattutto la soluzione adottata in palazzo Strassoldo (e poi replicata nei palazzi Daneluzzi e Antonini: l’enfasi barocca, sublimata da una violenza di forme e di sentimenti che mescola insieme esteriore teatralità emiliana e contenuta forza veneziana, rappresenta una clamorosa novità nella provincia friulana, usa ad un’arte tranquilla, dalle forme attardate e dimesse, e procura al Quaglio numerose e notevoli commissioni di lavoro. Tra queste, la pittura della cappella del Monte di Pietà, uno splendido edificio costruito nel 1660 circa su progetto dell’architetto Bartolomeo Rava di Ramponio. Entro un minuto ed accattivante apparato decorativo a stucco il pittore dipinge nel soffitto la quieta, serena e lirica serie di fatti della "Vita della Vergine" nei quali dispiega un canto gioioso che ha la sua nota più alta nella luminosità dei colori schiariti; nelle pareti, sei episodi della "Passione di Gesù Cristo" rappresentazione carica di drammatiche sequenze, di un pathos talora contenuto, talaltra estrinsecato con violenza di immagini. Dell’opera del pittore lainese si servirono anche i Francescani di Cividale del Friuli, affidandogli la dipintura della sagrestia della loro chiesa nel 1693, il pievano di Venzone che gli commissionò due pale d’altare, le monache del convento di Santa Chiara per la cui chiesa affrescò la brande volta nel 1699. Il maggior ciclo di affreschi, in Udine, è quello del 1698 che copre il soffitto dello scalone e l’intera sala centrale del palazzo Antonini, ora sede dell’Amministrazione Provinciale. Il dettato iconografico, ad un tempo allegorico ("La Verità mette in fuga le tenebre del Paganesimo") e mitologico (con episodi tratti dalla storia e dalla mitologia greca) è suggerito per la quasi totalità deal committente: ad esso il pittore farà riferimento nei più tardi affreschi del Meerscheinschlöss del 1708 e del palazzo Martinengo palatini di Brescia del 1714-15. La fama del Quaglio valica i confini della Repubblica Veneta, alla quale Udine apparteneva, e giunge a Gorizia, allora soggetta alla casa d’Austria dove viene chiamato nel 1702 per decorare la volta della navata, l’arco trionfale ed il soffitto del matroneo del duomo: lavori purtroppo completamente distrutti dai bombardamenti della prima guerra mondiale e pertanto giudicabili solo attraverso le riprese fotografiche allora eseguite. Si tratta di un’opera di decisiva importanza per la comprensione dell’attività successiva, in quanto il grande affresco del piatto soffitto mostra un cambiamento radicale nell’iter pittorico del Quaglio: alla consueta ripartizione dello spazio in piccoli campi da riempire con episodi pittorici di breve respiro e comunque conclusi in se stessi, dai colori e dai ritmi calibrati con l’ornamentazione a stucco, gradevole e piacevole per il suggestivo gioco di luci e di ombre, ma anche invadente e prepotente al punto di annullare nella visione d’insieme il dato pittorico, si sostituisce qui un’amia scena unica chiamata a coprire l’intera superficie del soffitto, in un edificio che i lavori di rifacimento appena conclusi avevano sovraccaricato di orpelli. Il pittore si ispira al barocco romano di Pietro da Cortona o di Andrea Pozzo, agli spettacolari soffitti di palazzo Barberini o della chiesa di S. Ignazio.»

È bello, dicevamo, per chi ama e conosce la propria città, passeggiare lungo le vie di Udine, entrare in alcune chiese ed antichi, eleganti palazzi e sostare in ammirata contemplazione delle opere di Giulio Quaglio, pittore comasco per il quale il capoluogo friulano era divenuto praticamente una seconda patria, e nel quale lasciò tanti segni della sua bravura.

Quelle opere ci parlano di una civiltà artistica ormai avviata al tramonto – così com’era avviata al tramonto la gloriosa Repubblica di San Marco — e, tuttavia, ancor capace di vivere ed esprimere momenti di pura, altissima ispirazione; e di una società che non badava a spese, pur di chiamare ed avere al lavoro, nei suoi edifici più importanti, i migliori artisti che vi fossero in circolazione, pur in una nazione — come l’Italia — dove l’arte era ovunque di casa, onorata e ammirata senza riserve anche dalla gente umile. A quegli artisti e committenti va il nostro pensiero riverente, insieme alla nostra profonda riconoscenza: spetta a loro se le nostre città sono così belle, nobili e ricche di storia.

Fonte dell'immagine in evidenza: Photo by Daian Gan from Pexels

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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