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Viva Giuseppe Bonaparte, anzi Gioacchino Murat, anzi Ferdinando IV di Borbone

«Che sia Franza o Spagna, purché se magna!»: sappiamo che fu questo il miserabile motto del popolino italico durante i lunghi secoli del suo servaggio; ciò appartiene alla storia e non fa scandalo per nessuno, nemmeno per i cultori della religione del Risorgimento, i quali, anzi, si compiacciono di sottolineare il contrasto fra l’abiezione politica e morale che precedette il "risveglio" della Patria addormentata nel suo sonno secolare, e l’epoca fervorosa e ardita che ridestò negli animi un nuovo sentire nazionale e li spinse a rovesciare la loro sudditanza.

Quello che non è stato, forse, adeguatamente evidenziato, è che la filosofia dell’ignavia e dell’indifferenza, spinta fino ai limiti estremi dell’opportunismo, del servilismo e del cinismo, non fu affatto appannaggio del «volgo disperso che nome non ha» di manzoniana memoria, ma, al contrario, fu la divisa impeccabile, prima di ogni altro, del ceto intellettuale italiano: un ceto che, fin dai secoli passati, si è sempre segnalato — e continua a farlo – per la piaggeria verso i padroni di turno, per la totale assenza di scrupoli, o di dignità, o di senso dell’onore, mosso, com’è, dalla preoccupazione esclusiva di conservare e, se possibile, di accrescere le proprie prebende, i propri privilegi, le proprie raccomandazioni.

Il doppiogiochismo, la furbizia miseranda e la feroce volontà di trovarsi, comunque vada, dalla parte del più forte, ossia del probabile vincitore: tutti questi elementi sono stati suggellati e, per così dire, coagulati nella giornata infame dell’8 settembre 1943: una giornata che resterà incisa a perpetua vergogna del popolo italiano, ma soprattutto delle sue classi dirigenti, il cui senso di lealtà e di fedeltà non solo verso l’alleato, ma anche verso le proprie istituzioni, sono apparsi inversamente proporzionali al grado, alla carriera e agli emolumenti: sicché l’onta è stata massima proprio là dove massimi erano stati gli onori e i vantaggi, mentre qualche sprazzo di dignità e perfino di eroismo c’è stato, semmai, ai livelli più bassi della scala sociale.

Per esempio: mentre gli alti papaveri del Regio Esercito, che per vent’anni avevano fatto carriera e fortuna sotto il Fascismo, dopo il 25 luglio del 1943 divennero, improvvisamente, tutti antifascisti, e dopo l’8 settembre, altrettanto subitaneamente, tutti antitedeschi e filoamericani, vi furono migliaia di umili e anonimi soldati che non si comportarono così e che, per un naturale sentimenti di lealtà e di fierezza, non si adeguarono a salire sul carro del vincitore. Fra questi ultimi, ci piace ricordare quei 5.000 prigionieri italiani che, trovandosi negli Stati Uniti alla data dell’8 settembre, e sollecitati a "collaborare" con gli Alleati contro la Germania, rifiutarono di prestare un tale giuramento e vennero, perciò, spediti nel campo di prigionia "correzionale" di Hereford, nel Texas, ove subirono un trattamento particolarmente severo (tra essi vi era anche il futuro scrittore Giuseppe Berto, che in quel campo scrisse il suo primo romanzo, Il cielo è rosso).

E non erano quei soldati – si badi – dei fascisti; o, quanto meno, non lo erano tutti: erano, in gran parte, veterani della campagna d’Africa, presi prigionieri dopo la disfatta di El Alamein o al termine della gloriosa ma sfortunata campagna di Tunisia. Questo è il punto che ci preme sottolineare: essi non rifiutarono le lusinghe del nemico (che nel frattempo, per il governo Badoglio, era diventato amico: anche se le sue forze aeree continuavano a bombardare le città della nostra patria con metodi terroristici, e seguitarono a farlo sono all’ultimo, nell’aprile del 1945) per ragioni politiche o ideologiche, ma per ragioni morali. Che valore poteva avere una promessa estorta a dei laceri e affamati prigionieri, privi della vera libertà di scelta, di schierarsi contro i loro vecchi camerati e compagni d’armi e al fianco di coloro che erano stati, fino al giorno prima, i nemici e gli invasori della Patria? Perché, in Nord Africa, i nostri soldati avevano imparato a stimare e apprezzare i soldati tedeschi; e la stima era stata reciproca: lo stesso Rommel ebbe a dichiarare che il soldato italiano possiede delle ottime qualità, che, tuttavia, non è messo in condizioni di esplicare a causa della arretratezza e dalla complessiva inadeguatezza della macchina militare di cui fa parte. Il leggendario comandante dell’Afrika Korps, sia detto per inciso, non aveva altrettanta stima nei confronti degli alti comandi italiani (ed era ancora generoso nel suo giudizio: lo storico Franco Bandini si è spinto ben oltre ed ha sostenuto che vi furono dei casi di vero e proprio tradimento ai massimi livelli, in concomitanza con le campagne offensive lanciate dallo stesso Rommel contro i Britannici in Cirenaica); e osservava, con un certo stupore, che, mentre i soldati e gli ufficiali tedeschi mangiavano lo stesso cibo alla stessa mensa, nell’Esercito italiano esistevano tre mense e tre qualità differenti di cibo: una per gli ufficiali, una per i sottufficiali e una, la più scadente, per la truppa; e che non pochi ufficiali italiani pretendevano di farsi servire il pasto caldo, il vino e il caffè dai loro attendenti-camerieri, anche nelle immediate retrovie del fronte, laddove alla truppa non arrivava neppure la quantità d’acqua indispensabile per bere e per lavarsi, nel clima torrido del deserto).

Gli intellettuali sono la più classica espressione della tendenza al doppiogiochismo e alla prostituzione volontaria, in senso morale e materiale, che sovente ha caratterizzato le classi dirigenti italiane e che, purtroppo, continua a caratterizzarle (da chi, da quali potentati finanziari e politici, sono stati voluti e insediati gli ultimi tre governi italiani, nessuno dei quali — alla faccia della democrazia — sancito dal voto popolare: Monti, Letta e Renzi?). Essi non sono, a rigor di termini, parte della classe dirigente; ne sono, tuttavia, l’indispensabile strumento per la conquista del consenso: perché, in un regime democratico (e non importa se di democrazia totalitaria, anzi, a maggior ragione) la cosa veramente essenziale non è governare un popolo secondo i suoi effettivi interessi, ma dare l’impressione di farlo: e, per riuscirvi, è necessario che vi sia una cinghia di trasmissione, data dalla stampa, dalla televisione, dall’editoria e da tutto ciò che forma la cosiddetta "opinione pubblica", fra il Palazzo e il popolo stesso; cinghia di trasmissione che è compito precipuo degli intellettuali assicurare e mantenere sempre bene oliata.

Questo spiega perché gli intellettuali, in Paesi come il nostro, siano così ben pagati, quando suonano la musica che piace al potere, e come mai si vedano così spianata e agevolata la carriera, anche se dotati di meriti professionali molto dubbi; e perché l’informazione e la cultura siano "bloccate" in un eterno circolo vizioso, col risultato che tutte le poltrone e tutti i palinsesti che contano sono occupati dai soliti vecchi, i quali continuano imperterriti a diffondere la vulgata politicamente corretta, mentre i giovani, o, comunque, coloro che hanno l’abitudine di tenere la schiena dritta, e di cercare onestamente la verità, non hanno alcuna possibilità di far carriera e di far sentire la loro voce. Solo così si spiega l’incredibile longevità di miti fasulli, come quelli resistenziali, che, in altre società, sono stati denunciati e sfatati da tempo, o, sui quali, quanto meno, è stato aperto un serio dibattito a livello nazionale, mentre, da noi, si è ancora prigionieri di un ricatto ideologico in base al quale le verità "rivelate", e stabilite una volta per tutte, non possono venire neanche scalfite dall’ombra di una critica. Esse, infatti, sono state erette a fondamento di un sistema di menzogne istituzionalizzate, sul quale si regge tutto l’edificio sociale e dal quale dipendono, appunto, i vantaggi di coloro che lo servono fedelmente: ammesso che si possa richiamare il concetto di fedeltà per dei pennivendoli senza spina dorsale, senza onore e senza un minimo di onestà intellettuale, sempre pronti a vendersi al migliore offerente, anche mutando opinione a seconda delle "virate" di chi li tiene nel suo libro paga.

Il vizio di vendersi al padrone di turno, che anche al presente caratterizza i nostri baldi intellettuali, parte, dunque, da lontano; e se ne potrebbero fare innumerevoli esempi, lungo tutto il corso della nostra storia: ma quello che meglio li riassume e li compendia è, probabilmente, il caso del compositore napoletano Giovanni Paisiello, vissuto a cavallo fra l’Antico Regime e la Rivoluzione del 1789 e superbo, quasi inarrivabile maestro e modello nell’arte dell’adattamento più festoso e volonteroso, del camaleontismo, del gattopardismo.

Scriveva Lenora De Carlo Cuccia nel suo gustoso articolo «Nessun uomo può servire due padroni. Oppure no? Giovanni Paisiello e la rivoluzione» (in: «Rassegna storica del Risorgimento», Roma, Istituto per la storia del Risorgimento, gennaio-marzo 2009, p. 23):

«Nella Biblioteca del Conservatorio di San Pietro a Majella a Napoli, c’è una copia manoscritta di una stesura musicale della preghiera "Salvum fac Domine servum tuum" di Giovanni Paisiello. La successiva parola di questa preghiera è un nome proprio, o, più, precisamente, tre nomi, due dei quali sono cancellati. Così, in sostanza, abbiamo una preghiera che chiede a Dio di benedire il suo servo Giuseppe, no Gioacchino, no Ferdinando. Questo sprazzo, particolarmente divertente, di trinomialità mette in luce le questioni esaminate nel presente studio.

Il compositore Giovanni Paisiello (1740-1816) è un personaggio molto interessante nell’Europa rivoluzionaria, perché lavorò con grande successo sotto entrambi i regimi, aristocratico e rivoluzionario. Anche una rapida occhiata alla lista dei suoi impieghi dimostra l’ampia varietà di padroni sotto i quali compose.»

Infatti: ogni volta egli compose la sua musica in onore dei regnanti di turno, che furono, nell’ordine: Caterina II (1776-1783), Ferdinando IV (1783-99), la Repubblica partenopea (1799); poi, dopo una breve sospensione dell’impiego, dal 1799 al 1801, venne reintegrato da Ferdinando con gli arretrati (1801), musicò per Napoleone, a Parigi (1802-04); indi fu di nuovo a Napoli, sotto Ferdinando IV (1804-06); e ancora compose per Giuseppe Bonaparte (1806-08), per Gioacchino Murat (1808-15) e, dopo la caduta e la fucilazione di questi, di nuovo per l’intramontabile Ferdinando IV di Borbone (1815-16), fino alla morte.

Prodigò il suo talento per tutti e per ciascuno, imparzialmente (nel senso tecnico, e implicitamente ironico, dell’espressione), senza farsi il minimo scrupolo o problema, mano a mano che un re o un regime si succedevano l’uno all’altro, avvicendandosi in una impressionante sarabanda: eterno tappo di sughero che sta sempre a galla nel mare in tempesta, che non affonda mai, né lo potrebbe, perché non è nella sua natura, essendo comunque assai più leggero dell’acqua.

Ma quel che abbiamo detto di Giovanni Paisiello, ahimè, lo potremmo dire per tanti, per troppi intellettuali italiani, di ieri, di oggi e di sempre: scrittori e giornalisti, professori universitari e artisti famosi, sedicenti filosofi e sedicenti psicologi. L’intellettuale, infatti, per sua stessa natura (che è quella del sughero: cioè di stare a galla, sempre e comunque, per quanto agitato possa essere il mare), e che non va confusa con quella dell’uomo di cultura — che è tutt’altra cosa, ma che oggi si direbbe una specie in via di estinzione, se non già del tutto estinta — non sa che cosa voglia dire andare realmente controcorrente; se lo fa, lo fa perché ha intuito che la nave sta affondando e si prepara a fare il salto della quaglia, così da avere le credenziali per la sua futura carriera all’ombra benevola (e munifica) del potere prossimo venturo.

E già che abbiamo menzionato, di sfuggita, Franco Bandini, ci piace riprendere un concetto fondamentale, da lui enunciato a proposito del dibattito storiografico sul cosiddetto "revisionismo". La revisione critica del passato è, per una società e per un popolo, l’occasione preziosa, irrinunciabile, per comprendere meglio se stessi e per affrontare i propri nodi irrisolti; nel caso della società e del popolo italiano, tale avrebbe dovuto essere il senso e lo scopo di un dibattito critico sulla Resistenza. Ma gli Italiani, imbrancati sotto la guida mercenaria dei loro intellettuali, non hanno voluto cogliere l’occasione: hanno preferito cercar di spezzare lo specchio nel quale si rifletteva il loro passato, nascondendolo a se stessi. Eppure, osservava Bandini, se un popolo giunge a quella tragedia suprema che è la guerra civile, ciò significa che le sue classi dirigenti devono avere accumulato degli errori veramente madornali. Ora, la negazione del problema — nella fattispecie, la negazione che una guerra civile vi sia stata, o, almeno, la negazione che, in essa, ciascuna delle due parti aveva delle ragioni e dei torti da far valere — è stata, ed è, funzionale alla rimozione totale delle responsabilità di quelle classi dirigenti.Mutatis mutandis, è storia di oggi: e ciascuno è libero di fare le sue considerazioni. La vicenda di Giovanni Paisiello è pur sempre all’ordine del giorno: questi signori sono perfino monotoni nella loro squallida, banale prevedibilità; non si smentiscono mai…

Fonte dell'immagine in evidenza: Wikipedia - Pubblico dominio

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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