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Quell’incrociatore smarrito nella foresta

Abbiamo già avuto occasione di parlare delle vicissitudini, eroiche e avventurose insieme, dell’incrociatore leggero Königsberg, della Marina Imperiale germanica, al comando del Capitano di vascello Max Looff, durante la Prima guerra mondiale, così come della sua fine, drammatica e ammirevole, dopo una disperata battaglia di artiglierie, nel delta di un fiume africano sconosciuto al pubblico europeo, il Rufigi, nell’Africa Orientale Tedesca (cfr. i nostri due precedenti articoli: «La crociera dell’incrociatore Königsberg e le azioni navali nel Rufigi» e «La cattura di una finta nave ospedale a Lindi è l’inizio della fine per l’incrociatore Königsberg», pubblicati sul sito di Arianna Editrice rispettivamente in data 22/09/2008 e 26/07/2010).

Quella del Königsberg è stata una vera e propria epopea, che ricorda più la trama di un romanzo d’avventura che una pagina di storia realmente accaduta, e anche di storia recente: come se l’epoca dei pirati della Tortuga e delle loro imprese, folli ed entusiasmanti, nel Mar dei Caraibi, si fosse trasferita, per un prodigio inspiegabile, al principio del XX secolo, con tutto il suo sapore di esotismo quasi salgariano e con tutta la sua carica di fascino e romanticismo dalle sfumature quasi donchisciottesche.

Quei marinai che combattono una guerra a suo modo cavalleresca, nel folto della vegetazione tropicale, per mesi e mesi, sostenendo bravamente un assedio che sembra non dover più finire, nello sfibrante clima caldo-umido dell’Africa tropicale; quel comandante che scruta i fondali, li fa scandagliare, e si sforza di portare la sua nave sempre più a monte, ma infine è costretto a fermarsi per non restare incagliato, mentre i due monitori nemici, Mersey e Severn, fatti venire appositamente dalla lontana Gran Bretagna, martellano implacabilmente, con i loro cannoni, la nave corsara inafferrabile, finalmente intrappolata e messa in condizioni di non poter più fuggire: tutto questo ricorda effettivamente più un romanzo di Emilio Salgari o di Luigi Motta che una pagina di quella guerra tecnologica e spietata, la prima guerra combattuta a livello totale — finanziario, industriale, commerciale, psicologico e morale — che fu la Grande Guerra.

In effetti, che cosa hanno a che fare gli attacchi mediante i gas asfissianti, con le audaci scorrerie di Max Looff nell’Oceano Indiano, e con il suo fulmineo attacco all’incrociatore britannico Pegasus, sorpreso nel porto dell’isola di Zanzibar? Cosa hanno a che fare i bombardamenti degli Zeppelin su Londra, o gli enormi proiettili della "Grande Bertha" che fioccano su Parigi, o la distruzione della cattedrale di Reims, gioiello dell’architettura gotica – per la quale espresse rincrescimento lo stesso Kaiser tedesco, Wilhelm II di Hohenzollern -, o la guerra sottomarina indiscriminata, che cola a picco anche le navi neutrali cariche d’inermi passeggeri, con l’ultima battaglia del Königsberg, scoperto nel suo estremo rifugio dagli Inglesi grazie ad una fortunata operazione di intelligence e imbottigliato in maniera tale da non poter più riconquistare il mare aperto?

Eppure, quando tutto fu terminato, e la bella nave, che aveva solcato fieramente le acque dell’Oceano Indiano, non era ridotta ormai che ad un rottame galleggiante, quegli uomini, quei valorosi marinai, non si arresero: smontarono i cannoni uno ad uno, li calarono a terra, e passarono, insieme ad essi, agli ordini del generale che, allora, stava lottando strenuamente per contrastare le numerose colonne alleate convergenti sul territorio dell’Africa Orientale Tedesca, il leggendario Paul von Lettow-Vorbeck, del quale ha parlato anche la scrittrice danese Karen Blixen, che lo conobbe personalmente a bordo della bave che riportava entrambi dall’Europa in Africa, poco prima che la tremenda conflagrazione mondiale prendesse corpo in seguito all’eccidio di Sarajevo, il 28 giugno del 1914 (cfr. il nostro saggio: «Le colonie tedesche in Africa nella I guerra mondiale», pubblicato parzialmente sul sito di Arianna Editrice in data 23/07/2007, e integralmente sul sito «It.Cultura.Storia.Militare», corredato da un’ampia bibliografia).

Uomini di quella tempra possono perdere una battaglia, ma, finché hanno un fucile e un briciolo di energia, non si danno mai per vinti; e così fu: continuarono a battersi fino a metà novembre del 1918 e fu necessario che giungesse loro, completamente inattesa e in ritardo, la notizia che la Germania era stata costretta a chiedere l’armistizio, in Europa, alle Potenze alleate, perché si decidessero, invitti, a deporre le armi anche loro.

Ha scritto Jens Finke nel suo volume monografico «Tanzania» (titolo originale: «The Rough Guide to Tanzania», Rough Guides Ltd, 2003; traduzione dall’inglese di Maria Cristina Giordano, Milano, Antonio Vallardi Editore, 2004, p. 189):

«Il delta del Rufiji è stato l’ultimo rifugio dell’incrociatore tedesco Königsberg durante la prima guerra mondiale, al termine di una caccia da parte della marina britannica che si protrasse per undici mesi, impegnò venti navi e dieci aeroplani e fece consumare 40.000 tonnellate di carbone. L’importanza del Königsberg risiede nel fatto che si trattava della sola nave da guerra tedesca presente nell’Oceano Indiano allo scoppio della guerra e, come tale, era un gradi di minacciare i rifornimenti britannici via mare provenienti dal Kenya, da Aden, da Zanzibar e dall’India. Il giorno successivo alla dichiarazione di guerra, il Königsberg, comandato dal capitano Max Looff, catturò un cargo britannico, il City of Winchester, al largo della costa dell’Oman, che venne affondato cinque giorni più tardi. Nonostante i tedeschi si fossero impossessati delle riserve di carbone del Winchester le scorte di carbone del Königsberg erano piuttosto scarse e, ai primi di settembre, Looff si vide costretto a cercare rifugio nel delta del Rufiji, in attesa che, in attesa dell’arrivo di nuove scorte da Dars es Salaam. La scelta di rifugiarsi nel delta si rivelò astuta: i britannici ritenevano che i canali del delta fossero impraticabili per le navi di grandi dimensioni, ma non sapevano che i tedeschi erano riusciti a tracciare delle rotte navigabili proprio poco prima dello scoppio della guerra. Due settimane più tardi l’incrociatore tedesco era riuscito ad avere nuove scorte in arrivo da Dar es Salaam e salpò per compiere una nuova missione, che si concretizzò nell’affondamento della nave HMS Pegasus nelle acque di Zanzibar il 20 settembre e comportò la perdita di 38 vite, ma ebbe presto fine a causa di un’avaria dei motori che costrinse il Königsberg a cercare rifugio, una volta ancora, nel delta.

I britannici impiegarono altre cinque settimane per scoprire il nascondiglio dell’incrociatore, che si trovava 8 km. verso l’interno risalendo il fiume, e venne poi bloccato all’interno dei canali per impedirne la fuga. I britannici fecero diversi tentativi di bombardare la nave dal cielo, tuttavia ciò risultò fallimentare perché il solo fero problema dell’aviazione di quel omento era di mantenere gli aerei in volo. L’aspetto tanto mitizzato del rispetto reciproco fra i combattenti della prima guerra mondiale venne ampiamente dimostrato alla fine del’anno: "Vi auguriamo buon Natale e felice anno nuovo e speriamo di vedervi presto fu il messaggio inviato dall’HMS Fox al Königsberg cui i tedeschi di Looff risposero: "Grazie, altrettanto. Se desiderate vederci, siamo sempre a casa".

La caccia si protrasse fino al luglio del 1915, quando un paio di brevi battaglie, con l’aiuto di aerei da ricognizione in volo dall’isola di Mafia, che era stata conquistata da poco, consentirono di danneggiare il Königsberg in modo tanto grave da rendere i danni irreparabili. L’incrociatore fu affondato l’undici luglio e sprofondò nel fango, ma rimase visibile fino al 1962, quando il relitto fu fatto a pezzi per recuperare i rottami. Fra i rottami sopravvissuti ci sono un paio di cannoni da 4 pollici, non ancora montati nel momento in cui la nave affondò, usati in seguito durante la successiva campagna di terra comandata da von Lettow Vorbeck. Uno dei cannoni si trova alle porte del forte Jesus a Mombasa, l’altro a Pretoria.»

Se ora ci spostiamo dalla foresta equatoriale nel delta del fiume Rufigi ad un nascondiglio altrettanto misterioso, ma situato all’altro capo del mondo e in una foresta di tipo temperato-freddo, precisamente nel fiordo di Quintupeu, che si apre, fra le montagne boscose del Cile centro-meridionale, all’estremità orientale del Golfo di Ancud (chiuso, a occidente, dalla grande isola di Chiloé), ecco che troviamo un’altra nave smarrita in mezzo alla fitta vegetazione. E si tratta, ancora, di una nave da guerra della Marina Imperiale germanica; non solo, di un incrociatore leggero, molto simile al Königsberg: il Dresden, varato nel 1908 e gemello dell’altrettanto famoso Emden, lo scorridore dell’Oceano Indiano (cfr. il nostro articolo: «La crociera dell’incrociatore Emden e la battaglia delle isole Cocos», pubblicato sul sito di Arianna Editrice in data 22/09/2008), mentre il Königsberg era stato varato nel 1905, del capitano di vascello Fritz Lüdecke. La storia della crociera del Dresden è, se possibile, ancora più avventurosa e romanzesca di quella del Königsberg: anche qui fughe, inseguimenti, battaglie improvvise e fulminee ritirate, in una drammatica partita a scacchi con l’onnipresente flotta britannica, decisa a scovare e distruggere ad ogni costo quel pericoloso vascello corsaro, che rappresentava una potenziale minaccia per la navigazione alleata lungo le rotte dell’America Meridionale.

Nel gennaio del 1914 il Dresden era stato inviato dalla Germania sulle coste atlantiche del Messico, per salvaguardare gli interessi tedeschi minacciati dai disordini della rivoluzione messicana. A Tampico e a Veracruz svolse la sua delicata missione, prendendo a bordo numerosi cittadini tedeschi con i loro beni e anche alcuni cittadini di altra nazionalità; infine, in luglio, essendo divenuta insostenibile la situazione per il dittatore Victoriano Huerta, pressato dalle forze di Pancho Villa e di Venustiano Carranza (per il momento alleati, in seguito ferocemente avversari), la nave tedesca offrì rifugio anche a lui e salpò per il porto di Kingston, in Giamaica. Qui lo sconfitto presidente scese a terra per proseguire, su un’altra nave, il suo viaggio verso l’Europa e verso l’esilio; il Dresden, invece, si diresse verso il porto di Kiel, ma il rientro in patria gli fu reso impossibile dallo scoppio improvviso della Prima guerra mondiale.

A questo punto, Lüdecke ebbe l’ordine di condurre la guerra di corsa contro il naviglio mercantile alleato nell’Atlantico meridionale; e così fece, fermando diverse navi dell’Intesa e affondandone alcune, mentre altre, prive di materiale bellico, vennero generosamente lasciate andare: un tratto cavalleresco non privo di rischi, dal momento che gli equipaggi potevano così riferire preziose informazioni circa la posizione della nave corsara. Comunque, a un certo punto, il Dresden lasciò quelle acque e, navigando attraverso lo Stretto di Magellano, si portò nell’Oceano Pacifico, ove si vide sfuggire sotto il naso un mercantile britannico, che riuscì a rifugiarsi nei bassi fondali, ove non poteva essere inseguito. Dirigendo a Nord-Ovest, il Dresden si condusse all’Isola di Pasqua e lì, il 12 settembre, si ricongiunse con la forte Squadra degli incrociatori dell’Asia orientale, al comando del vice-ammiraglio von Spee, con la quale partecipò sia alla vittoriosa battaglia di Coronel (1° novembre 1914), sia a quella, disastrosa, delle isole Falkland (8 dicembre), nella quale tutte le navi da guerra tedesche vennero affondate, con la sola eccezione, appunto, del Dresden, che ebbe l’abilità e la fortuna di far perdere le proprie tracce (cfr. il nostro articolo: «L’ultima crociera dell’ammiraglio Spee», pubblicato parzialmente sul sito di Arianna Editrice in data 23/08/2007, e integralmente sul sito del Centro Studi la Runa).

In un primo tempo, la nave tedesca riuscì a tenersi nascosta in un ancoraggio segreto dell’Isola Nera, nel labirinto di scogli, fiordi e arcipelaghi della Terra del Fuoco, con l’aiuto di un cittadino tedesco di Punta Arenas, Albert Pagels; indi, sempre ricercata in lungo e in largo dalle navi della Marina britannica, navigando in mezzo al festone di isole e penisole della costa cilena meridionale, si portò fino al Golfo di Ancud e si rifugiò nel fiordo di Quintupeu, ove rimase dal 6 al 14 febbraio e poté godere dell’aiuto della patriottica colonia tedesca della non lontana cittadina di Puerto Montt, mentre provvedeva ad effettuare alcune indispensabili riparazioni. Ma anche quel soggiorno doveva concludersi presto: le leggi internazionali sul diritto marittimo stabilivano che una nave da guerra, appartenente ad una nazione belligerante, non potesse sostare nelle acque di una nazione neutrale per più di 24 ore: e Lüdecke venne avvertito che un incrociatore cileno stava dirigendo alla sua volta per imporgli il rispetto di quella norma.

Al Dresden non rimase altra scelta che salpare, con i carbonili mezzi vuoti e i motori in cattivo stato, e cercare un nuovo riparo nella baia di Cumberland, nell’isola di Mas a Tierra, ove giunse l’8 marzo; ma pochi giorni dopo, il 14, venne raggiunto e bombardato da tre incrociatori britannici, Kent, Glasgow e Orama, incuranti della neutralità cilena: Lüdecke ordinò l’autoaffondamento e sbarcò con il suo equipaggio, dopo aver subito la perdita di alcuni marinai e il ferimento di altri sedici (cfr. il nostro articolo: «Con un atto di pirateria internazionale gli Inglesi chiudono la partita con l’inafferrabile Dresden», pubblicato sul sito di Arianna Editrice in data 29/07/2010). Neppure la bandiera bianca sventolata dalla nave tedesca era valsa a fermare l’azione inglese; particolare degno di interesse, nel corso delle vane trattative con i suoi persecutori, si era fatto notare un giovane ufficiale di nome Wilhelm Canaris, destinato a svolgere una parte significativa nella Seconda guerra mondiale, come capo del’Abwehr dal 1935 al 1944 e come membro dello sfortunato complotto contro Hitler del 20 luglio 1944 (vedi il nostro articolo: «L’enigma Canaris», pubblicato su «Il Corriere delle Regioni» in data 06/05/2015).

Un pittore tedesco contemporaneo di Puerto Montt, Ulises Paulsen, ha rievocato, in una delle sue opere, quella affascinante pagina di storia, dipingendo il Dresden, splendido nel suo smagliante scafo corazzato, che scivola leggero sulle acque del fiordo di Quintupeu, ove si riflettono i monti con il verde delle foreste e il bianco delle nevi.

Un particolare intrigante per i curiosi: come in tutte le storie che si rispettino a base di avventure, di corsari e di isole lontane, anche nella storia del Dresden ci sarebbe — il condizionale è d’obbligo — un grosso tesoro, che attende ancora di essere ritrovato. Precisamente, si tratterebbe del tesoro che l’incrociatore trasportava al momento in cui levò le ancore dal Messico in preda alla rivoluzione: come si ricorderà, in quella occasione esso aveva preso a bordo numerosi cittadini, tedeschi e stranieri, residenti in quel Paese, insieme alle loro ricchezze, fra cui oro e gioielli. Quel tesoro giace nascosto fra i boschi del fiordo di Quintupeu, ove il vecchio lupo di mare, Lüdecke, per prudenza, lo avrebbe fatto nascondere, presagendo il tragico destino cui andava incontro la sua nave? Molti pescatori e altri abitanti del luogo lo hanno pensato, evidentemente perché si era sparsa una voce in tal senso, in seguito alla permanenza del Dresden in quel seno riparato. Però, a quel che risulta, nessuno è mai stato così fortunato da trovare qualcosa. Almeno, fino ad oggi…

Fonte dell'immagine in evidenza: Wikipedia - Pubblico dominio

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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