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Giovanni Paolo II mancò di tatto verso gli ebrei durante la sua visita ad Auschwitz?

Alain Vincordelet è stato professore incaricato all’Institut Catholique di Parigi; i suoi libri su Giovanni Paolo II hanno fatto il giro del mondo, tradotti in numerose lingue, al punto che è considerato uno dei più grandi esperti del pontificato di Karol Wojtyla. Inoltre, come cattolico, o come saggista che si muove nell’ambito della cultura cattolica, ci si potrebbe aspettare, da lui, quella indipendenza di giudizio che non si cura dei luoghi comuni, più o meno consolidati, della vulgata laicista e anticlericale oggi dominante; ci si aspetterebbe che egli accompagni il lettore dritto verso il nocciolo delle questioni e che non gli faccia perdere del tempo, attardandosi nella zona grigia delle impressioni e delle sensazioni, sulla base di labili indizi o, peggio, della "cultura del sospetto" che scorge ovunque i segni probanti, proprio perché involontari, di atteggiamenti mentali desueti e deprecabili, basati su false credenze del passato, su pregiudizi, su posizioni teologiche e morali datate e sorpassate. Che li scorge ovunque, naturalmente assumendo che il modo "giusto" di vedere e di comprendere le cose, è quello progressista, ecumenista, modernista, pluralista e, in fondo, relativista; che li scorge ovunque perché è essa, la "cultura del sospetto", che ha la coda di paglia, e presuppone l’errore e la malafede semplicemente là dove ancora non imperano incontrastati i suoi punti di vista, considerati come gli unici legittimi, i soli eticamente giustificati e razionalmente sostenibili.

Invece, la biografia di Alain Vircondelet «Giovanni Paolo II. La biografia del Papa che ha cambiato la storia» (ma il titolo originale è molto più sobrio e meno roboante: «Jean-Paul II. La biographie», Éditions Generales, 2004; traduzione dal francese di Marco Enrico Giacomelli, Lindau srl, 2005) è, sotto questo punto di vista, una continua, cocente delusione. A cominciare dal fatto che non si scrive la biografia di un pontefice prima ancora che il suo pontificato sia giunto al termine, né si scrive la biografia di un personaggio prima che questi sia morto. Il punto, naturalmente, non è che il biografo cattolico di un pontefice non possa esprimere delle riserve o anche delle critiche nei confronti del personaggio da lui studiato; ci mancherebbe: il punto è che le riserve o le critiche dovrebbero essere, come del resto da parte di qualunque studioso e nei confronti di qualunque oggetto di studio, seriamente motivate e argomentate, e non appese all’esilissimo filo di ambiguità tutte da dimostrare o di sottintesi e silenzi tutt’altro che evidenti in se stessi, e dunque, come minimo, soggettivi e opinabili. Un chiaro esempio di quel che stiamo dicendo è offerto dal modo in cui Vircondelet parla del viaggio fatto da Giovanni Paolo II in Polonia e ad Auschwitz nel 1979, poco dopo la sua elezione a pontefice, brano che riportiamo qui di seguito per intero, affinché il lettore possa giudicare (op. cit., pp. 262-266):

«[Woytyla] si reca ad Auschwitz e va a pregare nel "bunker della fame", dove padre Kolbe è morto con altri prigionieri. L’esigenza del "prete crociato" risponde alla propria e all’idea che egli ha del sacerdozio: impegno totale, fino al martirio. Prima della deportazione nei campi della more, Kolbe ha saputo risvegliare in molti giovani polacchi, e anche al di là delle frontiere, numerose vocazioni mariane, ha fondato la Missione dell’Immacolata, il periodico "Il cavaliere dell’Immacolata" — nel quale chiedeva ai lettori di radunare le "legioni" di Maria — e una sorta di comunità mariana, autentica città ideale interamente votata alla Vergine. Il proselitismo di Kolbe irrita molti cristiani, che nelle sue scelte scorgono un fanatismo e addirittura un antisemitismo confesso che, secondo i suoi avversari, è "ingiustificabile". Tuttavia i nazisti lo hanno deportati perché fu sospettato di aver nascosto degli ebrei. Il destino romantico ed estatico di padre Kolbe non può che esaltare l’immaginazione e il desiderio di santità di Giovanni Paolo II, è la ragione per cui, una volta diventato papa, farà di tutto per beatificarlo e canonizzarlo, il 9 novembre del 1982. Nel bunker dell’infamia, il papa eleva la sua preghiera. Vuole che sia incenso che sale verso l’anima dei defunti, "essiccati come tulipani". La devozione del nuovo papa non è quella di Paolo VI, piuttosto astratta e intellettuale. È stupefacente scoprire una tale devozione sentimentale in uno fra i migliori filosofi polacchi del XX secolo. Ma ciò non sorprende coloro che conoscono bene monsignor Wojtyla. Anche Tyranowski e Kotlarczyk sono degli entusiasti della fede, violenti e feroci. Saperlo significa comprendere meglio la devozione di Giovanni Paolo II, in fondo assai distante dalle speculazioni intellettuali, tutta cuore e sentimento. Quando celebra la messa nel campo della morte, evoca coloro che sono morti laggiù, annichiliti, quanto uomini, e, citando Kolbe ed Edith Stein — che porterà agli altari nel 1998, filosofa ebrea convertita al cattolicesimo e morta in deportazione -, opera un sorprendente paragone fra coloro che vi sono stati assassinati e Cristo. "Mi inginocchio su questo Golgota del mondo contemporaneo". Poi, rasentando le steli commemorative, si attarda a lungo di fronte a quella che ricorda gli ebrei e dichiara: "Questa iscrizione suscita il ricordo del popolo, i cui figli e figlie erano destinati allo sterminio totale. Questo popolo ha la sua origine da Abramo, che è padre della nostra fede, come si è espresso Paolo di Tarso. Proprio questo popolo, che ha ricevuto da Dio il comandamento: Non uccidere, ha provato su se stesso in misura particolare che cosa significa uccidere. Davanti a questa lapide non è lecito a nessuno passare avanti con indifferenza". In seguito costeggia la stele dedicata ai deportati russi, poi ai deportati polacchi, ricordando che la Polonia ha dato sei milioni dei propri figli alla guerra. Sei milioni, fra i quali tre milioni di ebrei che Giovanni Paolo II omette di citare… "Golgota del mondo contemporaneo", dimenticanza incresciosa, citazioni di Stein e Kolbe all’interno del più grande memoriale ebreo mai immaginato: altrettanti segni che soprendeono il mondo e in particolar modo le comunità ebraiche. Di può immaginare che Giovanni Paolo II abbia maldestramente parlato su un tema così bruciante e sensibile? Oppure le sue parole erano deliberatamente concertate? Possiamo credere a quest’ultima ipotesi, conoscendo le vicissitudini del pentimento manifestato lungo tutto il pontificato. In quel giorno di giugno del 1979 tutto è avvenuto come se i vecchi riflessi, ancestrali e arcaici, avessero ancora soffocato l’inconscio cristiano e non avessero permesso a Giovanni Paolo II di liberarsi dalle pastoie antisemite della Polonia nati, anche se intellettualmente e con la propria esperienza (l’amicizia con Kluger, il cristianesimo fondato sull’amore per il prossimo, la sua educazione) se ne è affrancato. La visita alla grande sinagoga di Rima nell’aprile del 1986 sarà la prima tappa del pentimento, ostacolato ancora dal viaggio a Mauthausen nel 1988, quando durante l’omelia, assimilando la sofferenza dei martiri deportati a quella di Geremia, non citerà mai le vittime principali dell’Olocausto. L’affaire del Carmelo di Auschwitz peggiorerà ancor più le relazioni, già tese, fra ebrei e cattolici. Sarà addirittura la più grave crisi fra le due comunità, poiché riguarda il modo in cui si legge la storia. Il dibattito s’infiamma in merito al Carmelo, al punto che monsignor Glemp, successore di monsignor Wyszynski, dichiarerà brutalmente agli ebrei: "Il vostro potere risiede nei mass media di cui disponete. Non permettete che diffondano uno spirito antipolacco!" (agosto 1989). Bisognerà attendere i giorni crepuscolari degli ultimi anni del secolo affinché la chiesa, e non Giovanni paolo II, riesca infine a pronunciare parole concilianti: "A termine di questo millennio la chiesa cattolica desidera esprimere il suo profondo rammarico per le mancanze dei suoi figli e delle sue figlie in ogni epoca. Si tratta di un atto di pentimento (teshuva): come membri della chiesa, condividiamo infatti sia i peccati che i meriti di tutti i suoi figli" ("Noi ricordiamo: una riflessione sulla Shoah). Nel 1979, Giovanni Paolo II è ancora prigioniero di un sentimento che gli vieta di andare sino in fondo al processo di riconciliazione, che tuttavia si augura. Vi sono ancora parole impronunciabili. Al "papa del silenzio" che fu Pio XII, Giovanni Paolo II vuole opporre "il papa della parola e della confessione". Comunque l’attitudine conservatrice e in particolare la visita ad Auschwitz saranno dannose alla sua popolarità. Quella mancanza di tatto sarà la premessa per un "disamore" e un’irritazione che cresceranno nel corso degli anni a venire.»

Ebbene: questo è un esempio da manuale di come non si fa la storia. L’Autore parte dai suoi pregiudizi e dalle sue riserve mentali e culturali; dopo di che, sulla base di essi, trincia giudizi che derivano da quelli, e non dalla realtà oggettiva.

Punto primo: Giovanni Paolo II sarebbe stato indelicato a recarsi nel bunker della morte per commemorare padre Kolbe? Semplicemente assurdo: la stranezza, e peggio, sarebbe stata il non averlo fatto. Padre Kolbe è il simbolo della forza morale del cristianesimo che vince sulla forza bruta del nazismo. Oppure il Papa è stato indelicato ad adoperarsi per la sua canonizzazione? E perché, dunque: forse perché questo poteva offendere gli ebrei? Ecco il punto: padre Kolbe è stato antisemita? Strano, visto che lo stesso Autore riconosce che l’arresto e la deportazione di Kolbe ad Auschwitz furono motivati dal sospetto che egli avesse nascosto degli ebrei. Oppure perché padre Kolbe, nel suo fervore mariano, "dispiaceva" ai cattolici "liberali", ecumenici a senso unico, semi-protestanti, che non amano sentir parlare troppo della Madonna? Allora è un altro discorso: viene fuori che la mossa di Wojtyla sarebbe stata inopportuna non solo, o non tanto, verso l’esterno, cioè verso l’ebraismo, ma verso l’interno, ossia verso quei cattolici che si autodefiniscono moderni e aperti al "progresso", nonché a un "dialogo" dove tutte le vacche sono nere.

Punto secondo: il Papa è stato indelicato a citare Edith Stein, la grande convertita ebrea, e, in seguito, a canonizzarla? Qui il discorso verte interamente sul rapporto con l’ebraismo. Se citare una grande anima cristiana, proveniente da un’altra fede religiosa, e portarla alla gloria degli altari, dopo averne riconosciuta la santità, è una indelicatezza verso quella certa fede religiosa di provenienza, allora tanto vale dire che il cattolicesimo si deve auto-censurare ogni qualvolta si dovesse verificare una circostanza del genere. Il che è assurdo. Una religione ha non solo il diritto di esistere, ma anche di fare proseliti: nel caso della Stein, poi, è stata lei stessa che, spontaneamente, si è avvicinata al cattolicesimo. E stiamo parlando non solo di una grande anima, ma anche di una illustre pensatrice (cfr. il nostro precedente articolo: «Esiste una specifica missione della donna?», pubblicato sul sito di Arianna Editrice in data 22/10/2010). Non è stata una conversione forzata, o dubbia, ma pienamente consapevole: e, se qualcuno ha motivo di dolersene, questo è un problema suo, non della Chiesa.

Punto terzo: Wojtyla ha definito Auschwitz un «Golgota contemporaneo», le cui vittime sono state assassinate così come lo è stato Gesù Cristo. Questa sarebbe stata una mancanza di tatto, perché il Golgota è un concetto cristiano, e non bisognava nominarlo in quel luogo, ove perirono tanti ebrei? Oppure perché il Golgota ricorda il fatto storico della crocifissione di Cristo, eseguita dai Romani, ma voluta, e fermamente voluta, dal Sinedrio ebraico? Dunque, i cristiani non avrebbero il diritto di ricordare una verità storica: che il Sinedrio volle la morte di Cristo, lo processò davanti al Sommo sacerdote, indi lo trascinò davanti a Pilato e ne pretese la condanna a morte? Dovrebbero far finta che Gesù Cristo sia morto di raffreddore, per non urtare la suscettibilità degli ebrei? Ci sembra davvero un chiedere troppo.

Punto quarto: Wojtyla non ha ricordato che metà delle vittime polacche della Seconda guerra mondiale erano ebree. Al di là della tragica contabilità dei morti (che, peraltro, non è così pacifica e condivisa come Vircondelet mostra di credere: e discutere di questo non è revisionismo), il Papa aveva appena ricordato il genocidio degli ebrei, come lo stesso Autore ricorda. E dunque, dove sarebbe stata la pretesa "omissione"? Del resto, poche righe più avanti, Vircondelet cita Pio XII come "il Papa del silenzio", come fa, abitualmente, la saggistica anticattolica – e la peggiore, la più faziosa, la più disonesta -, senza prendersi nemmeno il disturbo di chiedersi se una tale definizione sia appropriata. Ma i cattolici progressisti fanno così: prendono a prestito tutti i luoghi comuni dell’armamentario ideologico laicista e anticlericale, e se li appendono fieramente al petto, come tante medaglie: tutto quello che viene da quel pulpito è buono, per loro; quel che viene dai Papi "tradizionalisti", è cattivo. Infatti, subito dopo, Vircondelet qualifica Wojtyla di una "attitudine conservatrice". Non parla nemmeno di una "teologia conservatrice", oppure di una "pastorale conservatrice", ma di una "attitudine": concetto molto più ampio, ma anche assai più indefinito e, soprattutto, più soggettivo. Di chiunque si può dire che ha una certa "attitudine", ma questi sono discorsi da bar; lo storico deve provare le sue affermazioni, deve argomentarle.

A questo punto, l’ottimo Vircondelet pone una alternativa: preso atto che Wojtyla mancò di tatto (cosa, invece, tutta da dimostrare), si tratta di capire se lo fece con malizia, oppure no; e propende, bontà sua, per la seconda ipotesi. Il Papa, nel 1979, sarebbe stato ancora "prigioniero" di una cultura polacca antisemita, di cui si sarebbe liberato solo in seguito, poco alla volta. Addirittura, tutto il suo pontificato non sarebbe stato altro che un approfondimento di questa "liberazione", fino alla esternazione delle scuse formali all’ebraismo, a nome proprio e di tutta la Chiesa cattolica. Ma nel 1979 Wojtyla era incapace di andare sino in fondo al processo di riconciliazione. Strana idea della "riconciliazione": a scusarsi devono essere solo i cristiani; le colpe sono state tutte loro. Ma è vero, questo, storicamente? Gli ebrei non hanno nulla da rimproverarsi: né quando, sotto l’Impero romano, e poi all’epoca delle conquiste arabe, sobillavano il potere politico e militare contro i cristiani; né quando, per secoli, attraverso l’usura e, in seguito, l’alta finanza, nonché l’uso spregiudicato dei mass media (come il cardinale Glemp, allora appena nominato vescovo, ha ricordato), hanno oggettivamente esercitato un potere, non sempre encomiabile, sui loro vicini cristiani?

Quanto a Vircondelet, secondo lui dalla visita ad Auschwitz iniziano il "disamore" e "l’irritazione" nei confronti di Wojtyla. Da parte di chi? Non lo dice. Ma lo si capisce anche troppo bene: da parte dei cattolici "progressisti", come lui, che mal sopportano un papa tradizionalista, tanto più dopo averlo scambiato per uno dei loro. Un nuovo equivoco alla Pio IX, insomma. I cattolici che speravamo di portare "più lontano" lo spirito del Concilio (ma quale "spirito", se non il loro?), sono rimasti delusi: hanno scoperto che Giovanni Paolo II, pur essendo un uomo forte e intrepido, oltre che un filosofo di notevole livello, sulle cose della fede la pensa come un qualsiasi parroco di campagna e come una qualsiasi vecchietta. Orrore! È questo che i cattolici progressisti non possono perdonargli.

L’accusa, velata, di antisemitismo, è solo un elemento accessorio: serve per allungare il conto di cui costoro si sentono creditori nei confronti del papa polacco. I Polacchi, si sa, sono degli incorreggibili antisemiti. E un cattolico moderno ed ecumenico deve sapersi auto-censurare nei confronti di tutto ciò che potrebbe provocare la suscettibilità degli ebrei. Sarà per questo che la canonizzazione di padre Léon Gustave Dehon, avviata da Wojtyla, si è arenata proprio in vista del traguardo (doveva aver luogo il 24 aprile 2005): un po’ per la morte del papa, ma un po’, anche – anzi, parecchio – perché qualcuno ha creduto di ravvisare delle tracce inequivocabili di "antisemitismo" nei suoi scritti? E sarà sempre per questo che le suore carmelitane di Auschwitz sono state costrette ad andarsene, e il loro convento è stato chiuso, visto che la loro presenza "offendeva" la comunità ebraica mondiale?

Fonte dell'immagine in evidenza: Wikipedia - Pubblico dominio

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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