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16 Agosto 2015
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17 Agosto 2015I meriti di Franco Basaglia (nato a Venezia nel 1924 e spentosi nella sua città nel 1980, due anni dopo aver visto il varo della legge che da lui prende il nome), consistenti nell’abbandono di una concezione puramente negativa e repressiva della psichiatria e nella riscoperta della umanità del paziente malato di mente, sono indubbi: negarli, sarebbe ingiusto, oltre che anti-storico.
Partendo da alcune riflessioni dello psichiatra francese di origine russa Eugène Minkowski (San Pietroburgo, 1885-Parigi, 1972), appartenente all’indirizzo fenomenologico, Basaglia ha sviluppato un’idea assolutamente condivisibile: che la cura della malattia mentale non può essere puramente negativa, non può fare perno sulla malattia, ma deve puntare, ove possibile, a restituire il paziente al contesto sociale dal quale la malattia stessa lo ha strappato — un’idea, fra parentesi, che è valida per la malattia in generale, perché scaturisce da un approccio olistico e non riduzionistico al problema del malato, che è una persona viva e vegeta, un organismo globale, non una entità puramente subordinata e passiva.
A Basaglia, tuttavia, è accaduto quel che è accaduto ad altri personaggi della sua generazione, ad esempio per il fin tropo lodato e sbandierato (dai cattolici di sinistra) don Lorenzo Milani, per non parlare di tutta una schiera di scrittori, giornalisti, registi, attori, critici e intellettuali vari, da Alberto Moravia a Dario Fo: i suoi meriti sono stati assolutizzati, i suoi demeriti sono stati totalmente ignorati; di lui si è fatto un santino, un idolo intoccabile, una specie di redentore laico.
Parlando dei suoi demeriti, non ci riferiamo al fatto che la parte propositiva della legge Basaglia, quella che avrebbe dovuto individuare ed attuare una serie di soluzioni alternative al ricovero in ospedale psichiatrico, non è mai stata attuata: non sarebbe giusto farne una colpa a lui. La colpa ricade sui politici e sui pubblici amministratori, e anche – un poco – sui suoi ammiratori a senso unico, sui suoi seguaci più realisti del re, che negano addirittura la malattia psichiatrica e se ne fregano del dramma in cui, di fatto, sono state gettate migliaia di famiglie, costerette a vivere sotto l’incubo di un parente malato di mente, che non sanno come gestire, le quali sono state praticamente abbandonate a se stesse.
Ci riferiamo, piuttosto, alla impostazione di fondo del suo pensiero, figlio della filosofia — mediocre — dell’esistenzialismo e del vitalismo, un po’ di Heidegger e un po’ di Bergson, nonché generose spruzzate di fenomenologia, di Husserl e di Merleau-Ponty, con la mediazione di Minkowski; ma figlia, soprattutto, di J. P. Sartre, cioè dell’ideologia del Maggio francese, del "glorioso" maggio libertario del 1968: un misto sconcertante di retorica parolaia e di estremismo populista, tenuto insieme da un’unica, misera, semplicistica idea di fondo: l’individuo è il bene, la società è il male; la libertà è giusta, l’autorità è ingiusta; gli istinti sono buoni, le regole sono repressive, e dunque cattive. Gira e rigira, è sempre il vecchio Rousseau, col suo sciocco mito di un individuo sano e felice, minacciato da una "civiltà" brutta e cattiva, un mostro insaziabile che cerca vite umane da divorare; di un sacrosanto "diritto" alla felicità individuale, che non può venire se non da una lotta senza quartiere contro tutto ciò che è famiglia, società, stato, chiesa, istituzione. E, soprattutto, la fantasia al potere: perché «la bellezza è nella strada».
Questa cultura ribellistica facile facile, adatta ai microcefali che sfilavano nei cortei scandendo, magari in buona fede, i soliti slogan triti e ritriti, sentendosi forti del numero, e, più ancora, della ferma convinzione di rappresentare la gioventù, la freschezza, la verità e l’amore, in un mondo di "vecchi" dominato dall’egoismo, dall’avidità, dall’ipocrisia ottusa e ferocemente conservatrice di una borghesia cinica e senz’anima, costretta ad appoggiarsi, per sopravvivere, alle baionette dei soldati e ai candelotti lacrimogeni della polizia, vede nelle istituzioni, in qualsiasi istituzione, una forma insopportabile di violenza organizzata nei confronti dell’individuo; una violenza di chi «ha il coltello dalla parte del manico» (per usare le parole precise di Basaglia) nei confronti di chi non ce l’ha, e si trova, inerme e impotente, in balia di qualunque arbitrio.
Naturalmente, tutto questo nasce da un sottinteso: che il potere sia sempre e comunque ingiusto e repressivo, e che le istituzioni saranno sempre nemiche dei cittadini, fino a quando non saranno rovesciate da un sommovimento generale che le metta al servizio del popolo. La cosa non viene detta esplicitamente, ma è sottintesa. Altrimenti non si capisce come mai le istituzioni, che sono pur sempre formate da esseri umani, potrebbero diventare, da repressive, positive: non si capisce chi o che cosa le renderebbe "buone", vista la loro inclinazione alla violenza. (E si noti che, nella terminologia di intellettuali come Basaglia, la "violenza" è sempre quella che viene dallo Stato; meglio ancora, dallo Stato borghese: sicché quella della Rivoluzione culturale cinese, per fare un esempio, comandata a distanza da Mao e dai vertici del Partito comunista cinese, pur avendo fatto parecchi milioni di morti, non scandalizzò nessuno, tanto meno a sinistra, perché era vista, semmai, come una violenza "giusta", in quanto "proletaria".)
Tale approccio sociologico, quanto mai demagogico e irresponsabile, è perfettamente esemplificato in questo brano di Franco Basaglia, tratto dal libro da lui pubblicato nel 1968, «L’Istituzione negata», sulla base della sua esperienza presso l’ospedale Psichiatrico di Gorizia (Bompiani, Milano, 1968, pp. 769-773):
«Negli ospedali psichiatrici è d’uso ammassare i pazienti in grandi sale, da dove nessuno può uscire, nemmeno per andare al gabinetto. In caso di necessità l’infermiere sorvegliante interno suona il campanello, perché un secondo infermiere venga a prendere il paziente e lo accompagni. La cerimonia è così lunga che molti pazienti si riducono a fare i loro bisogni sul posto. Questa risposta del paziente ad una regola disumana, viene interpretata come un "dispetto" nei confronti del personale curante, o come espressione del livello di incontinenza del malato, strettamente dipendente dalla malattia.
In un ospedale psichiatrico due persone giacciono immobili nello stesso letto. In mancanza di spazio, si approfitta del fatto che i catatonici non si danno reciprocamente fastidio, per sistemarne due per letto.
In una scuola media, il professore di disegno straccia il foglio dove un bambino ha disegnato un cigno con le zampe, dicendo che a lui "i cigni piacciono sull’acqua".
In un asilo i bambini sono costretti a sedere sui banchi senza parlare mentre la maestra si dedica a piccoli lavoretti a maglia personali; minacciati di restare ore con le braccia alzate — il che è molto doloroso — qualora si muovano o chiacchierino fra loro, o facciano comunque qualcosa che disturba la maestra e il suo lavoro.
Un malato ricoverato in qualsiasi reparto di ospedale civile — se non è pagante in proprio — è certo di essere in balia degli umori del medico, che può sfogare su di lui aggressività a lui completamente estranee.
In un ospedale psichiatrico ad un malato "agiato" viene fatta la "strozzina". Chi non conosce l’ambiente manicomiale ignora di che cosa si tratti: è un sistema molto rudimentale — in uso un po’ dovunque – di far perdere coscienza al malato, soffocandolo. Gli viene buttato sulla testa un lenzuolo, spesso bagnato — così da non permettergli di respirare – che si avvita strettamente all’altezza del collo: la perdita di coscienza è immediata.
La frustrazione dei padri e delle madri, si risolve generalmente in violenze costanti sui figli, che non ne soddisfano le aspirazioni competitive: il figlio è inevitabilmente costretto ad essere meglio di un altro, e a vivere come un fallimento la propria diversità. Un brutto voto a scuola viene punto, come se la punizione corporea o psicologica servisse a risolvere l’insufficienza scolastica.
Nell’ospedale psichiatrico in cui lavoro, anni fa era in uso un sistema elaboratissimo per mezzo del quale l’infermiere di turno notturno si garantiva di essere svegliato ogni mezz’ora da un malato, per poter timbrare la sua scheda di presenza, così com’era d’obbligo. La tecnica consisteva nell’incaricare un malato (che fra l’altro non poteva dormire) di dividere il tabacco di una sigaretta dalle briciole di pane che vi erano state mescolate. L’esperienza aveva dimostrato che per questo lavoro di smistamento, occorreva appunto mezz’ora, dopo di che il malato svegliava l’infermiere e riceveva in premio il tabacco. L’infermiere timbrava la sua scheda (era necessario che testimoniasse ogni mezz’ora di essere sveglio) e riprendeva a dormire, incaricando un altro malato o lo stesso malato di ricominciare — nuova clessidra umana — il suo lavoro alienante.
Da "Il Giorno" di qualche tempo fa: "Basta con la tristezza! Il carcere di san Vittore perderà finalmente il suo aspetto grigio e tetro. Da alcuni giorni infatti, alcuni imbianchini sono al lavoro e un lato di uno dei raggi, che dà sul viale Papiniano, appare già dipinto di un bel giallo shocking, che allarga il cuore. Quando tutto il complesso sarà rinfrescato, San Vittore acquisterà un volto più dignitoso, meno pesante e angoscioso del passato". E all’interno? Ci sono ancora i "buioli" nelle celle, ma il muro giallo shocking intanto ci "allarga il cuore".
Gli esempi potrebbero continuare all’infinito, toccando tutte le istituzioni su cui si organizza la nostra società. Ciò che accomuna le situazioni limite riportate, è la violenza esercitata da chi ha il coltello dalla parte del manico, nei confronti di chi è irrimediabilmente succube. Famiglia, scuola, fabbrica, università, ospedale, sono istituzioni basate sulla netta divisione dei ruoli: la divisione del lavoro (servo e signore, maestro e scolaro, datore di lavoro e lavoratore, medico e malato, organizzatore e organizzato). Ciò significa che quello che caratterizza le istituzioni è la netta divisione fra chi ha il potere e chi non ne ha. Dal che si può ancora dedurre che la suddivisione dei ruoli è il rapporto di sopraffazione e di violenza fra potere e non potere, che si tramuta nell’esclusone, da parte del potere, del non potere: la violenza e l’esclusione sono alla base di ogni rapporto che si instauri nella nostra società.
I gradi in cui questa violenza viene gestita sono, tuttavia, diversi a seconda del bisogno che chi detiene il potere ha di velarla e di mascherarla. Di qui nascono le diverse istituzioni che vanno da quella famigliare, scolastica, a quelle carcerarie e manicomiali; la violenza e l’esclusione vengono a giustificarsi sul paiano della necessità, come conseguenza le prime della finalità educativa, le altre della "colpa" e della "malattia". Queste istituzioni possono essere definite come le istituzioni della violenza.
Questa la storia recente (in parte attuale) di una società organizzata sulla netta divisone fra chi ha (chi possiede in senso reale, concreto) e chi non ha; da cui deriva la mistificata suddivisione fra il buono e il cattivo, il sano e il malato, il rispettabile e il non rispettabile. Le posizioni sono — in questa dimensione — ancora chiare e precise: l’autorità paterna è oppressiva e arbitraria; la scuola si fonda sul ricatto e sulla moinaccia; il datore di lavoro sfrutta il lavoratore, il manicomio distrugge il malato mentale.»
Eccolo, dunque, il cattivo filosofo e il pessimo maestro: che semplifica all’eccesso, che generalizza, che istiga all’odio di classe, che mette i figli contro i genitori. Dal fatto che vi siano, nella società, delle istituzioni gestite in maniera sbagliata, talvolta aberrante, egli deduce che tutte le istituzioni sono repressive e immorali: tutte, a cominciare dalla famiglia. La scuola è fatta di maestre che lavorano a maglia e terrorizzano i bambini; la famiglia, di padri brutali e oppressivi, che ricattano e puniscono ingiustamente i ragazzi; nelle industrie, i padroni sfruttano sistematicamente gli operai; ovunque si assiste allo stesso copione: chi ha il potere, opprime chi non ce l’ha. Una filosofia da quattro soldi; e, quel che è peggio, un consapevole incitamento all’odio sociale, al rancore, alla ribellione cieca e universale. Basaglia ha il diritto di criticare certi aspetti degli ospedali psichiatrici, perché li conosce dall’interno; ha anche il diritto di criticare aspetti di altre istituzioni, anche se non dovrebbe mescolare i due discorsi, perché abusa del suo ruolo di psichiatra per supportare affermazioni gratuite che si riferiscono ad altri contesti, che non conosce personalmente, e dei quali ha una immagine stereotipata e ideologica. Quello che è inaccettabile, è che, dall’alto del suo ruolo di "intellettuale", tranci giudizi sommari contro tutto e tutti, col sottinteso che le cose andrebbero meglio se la fantasia andasse al potere e ciascuno fosse libero di fare tutto ciò che gli pare e piace…
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