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L’«Enciclopedia Italiana» è la prova irrefutabile dell’apertura culturale del fascismo

Dal 1929 al 1937, al ritmo di quattro volumi l’anno, venne pubblicata l’«Enciclopedia Italiana» (meglio nota, ma anche questo è significativo, soltanto come «Enciclopedia Treccani»): alla fine i volumi erano trentacinque, più uno di indici. Si trattò di un’opera gigantesca, in tutti sensi, che dava al nostro Paese, finalmente, la fierezza di possedere una grande enciclopedia nazionale, come l’avevano già le altre nazioni europee — la Francia, la Spagna, la Germania, l’Inghilterra -, realizzata con tale vastità di concezione e dispiego di mezzi, e con tale dispendio di energia, da non aver mai avuto l’eguale in Italia, né allora, né in seguito.

Qualunque altro popolo, qualunque altra cultura, andrebbero fieri di una simile impresa editoriale; da noi, a parte la pubblicazione di una serie di volumi di aggiornamento, nessuno ha mai osato né riprenderla, né emularla: è rimasta come una cattedrale nel deserto, una grandiosa enciclopedia per una ex grande potenza che ha scelto il basso profilo a tutti i livelli, compreso quello culturale; una enciclopedia addirittura sfarzosa, per il formato dei volumi, la pregevolezza della rilegatura, la qualità della carta, realizzata da un Paese povero, un Paese rurale e di emigranti, che non ha più trovato imitatori o prosecutori dopo che quel Paese è diventato ricco ed è entrato a far parte del ristretto club delle superpotenze economiche.

Che cosa strana! I danari, che allora c’erano per simili iniziative, ora non ci sono più. Ma, cosa più strana ancora: a realizzare quell’opera egregia, che adesso se ne va in malora per mancanza di manutenzione, come se ne sono andati in malora molti dei grandiosi edifici destinati all’Expo del 1942 e mai tenuto, per il sopraggiungere della guerra (si pensi solo alle materie scientifiche e tecnologiche, per le quali sarebbe stato necessario un costante, radicale lavoro di aggiornamento, visto il ritmo frenetico assunto dal progresso in quei settori), vennero chiamati i migliori specialisti di ciascuna disciplina, senza chiedere loro né la tessera di partito — l’Italia, allora, aveva un regime dittatoriale — né le idee politiche, filosofiche, religiose: i migliori, e basta. E furono molti, moltissimi gli autori notoriamente antifascisti, chiamati a collaborare, sia nelle discipline più lontane dall’attualità politica, sia in quelle ove risultava inevitabile entrare nel terreno scabroso del dibattito ideologico: ebbene, nessuno, nemmeno dopo — dopo la guerra civile, dopo Piazzale Loreto — ha trovato qualcosa di serio da eccepire sulle migliaia e migliaia di "voci" compilate durante il periodo fascista. Al contrario: vi si trovano pressoché tutte le firme che avrebbero contraddistinto la cultura italiana della stagione democratica e repubblicana. C’è qualcuno che riesce, onestamente, a immaginarsi una cosa del genere nella Germania hitleriana o nell’Unione Sovietica staliniana? C’è qualcuno che riesce onestamente a immaginare un qualcosa di analogo alla «Enciclopedia Italiana» nella patria del nazismo o in quella del comunismo?

L’ideatore e l’artefice di quell’opera grandiosa, che onora il nostro Paese, ma soprattutto quella generazione di uomini di cultura, è stato il filosofo Giovanni Gentile: il quale, assassinato nel 1944, mentre predicava la riconciliazione nazionale, dai fautori della guerra civile, era stato precisamente l’uomo che l’aveva voluta, così come essa fu realizzata: un’opera non ideologica, non faziosa, non bigotta, ma di grande qualità scientifica e di notevole onestà intellettuale. Delle tre grandi imprese nelle quali Gentile si è segnalato — la formulazione delle sua filosofia, una particolare versione dell’idealismo chiamata attualismo; la riforma scolastica, voluta quando egli fu, sia pure per breve tempo, titolare del ministero della Pubblica Istruzione; e la realizzazione della «Enciclopedia Italiana», è quest’ultima che gli avrebbe meritato gloria imperitura presso i posteri, se la gratitudine, e soprattutto l’onestà intellettuale, fossero una merce diffusa tra i nostri accademici e i nostri cosiddetti intellettuali. Eppure la sua filosofia costituisce un’opera imponente del pensiero; la sua riforma scolastica era talmente buona, checché se ne dica, che per decenni neppure i ministri democratici e repubblicani hanno osato modificarla (almeno fino al 1962); ma l’«Enciclopedia Italiana» ha avuto il destino più amaro. Non è stata abolita, come accadde all’Accademia d’Italia, ma ha subito il trattamento equivalente: un silenzio imbarazzato, una diffidente presa di distanza, in quanto sapeva troppo di fascismo. Anche se non era vero.

Sia pure un poco a denti stretti, anche Norberto Bobbio ha dovuto riconoscere l’apertura, la generosità e il disinteresse mostrati da Gentile, e quindi dal regime fascista al potere, nei criteri ispiratori della gigantesca opera editoriale (da: Norberto Bobbio, «La cultura e il fascismo», in: AA.VV., «Fascismo e società italiana», Torino, Einaudi, 1973, pp. 215-217):

«La più grande impresa culturale di quegli anni, e indiscutibilmente la più grande rassegna che sia mai stata tentata sino ad oggi della cultura accademica del nostro paese, l’"Enciclopedia Italiana", che uscì puntualmente, quattro volumi all’anno per otto anni dal 1929 al 1937, sotto l’egida di Gentile, coadiuvato da un comitato direttivo di cui fece parte sino all’ultimo Gaetano De Sanctis, uno degli undici che non avevano giurato [al principio dell’anno accademico 1931-32, quando venne richiesto ai professori universitari un giuramento di fedeltà, solo undici su milleduecento avevano rifiutato], non è, se non in qualche frangia marginale, che appare una stonatura, un’opera fascista. Temi scottanti, se pur dottrinali, come comunismo, socialismo, materialismo storico, socialdemocrazia, furono affidati a Rodolfo Mondolfo, il più noto studioso del marxismo in quegli anni, e socialista egli stesso. L’amplissima voce "democrazia", affidata a Felice battaglia, giovane gentiliano, è una storia dell’idea di democrazia dai greci ai giorni nostri (l’ultimo autore citato è il Bryce) e termina con un breve e temperato giudizio storico sulla democrazia italiana, "impotente ad arginare un moto come il fascismo, in parte espresso da quelle stesse forze sindacalistiche che essa aveva ignorato". Mentre la voce "Liberalismo" di Ugo Spirito, che fu uno dei teorici del corporativismo, contiene anche un manifesto politico, la voce "diritti di libertà" fu redatta da Gioele Solari, maestro di Gobetti, uno dei docenti notoriamente antifascisti dell’Università di Torino. Non è un caso, però, che l’punica voce, tra quelle politicamente più compromettenti, manifestamente, sebbene grossolanamente, tendenziosa sia "Bolscevismo"; ma come se gli accademici non avessero voluto sporcarsi le mani, è scritta da un illustre sconosciuto. Marx, invece, affidata ad un economista di vaglia come Augusto Graziani. Lenin e Trockij, dove uno si aspetterebbe di trovare chi sa quali enormità, voci anodine, se mai cronachistiche, ma senza polemica per partito preso. Più che anodina,male informata, brevissima, come se si trattasse di un personaggio insignificante, non ancora assurto al cielo della Storia, la voce dedicata a Stalin, sul quale l’unico giudizio che si riesce a raccogliere dall’anonimo estensore è il seguente: "temperamento essenzialmente pratico". Due tra le voci più importanti, "Rinascimento" e "Risorgimento", affidate rispettivamente a Federico Chabod e a Walter Maturi, tra i maggiori storici della nuova generazione. Negli ultimi volumi innumerevoli sono le voci di Delio Cantimori, piccole, anche minime e di argomento disparatissimo, su cui spiccano alcune su temi e personaggi della Riforma. Innumerevoli furono le voci filosofiche scritte da Guido Calogero. Vi collaborarono, oltre Luigi Russo (ricordo la voce "D’Annunzio"), più vicino alla generazione dei maestri, giovani critici come Mario Fubini e Natalino Sapegno, insomma tutto o quasi tutto lo stato maggiore della cultura accademica postfascista. Non c’è da stupirsi che non appena fu annunciato il programma dello pera qualcuno osservasse con intenzioni persecutorie, che peraltro non ebbero mai alcun effetto, che tra i collaboratori vi erano nientemeno novanta firmatari del manifesto antifascista di Croce.

Tutto ciò che vi fu di fascistico, anzi di "squisitamente" fascistico, nei trentasei volumi, fu concentrato nella voce "Fascismo", divisa tra gentile, che tracciò i lineamenti della dottrina, e Gioacchino Volpe che ne tracciò la storia. La voce "Mussolini", anonima, brevissima e cronachistica, quasi come quella di Stalin, se pure meglio informata, salvo uno svolazzo finale di poche righe. La voce "Impero", scritta da Francesco Ercole, uno dei più noti storiografi della rivoluzione fascista, tratta, professoralmente, della storia del sacro romano impero. Battaglia condanna l’imperialismo nella voce omonima in nome del nazionalismo italiano che si riconosce nello Stato etico (uno Stato etico come potrebbe essere imperialista?). Chi pensasse di trovare nella voce "Nazionalsocialismo", uscita nel 1934, l’apologia del Führer e del movimento delle camicie brune, si sbaglierebbe: la voce, essenzialmente storica, fu scritta da Carlo Antoni, non certo in odore di fascismo, che di lì a poco avrebbe contribuito col libro "Dallo storicismo alla sociologia" (1940) a suscitare il primo vasto dibattito sullo storicismo tedesco, a cominciare da Max Weber. La voce "Razzismo" (siamo arrivati ormai al 1935) è assente; la voce "Razza" è scritta da un antropologo che critica le deformazioni nazionalistiche di alcuni antropologi tedeschi (Rosenberg non è ancora apparso all’orizzonte). Ci si aspetterebbe un recupero della dottrina italianissima nella voce "Stirpe": non c’è. Lo spirito della rivoluzione appare — sì — ma qua e là di soppiatto, quando uno meno se lo aspetta; la voce "Martire", ad esempio, dopo un sobrio excursus storico sui martiri cristiani e su quelli del Risorgimento, finisce con una particolareggiatissima storia del martirologio fascista, affidata ad Arturo Marpicati, vicesegretario del partito, che salta con il linguaggio delle cerimonie patriottiche il sacrificio dei caduti contro le "forze sovversive".»

Norberto Bobbio avrebbe potuto essere, se non più generoso, più equanime. Egli si limita quasi interamente a considerare le singole "voci"; ma un’opera come l’«Enciclopedia Italiana», così vasta e ambiziosa, va giudicata anche, e soprattutto, nell’insieme. Perché non dire francamente, ad esempio, che, specialmente in ambito umanistico, l’Italia non aveva mai conosciuto prima un simile contributo culturale, una simile ampiezza di orizzonti, una simile apertura internazionale, una così documentata, ponderata, poderosa mole di dati culturali, messi a disposizione del pubblico in maniera tale, da risultare fruibili sia dallo specialista più esigente e raffinato, sia dallo studente o dal semplice lettore di media cultura? Insomma: un’opera così sofisticata e così "democratica" nello stesso tempo? Forse perché bisogna continuare a ripetere, come tanti pecoroni, che la cultura fascista non è mai esistita, o che, se pure è esistita, era una cultura chiusa, retriva, provinciale, miope, e anche un po’ buffa, con le sue pretese di autarchia?

Pare che senza le traduzioni dall’americano di Cesare Pavese, o senza gli "astratti furori" di Elio Vittorini, la cultura italiana sarebbe precipitata nell’Inferno dell’ignoranza, di Strapaese, di energumeni tutti manganello e olio di ricino; pare che la cultura italiana degli anni Trenta, soffocata e avvilita da una dittatura occhiuta, rabbiosa, poliziesca, fosse ormai agonizzante, sul punto di spegnersi; pare che solo la doppia tragedia e la doppia disfatta, materiale e morale, della guerra mondiale e della guerra civile, siano valse a rianimare la cultura italiana, già in procinto di esalare l’ultimo respiro, dopo che per due decenni Mussolini e i suoi scagnozzi le avevano fatto mancare perfino l’ossigeno — per non dire del pane e companatico.

Strano. Perché a leggere le innumerevoli voci compilate da autori antifascisti, molti dei quali avevano firmato il Manifesto di Benedetto Croce, verrebbe da pensare che, in ambito culturale, vi fosse più libertà di quanta non ve ne sia oggi, quando è diventato impossibile trovare un editore o un giornale disposti ad ospitare qualche voce che sia ideologicamente appena un po’ fuori dal coro. Oggi che, a criticare appena un poco la politica di Israele, si rischia un’accusa di antisemitismo; e a parlare di famiglie con mamma e papà, si rischia una denuncia per omofobia. E guai a dire che l’Italia è sottoposta, ormai da venticinque anni, a una autentica invasione da parte di immigrati d’ogni lingua e provenienza: in questo caso, oltre alle eventuali sanzioni di legge, si rischia anche la scomunica da parte della Chiesa cattolica, debitamente progressista e politicamente corretta.

Non si vuol negare, con questo, che il fascismo sia stato una dittatura; ma che, come dittatura (o, se si preferisce, come totalitarismo alquanto imperfetto), almeno nell’ambito culturale, esso fu assai più liberale e signorile di quel che non lo siano i poteri baronali della cultura odierna, democratici e antifascisti, televisione di Stato compresa. I redattori della «Enciclopedia Italiana» si sarebbero vergognati di parlare il linguaggio sistematicamente fazioso di certi professori universitari "progressisti" e di certi giornalisti Rai, che corteggiano i nemici dell’Italia con i soldi dello stato…

Fonte dell'immagine in evidenza: Wikipedia - Pubblico dominio

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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