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14 Agosto 2015Che la filosofia europea sia figlia del pensiero greco, questo è un dato che tutti conoscono bene e del quale anche il non specialista possiede una chiara e piena consapevolezza. Quello che molti non sanno, o non immaginano, è che, con molta probabilità, il pensiero greco nella sua versione euro-asiatica, durante la fase storica dell’ellenismo, esercitò una spinta altrettanto vigorosa e svolse un fermento non meno significativo nel promuovere gli sviluppi della filosofia indiana (e, indirettamente, cinese), segnatamente di quella induista e buddista.
Più specificamente, è legittimo supporre che una mediazione del pensiero greco, e specialmente della metafisica neoplatonica, vi sia stata fra la metafisica induista centrata sul concetto dell’Atman e la metafisica buddista della corrente Mahayana, sviluppata da pensatori come Asvagosha, Nagarjuna e Vasubandhu. Si sa che una analoga mediazione fu sviluppata dall’arte greca, fiorente, in epoca alessandrina, specialmente nei regni indo-greci, come quello di Battriana, corrispondente a una parte dell’odierno Afghanistan (capitale iniziale: Taxila), fiorito fra il 180 a. C. e il 10 d. C., e al quale succedette l’Impero Kusana, fiorito fra il I e il III secolo, fondato dai Sacarauli (ricordati da Strabone nella sua «Geografia»), insieme agli altri tre popoli indoeuropei dei Tocari, degli Assi e dei Passiani, tutti provenienti da un vastissimo e indefinito territorio, posto fra la Siberia meridionale, la Mongolia e la Cina occidentale; impero che raggiunse il culmine dello splendore fra il 105 e il 250 d. C. Si sa anche che, per un paio di secoli prima ed un paio di secoli dopo Cristo, si svilupparono intense relazioni commerciali fra il bacino del Mediterraneo e l’India propriamente detta, che avevano in Alessandria d’Egitto un fondamentale centro di snodo.
Si sa pure che il maestro di Plotino, l’ultimo grande filosofo della tradizione neoplatonica, era Ammonio Sacca (nato nel 175 e morto nel 242 d. C.), del quale è stata ipotizzata, proprio a causa del suo nome (Sacca per "Sakya", cioè membro dello stesso clan cui appartenne anche Gautama Budda) una origine indiana. Se così fosse, il cerchio sarebbe veramente chiuso e si potrebbe arrivare alla conclusione che il neoplatonismo, l’induismo e il buddismo Mahayana, nella loro speculazione metafisica intorno alla natura dell’essere, altro non sono che tre aspetti di un’unica ricerca, i quali hanno in comune molto di più che una semplice convergenza esteriore (ricordiamo che la prima ed unica traduzione in italiano dei «Frammenti» di Ammonio Sacca, dal testo latino di Nemesio, Prisciano e Ierocle, a quanto ne sappiamo, è quella da noi condotta e pubblicata, con il titolo «I frammenti di Ammonio Sacca», nel sito di Arianna Editrice, in data 15/11/2007).
Ha scritto Maurice Collins nel suo libro «Confucio» (titolo originale: «The first holy one»; traduzione dall’inglese di Camillo Pelizzi, Milano, Longanesi & C., 1970, pp. 201-204):
«La metafisica del mahayana ebbe origine nel primo secolo d. C. e si sviluppò fino al quinto. I suoi quattro grandi filosofi sono Asvagosha, Nagarjuna, Asanga e Vasubandhu. Il sistema di pensiero che essi svilupparono è estremamente astruso, e si potrebbe impiegare una vita a districarne i grovigli. Ma il suo scopo può venire espresso semplicemente. Esso consisteva nello spiegare come un uomo potesse farsi consapevole della condizione buddista, ossia della divinità, penetrandovi egli stesso e facendo esperienza della sensazione di una assoluta unione col divino, una unione in cui questo e quello, il soggetto e l’oggetto, l’individuale e Dio, venivano a fondersi in modo che ogni dualità si superava in una travolgente realizzazione di quell’unità, che era il vero. Questa condizione, in cui l’io scompariva, era detta il "vuoto"(o il "nulla"), ma era in egual modo la "plenitudine", costituendo la natura essenziale delle cose, ossia il loro essere ciascuna quello che è; un assoluto che era insieme la sostanza e il processo di tutte le cose. In termini di questo genere era descritto il nirvana, nel quale si riteneva che originariamente si fosse ritirato il Budda, ossia il misterioso stato di non-personalità quello stato che sembrava simile al nulla, poiché tutte le cose erano scomparse, ma che in realtà era il tutto, poiché il nulla era scomparso. Attingere questa condizione dello spirito equivaleva ad attingere i poteri dell’elisir, poiché aver coscienza di tali cose supreme significava essere invincibili di fronte a tutte le vicissitudini terrene. Tuttavia, si ripete con insistenza, tali poteri non hanno esistenza nel senso temporale o fenomenico. Ma la stessa non-esistenza della loro esistenza è una priva che essi esistono, poiché l’esistenza apparente è irreale, e la inapparente reale. Perciò, la risposta al quesito: "Da dove è venuto il Budda?" è: da nessun luogo; la risposta al quesito: "Dove è andato il Budda?" è: in nessun luogo; poiché egli non si è mai mosso da dove è sempre stato , ossia da dove tutti gli uomini sono, sebbene non lo sappiano. Così, ognuno è già nel nirvana, che se ne accorga o no, sebbene lo accorgersene sia lo scopo supremo; e ancora, cosa anche più strana, poiché il Budda non è venuto da nessun luogo e non è andato in nessun luogo, egli non è mai venuto, poiché c’è sempre stato. E, in quel senso in cui si dice che non è mai venuto, non è mai esistito, poiché la sua esistenza non è esistenza, né tuttavia non-esistenza, ma è la trascendenza di entrambe. Perciò il Budda non è mai scomparso, poiché non era mai comparso; non è mai stato in alcun luogo, perché non è mai stato in nessun luogo, ma il suo "nessun luogo" era "ogni luogo", sebbene il suo "ogni luogo" fosse un qualche altro luogo.
Ora, coloro che hanno conoscenza della metafisica classica indù dello "atman", ossia della suprema identità dell’anima con la deità, si accorgeranno che la metafisica buddista, che venne sviluppata quando l’altra era già antica, nella sua essenza non è nulla più di una nuova formulazione di quella teoria in termini buddistici. Ma perché mai gli indiani, proprio in quel periodo, si sentivan portati a fare quella nuova formulazione? Una risposta che potrebbe venire discussa è che i greci, in quel tempo, erano occupati a formulare una metafisica simile, sebbene in termini platonici. Le speculazioni greche culminarono nel terzo secolo d. C. con la filosofia di Plotino. Lo scopo della sua metafisica era esattamente quello della metafisica mahayanista, ossia, l’illustrazione di quello che potesse essere il significato di un’assoluta unità col divino. Di lui scrive il suo discepolo Porfirio, nella sua "Vita Plotini": "Venne fatto di pensare, a quest’uomo straordinario, che era costantemente impegnato nello sforzo di spingersi verso il divino con la forza del suo pensiero, e con l’impiego dei mezzi illustrati da Platone nel suo "Simposio", che là, di fatto, era offerta una visione di quel dio che, senza avere un’apparenza fenomenica, esiste oltre ogni comprensione. Tutto il suoi intento e il suo fine fu di avvicinarsi a Dio e diventare uno con Lui. Ed egli, penso, raggiunse questo scopo quattro volte, mentre io vivevo con lui, non semplicemente per il fatto di essere in uno stato di spirito che consentisse tale possibilità, ma in modo reale, sebbene di una realtà che trascende ogni possibile espressione in parole.
Il centro della filosofia neo-platonica era Alessandria, che nell’anno 30 a. C. venne inclusa nell’impero romano. Gli abitanti di quell’impero, non solo avevano commerci con l’India nel primo secolo a. C., ma avevano anche stanziamenti propri lungo le sue coste, come li ebbero più tardi, nel secolo decimo settimo, gli inglesi. L’università di Alessandria era la più famosa che allora esistesse. Quando questa università era piena di accese speculazioni neo-platoniche, possiamo essere sicuri che tutto l’oriente ellenizzato, dovunque si radunassero uomini di lettere di qualsiasi razza, seguiva con intenso interesse ciò che là si dibatteva. Come già si è detto, i kushan ellenizzati, in quell’epoca, predominavano fino al Punjab. E fu precisamente in questa regione che sorse la metafisica mahayanista. Che le sue speculazioni avessero come fonte le discussioni suscitate negli ambienti filosofici dai dibattiti trascendentali che avvenivano nell’università di Alessandria, sembra sia un corollario naturale dei suggerimenti iconografici e mitologici, che venivano da quelle stesse terre greche. Così, possiamo dire che i greci, non solo contribuirono a creare una rappresentazione popolare del nuovo salvatore asiatico, e fornirono gran copia di cose meravigliose da impiegarsi nella sua biografia, ma fecero anche in modo che gli indiani dello stato semi-greco del Kushan speculassero intorno alla natura sua come "essere assoluto", e sul modo come si potesse entrare in comunione con esso a quelle altitudini spirituali.»
È evidente che esistono delle convergenze inequivocabili fra l’Atman (o "Essenza") degli induisti, il Nirvana dei buddisti e l’Essere dei Greci, e specialmente l’Uno di Plotino e dei neoplatonici; così come è chiaro che esiste una convergenza fra le tre metafisiche, consistente in modo particolare nel rifiuto della dualità e in una concezione rigorosamente spiritualista del reale (di Plotino ci è stato tramandato che egli si comportava come un uomo che «si vergogna di possedere un corpo»: anche se questo spiritualismo estremo rischia di sfociare, appunto, in una nuova e involontaria forma di dualismo, perché la materia rifiutata deve pur trovare una qualche collocazione, e sia pure negativa o illusoria quanto si vuole).
Quel che esse hanno in comune è molto di più di quanto le differenzia; ed è un atteggiamento mistico di fondo, una ardente aspirazione all’unione con il divino, uno slancio formidabile dell’anima individuale verso l’anima universale, per realizzare la loro perfetta e totale fusione. L’affermazione che Buddha non è mai arrivato, perché non è mai partito, altro non vuol dire se non che l’Assoluto è già qui, ora, e che noi ne siamo parte: diventarne consapevoli è ciò che fa la differenza tra una visione limitata, frammentaria, ingannevole del reale, e una visione luminosa, piena e pacificante, nella quale sono riassorbite e annullate tutte le aporie dell’esistenza e domina trionfante, inestinguibile, la fiamma del puro essere, eterno e incondizionato. Formulati con parole e concetti diversi, si tratta di pensieri che ciascuna delle tre metafisiche, l’induista, la buddista e la neoplatonica, avrebbero sostanzialmente condiviso; la convergenza temporale e, in qualche misura, spaziale, ci sembrano qualche cosa di più di una mera coincidenza: si tratta di analogie troppo significative e di corrispondenze cronologiche troppo collimanti, per pensare al puro frutto del caso.
La stessa idea di un valore salvifico della filosofia, anzi, la stessa idea di un "salvatore" degli uomini, di un Budda che si è incarnato per condurre verso il Nirvana fin l’ultima anima che si dibatte nelle spire dell’errore e della sofferenza, sembra denotare una radice comune: il pensiero si fa soteriologico mano a mano che cresce l’angoscia esistenziale; e l’epoca tardo antica è stata definita dallo storico inglese delle religioni Eric Dodds, per l’appunto, un’epoca di profonda, drammatica angoscia esistenziale.
Possiamo considerare un caso il fatto che un imperatore guerriero come Gallieno (regnante con il padre Valeriano dal 253 al 260, e poi, fino al 268, da solo), autore di una formidabile riforma militare, alla quale, probabilmente, si deve se l’Impero romano ha potuto ritardare di oltre due secoli la propria fine, trovasse il tempo e l’energia per occuparsi anche di filosofia; che fosse amico personale di Plotino e che lo incoraggiasse, anche se solo verbalmente, a fondare una "città di Platone" in Campania; e questo mentre i popoli barbari premevano da tutte le parti, e lo stesso Valeriano cadeva prigioniero dei Persiani? (cfr. il nostro articolo: «L’imperatore romano Valeriano fu catturato e ucciso da Shapur come punizione divina?», pubblicato su «Il Corriere delle Regioni» in data 08/03/2015).
D’altra parte, sappiamo bene quanta influenza il neoplatonismo ha avuto sul misticismo cristiano, su quello islamico (specialmente sufi), su quello giudaico medievale; per cui è proprio il caso di dire che le radici che legano l’Europa all’Asia, e la filosofia antica a quella dei secoli successivi (la cosiddetta philosophia perennis, sono molto più vaste e articolate, molto più antiche e profonde di quel che siamo soliti pensare. Quei legami, quelle convergenze, quelle sensibilità comuni, sono entrati in crisi, e si sono spezzati, con l’avvento della modernità: dapprima in Europa, indi anche in Asia, mano a mano che la civiltà europea si espandeva nel resto del mondo, a partire dalla fine del XV secolo. Ciò che ha determinato la frattura è stato il rovescio della medaglia di ciò che, per abitudine e per conformismo, siamo soliti chiamare, ma solo in senso trionfalistico, la Rivoluzione scientifica del XVII secolo: vale a dire, la progressiva esautorazione della metafisica. Da quando il pensiero europeo ha incominciato a perdere di vista l’essere, specialmente a partire da Kant (cfr. il nostro articolo: «L’io penso kantiano e l’auto-castrazione del pensiero moderno», pubblicato sul sito di Arianna Editrice in data 10/05/200), è sorta la Torre di Babele delle verità irreconciliabili…
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