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11 Agosto 2015Non si può dire che fosse proprio bella, Mary Kingsley; o, almeno, non lo era nel senso classico della parola: tuttavia, c’erano una distinzione nella sua persona snella, una sorta di tranquilla fierezza nei tratti del viso, una luce scintillante nello sguardo, che ne facevano, quanto meno, un tipo interessante; un tipo che non passava inosservato.
La sua personalità, avventurosa e romantica, sta a mezza strada fra quella di una Florence Nightingale, eroica infermiera, piena di zelo cristiano e missionario, che va a curare i soldati feriti nella guerra di Crimea ed è considerata la fondatrice dell’assistenza infermieristica moderna (e lei, infatti, va a curare le vittime della guerra anglo-boera e vi contrae la malattia che la ucciderà in pochi giorni) e quella di una Isabelle Eberhardt, scrittrice russa sommamente infelice e irrequieta, anch’ella innamorata follemente dell’Africa, mistica a suo modo, omosessuale e proto-femminista, ma sostanzialmente ansiosa di autodistruzione, che muore a ventisette anni, travolta da una fiumana, dopo una vita terribilmente dissipata e tribolata (cfr., su di lei, il nostro precedente articolo: «Il deserto è il non luogo dove ciascuno è messo a nudo con se stesso», pubblicato sul sito di Arianna Editrice in data 02/08/2010).
Della Nightingale ella aveva, oltre al decoro e alla flemma tipicamente britannici, l’empito generoso e disinteressato e la capacità di dedizione ad una causa nobile e super-individuale; della Eberhardt, l’oscura attrazione verso il mondo selvaggio ed esotico, nel quale perdersi, forse, oppure ritrovarsi: probabilmente non lo sapeva bene neanche lei. In quel gesto quasi superomistico, e "dandy" al tempo stesso, di lasciare il proprio biglietto da visita sulla cima del Monte Camerun, c’è la stoffa di un eroe dannunziano in gonne vittoriane; nella decisione di correre a curare i malati boeri fatti prigionieri dai suoi connazionali, una sorta d’inconscio desiderio di espiazione, quasi un controluce dell’imperialismo e del colonialismo celebrato da Kipling con la poesia sul fardello dell’uomo bianco, ma duramente stigmatizzato da Conrad nel suo celeberrimo «Cuore di tenebra», anch’esso ambientato nelle buie foreste africane.
D’altra parte, gli ultimi anni del XIX secolo sono quelli in cui alcune donne, specialmente nell’area anglosassone, scatenano l’offensiva per l’uguaglianza civile e politica fra i sessi, e rivendicano spazi di libertà sempre maggiori per le donne: nel 1897, ad esempio, Emma Goldman — universalmente nota come Red Emma, Emma la Rossa – scriveva: «Io chiedo l’indipendenza della donna, il suo diritto di mantenersi, di vivere per se stessa, di amare chi e quanti vuole» (A. Wexler, «Emma Goldman: An Intimate Life», 1984, p. 94); mentre una poetessa come Renée Vivien (alias Pauline Tarn), da Parigi, scandalizzava il mondo con le sue ardenti poesie, celebranti senza perifrasi l’amore lesbico (cfr. il nostro articolo: «Cenere e polvere negli amori impossibili di Renée Vivien», pubblicato sul sito di Arianna Editrice in data 27/12/2007). Ma anche nell’ambito specifico delle esplorazioni africane, la strada al femminile era già stata aperta: per esempio, dalla giovane olandese Alexandrine Tinné, la quale, dopo aver viaggiato a lungo su e giù per l’Africa, tentò infine la traversata del Sahara e vi trovò la morte, per mano dei Tuareg, nel 1869.
Possiamo quindi vedere in Mary Kingsley (nata nel sobborgo londinese di Islington il 13 ottobre 1862 e morta a Simonstown, nella Provincia del Capo, il 3 giugno del 1900) un prodotto abbastanza tipico, pur nella sua eccentricità, di quel particolare clima culturale: rimasta orfana, ma con una rendita annua di 500 sterline, la testa piena di letture africane, senza por tempo in mezzo, partì da sola per il Continente Nero e si improvvisò esploratrice, benché del tutto priva di esperienza. Salvò a stento la vita in alcune situazioni estremamente rischiose e fu abbastanza fortunata da ritornare incolume dai suoi due viaggi, divenendo di colpo una scrittrice e conferenziera celebre e apprezzata; per ironia, la morte la colse in Africa, non come viaggiatrice, ma come infermiera.
Un ritratto attendibile di questa singolare figura di donna della fine del XIX secolo è riassunto nella seguente pagina di testo (da: A.A.V.V., «Il grande libro dei fatti curiosi e incredibili»; titolo originale: «Did you know?»; Selezione dal Reader’s Digest, 1990, p. 299):
«Africa occidentale, 1893: la Tomba dell’Uomo Bianco, una grande regione coperta di mangrovie e foresta pluviale tropicale, largamente inesplorata, dove malattie mortali come la malaria e la febbre gialla erano endemiche. Gli europei raramente vi si addentravano e quelli che lo facevano affrontavano cannibali e animali feroci.
Mary Henrietta Kingsley, una trentenne viaggiatrice inglese, si fece strada in questa giungla ostile e malsana, a piedi o in canoa, solo con un piccolo seguito di portatori africani.
Essa compì due spedizioni in Africa, nel 1893 e nel 1894. Durante la prima giunse fino alle attuali Angola, Nigeria e nell’isola di Fernando Poo (oggi Bioko). Con le lunghe gonne vittoriane, Mary Kingsley guadò mefitiche paludi infestate da coccodrilli, spesso affondando fino al collo, attaccata quasi continuamente da sanguisughe e zanzare.
Ogni giorno si verificavano incontri con pericolose belve divoratrici di uomini. Quando i coccodrilli minacciarono di rovesciare la sua canoa, essa li scacciò battendoli con la pagaia e in un’altra occasione spaventò un leopardo che era entrato nella sua tenda gettandogli addosso una brocca d’acqua.
Durante la sua seconda spedizione, nel 1894, esplorò il Congo francese e fu la prima europea a entrare nel Gabon. Imparò a condurre una canoa con una mano sola e fu la prima persona a navigare il fiume Ogooué, un viaggio rischioso attraverso una lunga serie di rapide e gorghi.
May Kingsley era ossessionata dall’Africa fin dalla giovinezza, ma i suoi viaggi avevano uno scopo scientifico: molti esemplari di piante e animali da lei raccolti erano fino ad allora sconosciuto e tre specie di pesci da lei scoperte riprendono nel nome scientifico il suo.
Lo scopo principale di Mary Kingsley era però quello di studiare la religione e i costumi dei Fang, una tribù di cannibali, pochi dei quali avevano mai visto un uomo bianco. Un giorno, mentre si aggirava cautamente intorno a un villaggio fang, inciampò e cadde dall’alto attraverso il tetto di una capanna. Temendo di finire in pentola, placò i sorpresi occupanti regalando loro tabacco, fazzoletti e il suo coltello e riuscì a cavarsela con un semplice graffio sul gomito.
Tuttavia ben presto stabilì contatti più formali con i Fang, fornendo merci in cambio di informazioni, cibo e riparo. Provò a mangiare gli strani piatti dei Fang e una volta le fu servito serpente schiacciato con foglie di platano, un pasto che definì "misero e abominevole".
Il suon alloggio era ancora più inquietante. Una notte, trovando insopportabile la puzza di una capanna, scoprì che il pungente odore proveniva da alcuni piccoli sacchetti appesi al soffitto. Dopo aver vuotato il contenuto nel proprio cappello, vide con orrore che si trattava di "una mano, tre alluci, quattro occhi, due orecchie e altre parti di corpo umano".
Malgrado le tremende abitudini dei Fang, May Kingsley passò molto tempo presso di loro e per prima studiò in modo approfondito i loro costumi. Alla fine di questo viaggio, fu la prima donna bianca, e forse la prima donna in assoluto, a scalare il Monte Camerun. Come al solito, compì gran parte dell’ascesa da sola e lasciò in cima il proprio biglietto da visita.
Al suo rientro in Inghilterra scrisse due resoconti delle sue esperienze, "Travels in West Africa" ("Viaggi nell’Africa occidentale"), nel 1897, e "West African Studies" ("Studi sull’Africa occidentale"), nel 1899, che diventarono immediatamente bestseller. Anche le conferenze che tenne in tutto il paese furono accolte calorosamente.
In un’epoca in cui si pensava che le donne dovessero restare assolutamente in casa, Mary Kingsley osò ciò che pochi uomini osavano. Morì di febbre tifoidea il 3 giugno 1900 mentre faceva l’infermiera in un campo di prigionieri di guerra boeri a Simonstown, in Sudafrica.»
Il caso di Mary Kinglsley — che, come abbiamo visto, non è affatto isolato: e si potrebbe accostarlo a quello di una giovane ungherese, Florence Baker, che accompagnò il marito, l’esploratore inglese Samuel Baker, nei suoi viaggi avventurosi per sciogliere il mistero delle origini del Nilo — va inserito, comunque, nel contesto più ampio della febbre dei viaggi, esplosa in Europa e negli Stati Uniti appunto in quegli anni: nel 1873 era stato pubblicato «Il giro del mondo in 80 giorni», di Jules Verne, vera e propria Bibbia del moderno viaggiatore di professione, infervorato dal treno, dalla nave a vapore e persino dal pallone aerostatico.
Il fatto che la Kingsley fosse una donna che viaggiava tutta sola in luoghi inesplorati non deve essere enfatizzato, perché non equivale ad una esplicita presa di posizione "femminista", mentre la febbre del viaggio aveva colpito un po’ tutti, sia uomini che donne. Al contrario, ella non prese posizione a favore delle "suffragette", mostrando di non condividere le loro battaglie e rivelandosi, su quel terreno, stranamente "conservatrice": proprio lei, che non si era fatta scrupolo di scandalizzare una parte del pubblico delle sue conferenze, criticando l’operato dei missionari protestanti e sostenendo che i popoli africani dovevano essere lasciati liberi, per quanto possibile, di seguire le loro tradizioni ed i loro costumi tradizionali, poligamia compresa (non sappiamo se si sia spinta fino ad auspicare la tolleranza nei confronti del cannibalismo, che pure conobbe personalmente nel corso dei suoi viaggi pionieristici).
Piuttosto che in relazione con il movimento femminista, la biografia di May Kingsley può essere rivelatrice di una tendenza profonda entro la società europea, se inquadrata nella generale crisi di identità della donna moderna, nel rifiuto o nella diffidenza verso il suo tradizionale ruolo di madre, nell’inquietudine e nel bisogno di evasione verso una vita "diversa", senza peraltro avere affatto un chiaro modello alternativo, da opporre a quello "classico" («Casa di bambola» di Henrik Ibsen è del 1879; «Il risveglio», di Kate Chopin, è del 1899: la vita di Mary Kingsley si colloca fra queste due date ideali). E qui, tuttavia, preferiamo fermarci e non andare oltre: lasciamo agli psicanalisti freudiani il discutibile piacere di avventurarsi oltre sulle possibili interpretazioni della nevrosi femminile, anzi, di interpretare come "nevrosi" qualunque manifestazione, anche sanissima, di inquietudine o di disagio nei confronti dell’esistente (fra parentesi: se "penetrare" la foresta vergine è una tipica pulsione fallica dell’inconscio maschile, che cosa sarà mai una siffatta pulsione, da parte di una donna?).
Quanto alla smania dei viaggi, non si può certo dire ch’essa sia diminuita e, anzi, appare evidente come sia andata crescendo in misura esponenziale (cfr. il nostro precedente articolo: «Viaggiare o restare?», pubblicato sul sito di Arianna Editrice in data 14/01/2011); con la sola differenza che, ai nostri giorni, chi sia animato da un autentico spirito avventuroso — e non da uno fasullo, come certi appassionati di caccia grossa descritti da Hemingway, che sognano safari "eroici" senza averne punto la stoffa -, per realizzare imprese equivalenti alla scalata del Monte Camerun da parte di Mary Kingsley, devono battere la strada degli sport estremi o delle avventure semi-suicide, come quelle (per intenderci) che ebbero per protagonista Ambrogio Fogar, prima alla deriva su una zattera per 74 giorni, nell’Atlantico meridionale, indi vittima di un gravissimo incidente nella corsa automobilistica Pechino-Parigi, che gli spezzò la schiena e lo tenne impietosamente inchiodato ad un letto o a una sedia a rotelle per gli ultimi tredici anni della sua vita.
Certo, lo ripetiamo: il confine tra una sana passione per l’avventura e per l’ignoto e una patologia psichica come la nevrosi, che è sempre una fuga davanti alla realtà, è, sovente, estremamente difficile da riconoscere, e colpisce, senza dubbio, tanto gli uomini che le donne. Per gli uomini, essa conduce ad un perenne peregrinare, talvolta stranito e incuriosito di se stesso: pensiamo a «Che ci faccio qui?» di un Bruce Chatwin, il solitario della Patagonia; ma anche a un film come «Into the Wild» di Sean Penn, tratto dal romanzo di Jon Krakauer «Nelle terre estreme». Per le donne, forse più introspettive, certo più complesse nella loro psicologia, diciamo pure più tortuose, può sortire un "viaggio" intorno a se stesse, connotato di più o meno vaghe implicazioni spirituali, e, talvolta, nella ricerca di una supposta saggezza "sciamanica" originaria (pensiamo a «Donne che corrono coi lupi» di Clarissa Pinkola Estés).
Una cosa è certa: il viaggiare non serve a nulla, se viene inteso come un surrogato, o, peggio, come una elusione dell’unica conoscenza che importi veramente nella vita quella di se stessi. Chi la possiede, o, almeno, chi l’ha intrapresa, può anche permettersi il lusso di esplorare foreste e scalare montagne; chi no, farebbe meglio a restarsene a casa. S’intende: se vuol essere onesto con se stesso.
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