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Un vescovo nella tempesta: Eugenio Beccegato, a Ceneda, dopo la rotta di Caporetto

Monsignor Eugenio Beccegatto, nato nel 1862 a Fossalta di Trebaseleghe (in provincia di Padova, ma nella Diocesi di Treviso) consacrato sacerdote nel 1886, canonico della cattedrale di Treviso nel 1903, ebbe la ventura di entrare nella Diocesi di Ceneda (denominata solo nel 1939 di Vittorio Veneto), nel 1917, dapprima, il 19 maggio, come amministratore apostolico, indi, il 29 agosto, come nuovo vescovo di essa. Mancavano meno di due mesi alla rotta di Caporetto, che pochi esperti di strategia militare potevano forse intuire, ma che l’opinione pubblica e lo stesso esercito, nel complesso, non si aspettavano affatto, tale fu la sorpresa che colse i vertici politici e militari dello Stato allorché, bruscamente, se ne diffusero le prime, ancor confuse notizie.

Due mesi appena: Beccegato aveva appena fatto in tempo ad insediarsi, presentandosi ai suoi diocesani come il buon pastore che avrebbe preso su di sé tutti i sacrifici necessari, e promettendo di mettere loro a disposizione tutte le risorse che gli fossero state umanamente possibili: insomma come un vescovo pronto a dare il massimo e a domandare il minimo. Consacrato vescovo di Sinope, in Turchia (investitura puramente nominale, ma rientrante in una prassi cattolica da gran tempo osservata) il 17 giugno, cinque giorni dopo era entrato nella Diocesi di Ceneda come amministratore apostolico e alla fine di agosto era stato nominato vescovo di quella città. Alla fine di ottobre il Friuli era invaso dai Tedeschi e dagli Austro-Ungarici e, ai primi di novembre, fallito un incerto tentativo delle nostre truppe di arrestarli sulla linea del Tagliamento, si presentavano ai confini della pianura veneta.

Di fronte alla gravissima iattura, con una immensa valanga di profughi, i quali, disperati, abbandonavano le loro case, portando con sé, a dorso d’animale o su miseri carretti, le poche masserizie che avevano potuto affastellare, mentre le case, i beni e i poderi restavano in balia di eserciti stranieri imbaldanziti dalla facile vittoria e decisi a requisire tutto ciò che le terre invase avessero potuto offrire, ai vescovi del Friuli e del Veneto orientale — così come, del resto, ai sindaci e agli amministratori civili – si pose un difficile dilemma: partire anch’essi, diretti verso le sedi destinate ai profughi in qualche località dell’Italia centro-meridionale, oppure rimanere nelle rispettive diocesi, al fianco di quanti non avevano potuto, o voluto, partire, e affrontare i rischi e le incognite della dura occupazione nemica. Vale pertanto la pena di soffermarsi brevemente per vedere quale fu il comportamento che essi adottarono, pur fra mille comprensibili dubbi e tormenti interiori, in quei drammatici frangenti.

L’arcivescovo di Udine, il milanese Antonio Anastasio Rossi (1864-1948), decise di abbandonare la sua città e di seguire l’esercito italiano nella ritirata, fino a un luogo sicuro (decisione che gli avrebbe attirato aspre critiche e che sarebbe stata causa d’infinite polemiche); il vescovo di Concordia (oggi: Pordenone-Concordia), il friulano Francesco isola (18450-1926), al contrario, decise di restare al fianco della popolazione: cosa che, paradossalmente, nel novembre del 1918, quando le nostre truppe rioccuparono la sua sede episcopale di Concordia, lo espose ai maltrattamenti dei soldati che vedevano in lui una specie di traditore o, quanto meno, un vescovo di sentimenti filo-austriaci. Il vescovo di Treviso, il padovano Andrea Giacinto Longhin (1863-1936), benché Treviso fosse vicinissima alla linea del fronte, sul Piave, e la popolazione del capoluogo fosse stata fatta evacuare, per metterla al riparo dai bombardamenti, non solo rimase, ma invitò tutti i suoi sacerdoti a fare altrettanto.

Infine a Belluno, dove gli Austriaci si abbandonarono al saccheggio e portarono via perfino la copertura in rame dell’angelo sul campanile del Duomo, il vescovo di Belluno e Feltre (nel 1986 le due diocesi sono state definitivamente unite, ma allora erano nominalmente distinte, anche se, dal 1818, avevano un unico vescovo), il friulano Giosué Cattarossi, insediatosi un paio d’anni prima della guerra, si vide addirittura impedita la visita pastorale alle parrocchie della sua diocesi: le autorità austriache non si fidavano di lui, e intendevano eliminare qualunque occasione potesse rinfocolare, anche indirettamente, il sentimento nazionale italiano.

Le vicende dell’invasione austro-tedesca nella Diocesi di Ceneda sono state annotate, su un quaderno di appunti, da una testimone d’eccezione, una suora destinata divenire un personaggio illustre della Chiesa cattolica nei decenni successivi: la veronese Maria Pia Mastena (1881-1951), futura fondatrice della Congregazione religiosa delle suore del Santo Volto, che allora era direttrice di un centro delle suore della Misericordia, nel paese di Miane, ai piedi delle Prealpi Bellunesi, non lontano dall’antica abbazia cistercense di Follina. Suor Maria Pia Mastena (che avrebbe ottenuto l’approvazione ufficiale del suo istituto nel 1936 e che sarebbe poi stata beatificata nel 2005, da papa Benedetto XVI), oberata di lavoro, specialmente dopo l’invasione, non si dilunga in inutili particolari o in commenti superflui: riporta solo i fatti essenziali, e questa ritrosa, pudica sobrietà rende ancora più toccanti le sue annotazioni.

Oltre alle poche frasi di Suor Mastena, possediamo copia delle due lettere che il vescovo Beccegato scrisse, dal suo Castello di S. Martino, a Benedetto XV (il papa che aveva definito la guerra, destando vive polemiche, una «inutile strage») per tenerlo informato della situazione nella Diocesi di Ceneda durante l’invasione austro-tedesca, la prima delle quali andò smarrita. Sono documenti di notevole interesse storico e anche umano, perché, esprimendosi in maniera pacata e il più possibile oggettiva — egli sapeva, infatti, che le lettere sarebbero state lette dalla censura austriaca — il vescovo delinea un quadro eloquente delle condizioni in cui versava la popolazione e la tremenda prospettiva, per essa, di dover affrontare, con un esercito in casa d’invasori, a loro volta, affamati, quello che sarebbe diventato, nella loro memoria, «l’anno della fame».

La prima delle due lettere, comunque, risulta più emotiva, più sofferta, più intensamente drammatica: si sente che il vescovo l’ha scritta d’impulso, sotto l’impressione traumatica della recente invasione e, si direbbe, in un momento di particolare sconforto, quando il senso d’impotenza di fronte all’immensa calamità e, soprattutto, alla mancanza di viveri per la popolazione, deve averlo turbato sino in fondo al’anima. Inoltre, poiché non si perita di chiamare le cose con il loro nome — ad esempio, i saccheggi effettuati dalle truppe nemiche, seguiti dalle requisizioni "legali", ma non meno brutali e sistematiche — è molto probabile che, sena rendersene conto, abbia fatto scattare l’altolà della censura. Più pacata, più rassegnata, più sobria la seconda lettera: documento che, pur nella sua brevità e commozione, risulta, se possibile, ancora più coinvolgente e più umanamente toccante del primo.

Riportiamo entrambi da una pagina della biografia «Sua Eccellenza monsignor Eugenio Beccegato, vescovo di Vittorio Veneto», pubblicata nel cinquantennale della scomparsa (a cura di Filippo D’Amando, Teramo, Editoriale Eco, 1993, pp. 15-19):

«Seguendo il diario personale di Madre Maria Pia Mastena, fondatrice della Congregazione delle Religiose del Santo Volto, troviamo soltanto poche noticine che si riferiscono all’occupazione.

"1-2 novembre 1917: trepidazione per la temuta occupazione. 9 novembre: occupazione austro-ungarica-germanica. 10 novembre: passaggio di truppe. Desolazione generale."

Il primo dicembre S. E. Mons. Eugenio Beccegato, da pochi mesi in Diocesi, ne dava ragguaglio al Santo Padre con una prima lettera che non arrivò mai a destinazione.

"Beatissimo Padre, finalmente posso prendere la penna e scrivere a Vostra Santità.

Il Comando Germanico di Vittorio mi ha assicurato che, attraverso via diplomatica della Nunziatura Apostolica di Monaco di Baviera, io avrei potuto far pervenire la presente lettera a V. Santità.

Permettete dunque, Beatissimo Padre, che io trasfonda nel vostro cuore paterno, tutta l’ambascia da cui il povero mio cuore è oppresso e vi renda conto dell’attuale disastrosa condizione di questa povera Chiesa Cenedese, così provata dalla tremenda sciagura. Premetto che non è per fare recriminazioni contro chicchessia che io vi scrivo: non devo, né voglio nutrire nessun risentimento di odio contro nessuno, anche coloro che ora ci possiedono e ci governano sono sudditi di V. Santità, e, in qualche modo, finché rimango qui, cadono sotto la mia giurisdizione spirituale; io prospetto oggettivamente e storicamente i fatti come si svolsero sotto i miei occhi, in relazione a questa mia Diocesi Cenedese.

Fin dai primi del passato novembre, furono sospesi tutti i mezzi di trasporto e di comunicazione, cosicché, da un mese noi siamo all’oscuro di tutto ciò che succede nel mondo.

Il giorno 8, alle ore 10, entrarono a Vittorio le prime truppe austriache, seguirono le tedesche, poi le austriache, poi le tedesche nuovamente e tuttora continua il passaggio. Precedettero i saccheggi diurni e notturni delle truppe sbandate, poi le requisizioni di tutto. Lo spettacolo è desolante! In pochi giorni, da uno stato economico floridissimo, che aveva del favoloso, per la straordinaria abbondanza del raccolto, queste popolazioni sono passate nella più desolante miseria e lo spettro della fame alle porte di migliaia e migliaia di famiglie dell’intera Diocesi, che dalle Prealpi bellunesi si protende, fra il Livenza e il Piave, fino alla laguna; e presentasi quindi come il teatro principale della battaglia Pensi, Beatissimo Padre, quanto soffre questo povero Vescovo, nel trovarsi in mezzo a centinaia di migliaia di figli, che tra breve dovranno soffrire e languire di fame! I benestanti sono passati quasi tutti alla destra del Piave, lasciando in balia del saccheggio le loro case e le loro robe. Io non so che cosa fare, come soccorrere tante miserie: mi porto tutto il giorno per le vie della città, per le parrocchie del suburbio, a piedi perché mancano i mezzi di trasporto, entro nelle case dei poveri, dei contadini e non vedo che lacrime, non odo che gemiti e sospiri. I granai, le stalle, i fienili vuoti e spogliati di tutto: non c’è più nulla! E che sarà domani? Mio Dio! Quale noviziato sanguinoso mi avete voi riservato nel mio ufficio pastorale! Passo sotto silenzio quanto devo soffrire pur io personalmente, non avendo più nulla da mangiare nella mia residenza del castello Vescovile, quando mi vidi, sotto gli occhi, rapinato l’ultimo pollo e dovetti cedere il mio appartamento in piazza del Duomo a una sezione del Comando Germanico. Mi sono rifugiato in una camera del Seminario e qui faccio vita comune con alcuni Canonici e Professori che mi assistono e si moltiplicano per soccorrere la comune miseria… Soffro molto, Padre Santo, per questa tremenda sciagura de’ miei figli, ma ringrazio il Signore di essere in mezzo a loro, sebbene non abbia potuto fin qui che condividere con loro le lacrime e i sospiri, e ringrazio pure il Signore che siano rimasti fedeli al loro posto anche quasi tutti i Parroci e Sacerdoti della Diocesi: dico "quasi" perché alcuni hanno dovuto sgombrare e fuggire con la loro popolazione per la caduta di granate sulla linea del Piave…"

La lettera non arrivò a destinazione. Lo pensò Mons. Beccegato che tornò a scrivere al papa il 30 dello stesso mese:

"Beatissimo Padre, poiché mi è permesso di comunicare per via diplomatica con la santa Sede mi sento in bisogno di umiliare nella solenne ricorrenza del nuovo anno, a nome del Rev.mo Capitolo e di tutti i Parroci della Diocesi, dei quali, sebbene lontani, sono fedele e legittimo interprete, i miei più fervidi auguri per il nuovo anno… Padre Santo, nella mia prima lettera che vi inviai un mese fa facevo una minuta descrizione delle terribili conseguenze della guerra in questa Diocesi, ma forse quella lettera non sarà pervenuta nelle Vostre mani perché probabilmente saranno state intralciate le vie di comunicazione anche con la Santa Sede… Sebbene fin qua, non abbia sofferto vessazioni personali, mi limito a riferirvi con grave dolore che, a motivo del lungo combattimento sul Piave, purtroppo molte chiese sono state lesionate e abbattute e moltissime famiglie di profughi soffrono i rigori dell’esilio, del freddo e della fame. Quasi tutti i sacerdoti sono al loro posto e compiono con ammirabile abnegazione il loro dovere in assistenza dei loro figli attenti e dispersi."

Sulle vicende della prima lettera, S. E. Mos. Beccegato non si era sbagliato. Il 18 gennaio infatti gli giungeva dal comando germanico il dispaccio: "Si avverte che la sua lettera del 1° dicembre 1917 non fu potuta far pervenire alla Santa Sede per ragioni d’indole militare. V. S. Vescovile si asterrà quindi da far cenno alla medesima nei futuri invii".»

Il quale ultimo ha tutta l’aria di un tacito avvertimento: «Se volete che le vostre lettere al papa giungano a destinazione, misurate le parole e badate a come vi esprimete e a che cosa riferite. Non dimenticate mai chi comanda qui, adesso, e a chi vi dovrete rivolgere ogni volta che desideriate inoltrare la vostra corrispondenza.» Questa, naturalmente, è solo una nostra impressione. Ma, se così non fosse, e se le ragioni del mancati recapito della prima lettera fossero state del tutto indipendenti dalla "buona volontà" del Comando tedesco, per quale mai ragione quest’ultimo avrebbe dovuto aggiungere quell’inutile, perentorio e vagamente minaccioso invito a non fare più cenno, in futuro, ai contenuti della precedente missiva?

Sulle condizioni in cui venne a trovarsi la popolazione delle regioni friulane e venete raggiunte dall’invasione austro-tedesca dopo caporetto, esiste ormai una ricchissima letteratura, corroborata da una altrettanto ricca memorialistica di uomini e donne comuni, di preti, di professionisti, di pubblici amministrati eri (quelli che non vollero andarsene, ma scelsero di rimanere ad affrontare l’occupazione, per non dividere il loro destino da quello della parte più povera degli abitanti, privi dei mezzi necessari a sostenere l’esilio).

A tale mole di documenti si deve quindi aggiungere la testimonianza di due personaggi d’eccezione, una suora che avrebbe imboccato la via della santità e un vescovo che, appena insediato nella sua diocesi, tutto si sarebbe aspettato, tranne che di dover sopportare una simile bufera: ma che poi, alla prova dei fatti, mostrò di saperla sopportare con dignità e forza d’animo, costituendo, per un anno intero, un costante punto di riferimento spirituale e morale per il clero e per la popolazione di quella martoriata terra, divenuta il principale campo di battaglia dell’intera guerra sul fronte italiano, fino alla sua conclusione.

Fonte dell'immagine in evidenza: Wikipedia - Pubblico dominio

Francesco Lamendola
Francesco Lamendola
Nato a Udine nel 1956, laureato in Materie Letterarie e in Filosofia all'Università di Padova, ha insegnato dapprima nella scuola elementare e poi, per più di trent'anni, nelle scuole medie superiori. Ha pubblicato una decina di libri, fra i quali L'unità dell'essere e Galba, Otone, Vitellio. La crisi romana del 68-69 d.C, e ha collaborato con numerose riviste cartacee e informatiche. In rete sono disponibili più di 6.000 suoi articoli, soprattutto di filosofia. Attualmente collabora con scritti e con video al sito Unione Apostolica Fides et Ratio, in continuità ideale e materiale con il magistero di mons. Antonio Livi.
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